Benevento e Castelseprio (Varese): rapporti in Italia tra Oriente e Occidente nell’VIII-IX secolo d. C.

Benevento e Castelseprio: rapporti in Italia tra Oriente e Occidente nell’VIII-IX secolo d. C.

 

Benevento, in Campania, e Castelseprio –nucleo archeologico interessantissimo in provincia di Varese, non distante da Castiglione Olona- possiedono due tesori, la chiesa di S. Sofia nel primo centro e la chiesetta di S. Maria foris portas nel secondo. In questo mio scritto mi propongo di spiegare i legami tra i due cantieri architettonici e pittorici inquadrandoli nella complessa storia di un secolo dell’alto Medio Evo, dal 750 all’850 d. C., secolo che assiste prima all’estenuarsi del dominio longobardo in Italia, all’arrivo poi nella nostra penisola dei Franchi di Carlo Magno e alla creazione del Sacro Romano Impero carolingio. Questo è un periodo contraddittorio. I critici scrivono che la tradizione culturale antica sopravvive entro realtà diverse che di volta in volta  l’arricchiscono e la modificano, e l’universalità dell’impero carolingio farà sì che queste eterogenee realtà possano intrecciarsi ed esprimersi. In Italia il modello antico desunto dall’Oriente mediterraneo giunge direttamente e nella nostra penisola non viene mai meno il rapporto con la cultura classica ed ellenistica; altri elementi derivano dalla cultura longobarda vinta ma nello stesso tempo assimilata. I longobardi, convertitisi in modo pieno al cattolicesimo col sinodo del 698 –promosso dal re Cuniberto- e nel pieno della crisi iconoclasta in Oriente, erano ormai fusi in un popolo solo coi latini e mancava loro soltanto la conquista di Roma per unificare l’Italia quando il papa Stefano II sollecitò una nuova invasione germanica, quella dei Franchi. Alla corte palatina carolingia di Aquisgrana ai modelli romani si accosta, portata da Alcuino di York e dall’ambiente monastico, la tradizione anglosassone e irlandese.

Poche opere pittoriche di quell’epoca sono sopravvissute; perciò sono molto preziose le scarse documentazioni pervenuteci integre e di cui poi mi occuperò. A completare le nostre conoscenze è importantissimo il ricco patrimonio di opere miniate, lavoro di straordinaria qualità dei monaci negli scriptoria delle abbazie che i carolingi disseminano nelle terre dell’impero. Lo scriptorium monastico era un’isola di cultura umanistica in cui convivevano personaggi di culture differenti che davano vita, non sappiamo se con facilità o a prezzo di scontri significativi, ad un dialogo culturale e ideologico interessante e fruttuoso.

Benevento. Chiesa di Santa Sofia. Architettura e affreschi. A sud di Roma, nella seconda metà dell’VIII secolo, si assiste al consolidarsi di una realtà territoriale capace di elaborare in autonomia un’attrezzatura e un orientamento culturali, frutto dell’accordo tra i gruppi dirigenti longobardi e l’abbazia di Montecassino, nella stretta tra i tentativi di conquista franca dal nord e gli attacchi saraceni da sud. L’abbazia cassinese, fulcro del rinnovamento spirituale europeo, si era subito proposta come grande polo di cultura in grado di attrarre, col suo vivacissimo scriptorium, le migliori energie politiche e intellettuali da ogni parte del continente. Nella Langobardia Minor (era questo il nome che definiva i territori dei ducati longobardi di Benevento e di Salerno) l’esperienza di governo di Arechi II (758-787) si era segnalata per i buoni rapporti con Bisanzio (da dove arrivavano stoffe, oggetti raffinati, prodotti di lusso): il che gli aveva anche consentito di sopravvivere politicamente alla discesa di Carlo Magno in Italia e alla morte di Desiderio, ultimo re longobardo.

