Belli. Sonetti. “Er papa novo”. L’elezione al pontificato di Pio IX.

Belli. Sonetti. “Er Papa novo”, 21 Ottobre 1846

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

           

 

“Er Papa novo”                        21 ottobre 1846

 

Che ce faressi? è un gusto mio, fratello:

su li gusti, lo sai, nun ce se sputa.

Sto Papa che c’è mò ride, saluta,

è giovene, è a la mano, è bono, è bello…                                  4

 

Eppuro, er genio mio, si nun ze muta,

sta più p’er Papa morto, poverello!:

nun fuss’antro pe avé mess’in castello,

senza pietà, quela ginìa futtuta.                                       8

 

Poi, ve pare da Papa, a sto paese,

er dà contro a prelati e a cardinali,

e l’uscì a piede e er risegà le spese?                                          11

 

Guarda la su’ cucina e er refettorio:

sò propio un pianto. Ah queli bravi sciali,

quele belle magnate de Grigorio!                                             14

 

Che cosa vuoi farci? E’ un gusto mio, fratello: e non si discute sui gusti, lo sai. Questo Papa che è stato appena eletto ride, saluta tutti, è giovane, è alla mano, è buono, è bello… Eppure, se il papa non cambia modo d’agire, la mia preferenza va più al Papa che è morto, poveretto!: non fosse altro per aver rinchiuso in Castel Sant’Angelo, senza alcuna pietà, quella genìa futtuta, la razza maledetta dei giacobini e dei liberali. Poi, vi sembra un atteggiamento da papa, in un paese come questo, l’opporsi ai cardinali e ai prelati di Curia, e andare in giro a piedi e tagliare le spese? Guarda la sua cucina e il suo refettorio: sono proprio un pianto, una tristezza, tanto sono parchi. Ah! Quei begli sprechi di papa Gregorio!

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

Analisi.

Morto Gregorio XVI  il 1° giugno 1846, il 16 giugno era stato eletto papa il cardinale Mastai Ferretti che aveva assunto il nome di Pio IX. I primi mesi del pontificato segnarono un momento di forte innovazione: ci fu un’amnistia per i detenuti politici, furono ridotte le spese di rappresentanza della corte pontificia e i romani videro anche il nuovo papa andare a piedi fino alla chiesa dell’Umiltà per celebrarvi una Messa. Il personaggio che parla nel sonetto, un reazionario della più bella pasta, un sanfedista, abituato com’è a tutt’altro, sembra non riconoscere in queste azioni un comportamento da vero papa.

Introdotto dal giudizio espresso nel v. 2, “su li gusti, lo sai, nun ce se sputa”, versione caricaturale del motto latino, “de gustibus non est disputandum”, viene presentato il ritratto del nuovo papa, un pontefice che sorride, saluta, è giovane, si fa avvicinare facilmente, “è bono, è bello”… Questi pochi versi commentano bene la figura del nuovo papa, uomo sinceramente religioso, di temperamento un po’ nervoso ma di modi bonari e spiritosi, facile a guadagnarsi la simpatia di quanti lo avvicinavano. Gli storici però annotano che non aveva qualità politiche spiccate e che non arrivava al pontificato con un programma preciso. Tuttavia il fatto di essere nato e quasi sempre vissuto nello Stato pontificio e di avere risieduto a lungo in Romagna faceva sì che egli conoscesse bene la situazione interna dello Stato e si rendesse conto della necessità di un mutamento di politica.

Papa Gregorio XVI aveva lasciato lo Stato pontificio in una situazione di estrema gravità. La sua morte era stata salutata da un’ondata di sollievo in tutta Italia. Persino il Giordani, sempre così misurato, scrisse: “Quel porco di fra Mauro è morto, abbandonato da tutti nel letto pieno di merda e marcia. Egli che di 90 milioni di franchi ha cresciuto il debito dello Stato, ne ha intascato 40 per la sua famiglia” (Lettera ad Antonio Gussalli del 22 agosto 1846). Così scompariva il personaggio principale della “Commedia umana” del Belli. Tra le carte del poeta, dopo la sua morte, fu trovata appuntata la frase: “A Papa Grigorio je volevo bene, perché me dava er gusto de potenne dì male”; era forse un appunto per un sonetto e aveva tutto il valore ironico e antifrastico presente in abbondanza nei testi belliani.

Il conclave si era riunito il 14 giugno al Quirinale. Malgrado la maggioranza dei cardinali fosse di tendenza reazionaria, dato il momento di estrema gravità e l’aspettativa in tutto il mondo cattolico, vinse l’opinione di coloro che volevano eletto un uomo nuovo, che non fosse compromesso con l’impostazione reazionaria del pontificato precedente. Fu il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, vescovo di Imola, a prevalere sul cardinale Lambruschini, candidato reazionario, e sul Gizzi, appoggiato dai pochi liberali. Il cardinale Mastai, nato a Senigallia il 3 marzo 1792, aveva 54 anni.  

Qualche giorno dopo, il 27 ottobre 1846, Belli scrive questo sonetto:

 

                                               Er Papa pacioccone

 

Ma che bon papa, eh? ma che animella!

Si aspetti un papa simile, si aspetti,

Hai prima da vedé ssu ppe li tetti

Li merluzzi a ballà la tarantella.                                     4

 

Quanno te guarda lì co quel’occhietti,

Co quella su’ boccuccia risarella,

Nun te senti arimove le budella?

Nun je daressi un bacio a ppizzichetti?                           8

 

E’ papa, è vicecristo, è quer che vòi;

Eppuro, và, in parola da cristiano,

A me me pare proprio uno de noi.                                   11

 

Dimme la verità, mastr’Ilarione,

Ce la trovi la mùtria da sovrano?

Ce la scopri la faccia da padrone?                                   14

 

Ma che buon papa, eh? ma che animella (nella cucina romana è la ghiandola dell’abbacchio o del vitello, una cosa delicata e prelibata)! Se aspetti un papa così, se aspetti, prima devi vedere su per i tetti delle case i merluzzi che ballano la tarantella. Quando ti guarda in faccia con quei suoi occhietti, con quella sua boccuccia sorridente, non ti senti rimuovere gli intestini? Non gli daresti un bacio a pizzichetti (prendendo la guancia tra l’indice e il pollice, come si fa con i bambini)? E’ papa, è il vicario di Cristo, è quel che vuoi; eppure, guarda un po’, in parola da cristiano, a me sembra proprio uno di noi. Dimmi la verità, mastro Ilarione, in quella faccia ci trovi il cipiglio di un sovrano? Ci scopri la faccia da padrone?

 

                                                                  Gennaro  Cucciniello