santa sofiaLa chiesa di Santa Sofia, santuario della nazione longobarda beneventana, fu costruita per volere del duca Arechi II dal 758 al 768 e fu consacrata dal vescovo Davide. Già nel nome l’edificio rimandava all’Aghia Sofia (Sapienza divina) con un esplicito riferimento alla splendida basilica di Costantinopoli; altri collegamenti si fanno con la chiesa dei SS. Sergio e Bacco, sempre di Bisanzio, e col S. Vitale di Ravenna. E’ un’opera assolutamente innovativa: presenta una complessa struttura stellare con tre absidi, con un primo giro di colonne disposte ai vertici di un esagono e con un secondo e più largo giro di pilastri quadrangolari e colonne disposte ai vertici di un decagono; il tutto genera una specie di doppio deambulatorio. Questa espressiva frammentarietà dello spazio interno suggerisce una varietà imprevedibile di scorci e un ininterrotto dinamismo architettonico. sofia, internoL’effetto di dilatazione provocato dalla straordinaria planimetria (una pianta stellare inscrivibile in un cerchio) è accresciuto dalla copertura a volte ed esaltato dalla luce –la grazia di Dio- che scende dalle finestre dell’alto tamburo che sorregge la cupola del vano centrale. Il modello per questo slanciato corpo centrale fu la chiesa di S. Maria in Pertica a Pavia mentre per l’articolazione dei volumi, per l’incessante variare della spazialità interna in connessione col variare dei punti di vista, è più che opportuno il riferimento ai modelli bizantini sopra citati, segno dell’apertura dei ducati longobardi meridionali a un dialettico rapporto con differenti modelli culturali. La decorazione interna era a colori vivacissimi con bianchi, ocra, rossi, verdi, marroni: c’era la precisa volontà di creare, nell’ambiente chiuso, fantastici effetti spaziali. La chiesa fu, a quei tempi, la più geniale e nuova costruzione d’Italia, espressione della civiltà delle corti longobarde. In queste realtà, accanto a manifestazioni riecheggianti le origini barbariche (forma stellare e tetto a capanna della chiesa l’hanno fatta anche considerare imitazione in muratura della tenda del capo) doveva esserci un grande fervore di vita, un’aspirazione verso il nuovo e lo straordinario.

Gli affreschi. Tra i critici c’è controversia sulla loro datazione. Alcuni propendono per il 760-770, contemporanei quindi alla costruzione della chiesa, e ne fanno perciò una delle prime significative testimonianze della cosiddetta “arte beneventana” (in connessione con l’elaborazione della nuova scrittura minuscola, detta appunto beneventana, la quale, sorta in questo VIII secolo in uno scambio che vede operare insieme l’abbazia longobarda di Nonantola, presso Modena, e quella di Montecassino, diventerà la scrittura nazionale dei paesi meridionali rimasti estranei alla conquista carolingia). Altri, invece, optano per una datazione più tarda, gli anni post 847, dopo un terremoto che avrebbe devastato gran parte del Sannio e imposto una ristrutturazione della chiesa. Questa scelta cronologica potrebbe metterli in relazione diretta con le pitture di S. Vincenzo al Volturno e di Castelseprio, di cui si scriverà dopo.

Il ciclo figurativo doveva essere incentrato su episodi della vita di Gesù e, più precisamente, dell’Incarnazione e dell’Infanzia di Cristo, il che costituirebbe un interessante legame con i dipinti di Castelseprio. Le sorgenti iconografiche sono sempre orientali, probabilmente siriache; nelle scene c’è una spiccata attitudine a volgere l’evento sacro in racconto spigliato, di immediata presa emotiva, proprio a causa dell’influenza delle correnti espressionistiche siro-palestinesi, ben distinte dall’impassibile arte costantinopolitana. Qualche studioso s’azzarda persino a rintracciare legami coll’eccezionale (per la cultura araba) ciclo figurativo omayyade che decora le terme del Qusayr-Amra, un castello nei pressi di Amman, in Giordania, datato al 711-713.

angeloNell’absidiola nord c’è “L’annuncio a Zaccaria”. La scena è divisa in due momenti: a sinistra l’arcangelo Gabriele, col braccio teso in avanti e la mano nel gesto della parola, annuncia la futura paternità al vecchio Zaccaria, di cui si scorge, a causa di una grossa lacuna, solo parte del ricco mantello; a destra c’è Zaccaria, reso muto dall’angelo per la sua incredulità, che mostra con un dito la sua bocca ai fedeli, in attesa davanti al tempio. La plasticità delle forme (stupendamente reso è il volto di Zaccaria) e la ricerca di movimento sembrano ispirarsi a modelli ancora tardo-romani, l’architettura e gli sfondi sono saldamente costruiti eppure appaiono lievi, c’è una straordinaria forza espressiva. Nell’absidiola verso sud sono rappresentati gli episodi dell’Annunciazione e della Visitazione. L’impianto compositivo monumentale, il pieno coinvolgimento degli attori nel difficile spazio ricurvo delle absidi, l’arditezza dei tagli fisionomici (il volto dell’angelo visto di tre quarti), la qualità del disegno e la stesura cromatica farebbero di questi affreschi un’opera senza confronti, né a ovest (nel mondo pre-carolingio) né ad est (nel mondo bizantino). Chi è il pittore? Quali le fonti immediate della sua educazione? Qualche critico azzarda: è un monaco beneventano, tornato alla sua città con un ricco bagaglio di esperienze visive acquisite nel Medio Oriente. Inverosimile, dicono altri, non perché un tal viaggio non potesse avvenire ma perché, al necessario riscontro dei fatti figurativi, tali presunte esperienze purtroppo non rivelano similitudini, almeno fino ad ora.

Gli affreschi nella cripta dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno (Isernia). Questa abbazia, fondata nel 702-703 da tre monaci benedettini di Farfa su un altopiano ai piedi delle montagne presso le sorgenti del Volturno, fu un anello importante di congiunzione tra il sud d’Italia e le scuole monastiche del nord. Nella lotta tra longobardi e carolingi si schierò apertamente con i Franchi: verso la fine del secolo un monaco franco, Autberto, grande teologo, ne divenne abate.

I monaci fondatori avevano ricevuto dal duca di Benevento un edificio tardo romano in rovina, costruito a sua volta su un centro sannita del IV secolo a. C., e lo avevano riedificato. I duchi longobardi si impegnavano nella creazione di nuovi cenobi o nell’appoggio a monasteri già esistenti anche allo scopo di creare un capillare controllo territoriale. L’abbazia ebbe successivi ampliamenti: gli scavi recenti hanno messo in luce ampie parti del monastero altomedievale, coi quartieri di alloggio per gli ospiti di riguardo, il refettorio dei monaci, le officine artigianali; tutti gli ambienti avevano finestre vetrate e pavimenti in mattoni fabbricati localmente, con iscrizioni e marchi di fabbrica. Le decorazioni parietali presenti in ogni parte del monastero, persino nei corridoi meno illuminati, sono caratterizzate dalla forte influenza di pittori beneventani che condividono il linguaggio espressivo con artisti attivi nel nord d’Italia e oltralpe. Il momento di maggiore fioritura si ebbe con gli anni abbaziali di Epifanio (824-842): proprio a questi anni risalgono le pitture della cripta che dimostrano lo spessore intellettuale e la vivacità artistica dell’abbazia.

I dipinti raffigurano l’abate prosternato ai piedi della Crocifissione, scene dell’infanzia di Gesù, il martirio dei santi Lorenzo e Stefano, la Vergine incoronata, un’immensa mano di Dio, teorie di santi e di sante. Il programma decorativo, che gli studiosi collegano agli scritti del teologo e abate Autperto, sembra dare particolare risalto a Maria attraverso la sua maternità, la sua assunzione e la sua regalità celeste. Non si dimentichi che nell’827 erano arrivati alla corte di Ludovico il Pio dall’Oriente gli scritti dello Pseudo-Areopagita secondo cui la forma visibile non è fatta per se stessa ma è immagine della bellezza invisibile divina, unico vero oggetto di desiderio.

Nella Natività Maria è distesa e forse è rappresentata prima del parto, dato che, almeno attualmente, manca il Bambino: un raro particolare sono i suoi piedi nudi e uno è delicato, benissimo conservato. Nella parete opposta c’è la scena del lavaggio di Gesù bambino, fatto da due ancelle: il nimbo crociato non lascia dubbi che deve essere Cristo ma l’episodio non discende dai Vangeli sinottici ed è una contaminazione con la Natività di Maria.

san vincenzoLa Crocifissione, offuscata ma leggibile, ha delle singolari caratteristiche. Scrive Cesare Brandi: “il Cristo è sbarbato, le mani ripiegano il pollice sui chiodi, il perizoma alla vita è assai lungo e passa sul ginocchio; ci sono cioè alcune anticipazioni sugli sviluppi iconici successivi mentre nel volto sbarbato c’è una fusione insolita del tipo del Cristo Emanuel e del Cristo maturo”. Al mondo delle correnti provinciali dell’arte orientale si collega la forte espressività con toni di alta drammaticità: la Madonna sembra precipitarsi verso il Figlio, mentre Giovanni si ritrae ed esprime, portando la mano alla guancia, tutto il suo dolore e smarrimento. Cristo appare, invece, immobile, a occhi aperti, vittorioso sulla morte.

La cultura figurativa è davvero un incrocio di carolingio e di bizantino. La teoria delle sante che avanzano verso l’altare suggerisce interessanti riflessioni. Le sante con le corone gemmate in mano ancora echeggiano la processione di santi che vediamo a Ravenna in S. Apollinare ma le corone sono addirittura di gusto longobardo come la corona ferrea di Monza. Nella parete sinistra dell’abside centrale i due bellissimi angeli, con le ali aperte e le penne ben delineate e scandite, sono un documento coloristico della più pura ornamentazione bizantina; uno di essi sarebbe lo stesso Gesù, caratterizzato dal sigillo del Dio vivente. Sono invece carolingie le grandi aureole e le fonti iconografiche che non rispondono certamente alla tradizione ortodossa di Costantinopoli.

Castelseprio. Chiesa di Santa Maria foris portas. Poco si sa sulla fondazione di questa chiesetta e sulla committenza del prezioso ciclo pittorico, uno dei gioielli dell’arte alto-medievale in Italia. Quello che è sicuro è che il contado di Castelseprio era grande al tempo del suo massimo splendore. A nord comprendeva le pievi di Lugano, a nord-ovest quelle di Cannobio, a nord-est quelle di Fino Mornasco e di Appiano Gentile, a sud quelle di Gallarate e di Somma Lombardo: un territorio, dunque, che oggi si stenderebbe su tre province italiane (Varese, Como, Novara) e sul cantone svizzero del Ticino. I Romani vi avevano costruito un “castrum”, collegato ai capisaldi delle frontiere settentrionali. Una strada militare lo collegava a Como e al basso Verbano attraverso la valle dell’Olona. Anche il castrum di Castelseprio, come sempre nella storia della colonizzazione romana, si era sviluppato sommando le prime architetture civili a quelle militari: col tempo fu centro fortificato goto, poi bizantino, infine città-castello longobarda. Nacque così un borgo di notevole importanza tanto che, nel V secolo, poté già vantare una basilica, un battistero, una casa-forte e una munita cinta di mura che poi si spingeranno a nord-est, fino all’avamposto dominato dal massiccio torrione del monastero femminile di Torba. Di tutto questo oggi rimangono rovine, tuttavia ben conservate e leggibili.

220px-Santa_Maria_foris_portas2La chiesetta di Santa Maria era sontuosa perché, oltre ad essere tutta affrescata, aveva un ricco pavimento di intarsi di marmo, simili a quello delle basiliche di Milano. Ha la struttura di un tricorno: da una breve navata rettangolare tre arconi immettono nelle ampie absidi illuminate da finestre e rafforzate all’esterno da contrafforti. L’iconografia della fabbrica deriva da modelli orientali e tardo-antichi mentre molti particolari costruttivi (le forme dei contrafforti, le capriate lignee , il ricco pavimento a tarsie marmoree, la tecnica muraria) si inscrivono in una tradizione che, partendo dalle basiliche milanesi del IV e V secolo e da quelle esarcali ravennati, giungerà fino al nuovo millennio.

Il committente sia della chiesa che delle pitture sarebbe stato, nel secondo quarto del IX secolo, il potente conte Giovanni, figlio di Leone, misso dominico dell’impero carolingio. Giovanni, conte di Milano e del Seprio dall’844, personaggio di spicco presso l’imperatore Lotario, di ritorno da un’ambasceria alla corte di Costantinopoli al seguito di Angilberto II, potrebbe aver condotto con sé uno o più artisti, portatori di istanze messe a punto in oriente nel corso della crisi iconoclasta. Giovanni era di notevole statura politica e culturale, in grado quindi di promuovere l’importazione di sistemi artistici di area bizantina nelle terre lombarde e di impostare un raffinato programma iconografico. L’autore del ciclo, perciò, potrebbe essere un grandissimo artista proveniente dalle province dell’impero bizantino, forse un siriaco-palestinese di formazione costantinopolitana. Il vivacissimo dibattito critico ha sottolineato, inoltre, i possibili collegamenti tra questi affreschi appassionanti di Castelseprio col ciclo di pitture murali, sempre in Lombardia, della basilica di S. Salvatore a Brescia e i rilievi plastici della fronte dell’altare d’oro di S. Ambrogio a Milano.

Le pitture, affrescate nell’abside orientale, sono un testo di qualità altissima, contemporaneo in Italia a quelli di Benevento (Campania) e di S. Vincenzo al Volturno (in Molise) e a quelli di Mustair e di Malles nell’alta Val Venosta, sulla via Claudia Augusta che congiungeva Verona ad Augsburg attraverso l’alto Adige e i passi dei Grigioni. Gli studi più recenti convergono per una cronologia intorno alla prima metà del IX secolo, in un momento nel quale la cultura carolingia è ravvivata da fermenti neoellenistici di provenienza bizantina. L’alta qualità formale si spiega in parte con innesti bizantini sulla componente culturale presente nei codici miniati di questa epoca (vedi il Salterio di Utrecht, per esempio, del terzo decennio del IX secolo).

Il ciclo pittorico narra episodi della vita di Maria: le fonti di ispirazione sono i Vangeli canonici e alcuni apocrifi, soprattutto il protovangelo di Giacomo e quello dello pseudo Matteo –estranei alla cultura d’occidente-, per illustrare con completezza il dogma dell’Incarnazione di Gesù. Le storie sembrano scelte in modo da sottolineare la maternità di Maria e dunque ribadire la tesi delle due nature, umana e divina, del Cristo, probabilmente in ossequio alla posizione anti-ariana del committente e della Chiesa di Milano. La devozione in alta Italia a Maria Annunziata si spiegherebbe con l’invio, verso la metà del VII secolo da parte dei pontefici romani, di monaci nelle terre longobarde per riorganizzarvi la presenza cattolica; in questo contesto va forse letta la presenza in questo territorio di un piccolo gruppo di missionari che vi diffondono il culto mariano. Un’illustrazione completa delle storie dell’infanzia di Gesù si trova con frequenza negli evangeliari bizantini miniati in epoca post-iconoclastica o negli avori intagliati carolingi. Ma raramente la scelta dei soggetti espone in maniera tanto precisa un difficile concetto teologico. La doppia natura di Gesù e la sua missione sono sottolineate dagli elementi simbolici che intercalano la narrazione in alcuni punti: l’icona di Cristo Salvatore sull’asse centrale dell’abside, il suo viso e la sua parola, il libro chiuso sul trono; al di sopra dell’arco trionfale la sua regalità, l’etimasia (iconografia cristiana di origine orientale, “un trono sormontato da una croce”) con la corona e la croce.

La sequenza dei riquadri inizia a sinistra con l’Annunciazione, con l’arcangelo Gabriele quasi sorpreso della propria irruenza: si nota già un tratto fluido, ricco di vitalità. Alle due figure, essenziali, della Vergine e dell’Angelo che le annuncia la divina concezione, si aggiunge qui quello della donna che, seminascosta da una colonna, assiste, con un gesto di stupore, alla scena. Questo terzo personaggio, assente nei Vangeli canonici, potrebbe corrispondere ad una delle compagne di Maria che secondo il vangelo apocrifo dello pseudo Matteo, avrebbero assistito ad una prima apparizione dell’angelo. La figura della Vergine, seduta su di uno sgabello, è rivolta di semi-profilo verso destra. La mano sinistra di Maria, che stringe due piccoli fusi, accenna coll’indice al proprio volto. I grandi occhi, che si levano a rimirare il volto di Gabriele, esprimono nello stesso tempo lo sgomento e il rapimento della fede. acque amareSegue una scena, La prova delle acque amare, che inquadra un episodio del tutto inusuale in occidente, ripreso dai vangeli apocrifi. Vi si narra che i sacerdoti del Tempio fecero bere ai due sposi, Maria e Giuseppe, un’acqua che, secondo la tradizione ebraica, doveva smascherare le peccatrici, quando si trattava di gravidanze sospette; si doveva girare sette volte intorno a un altare reggendo un’idria rituale senza essere colte da malore. Maria ubbidisce al sacerdote (il vecchio con la barba, identificabile in Zaccaria) e supera la prova, dimostrando la propria innocenza e confermando l’immacolata concezione. La fluente bianca capigliatura del sacerdote è trattenuta da un nastro su cui è inserito, al sommo della fronte, un rettangolo (forse un astuccio contenente una scrita sacra, propria del rituale ebraico). Le figure hanno naturalezza di atteggiamenti e di movimento, scorci e colori ben graduati. I personaggi e gli oggetti hanno consistenza plastica, ci sono libertà e fantasia compositiva, la lumeggiatura è pastosa con pochi toni cromatici principali che ottengono effetti di luminosità soffusa. Poi c’è la scena dell’Angelo messaggero che appare a Giuseppe che dorme: un racconto vivace, pieno di movimento, un disegno sicuro e rapido; si avverte quasi la freschezza della pittura ellenistica antica. Infine, L’episodio della purificazione di Maria: personaggi di nobiltà classica, gesti e pose di composto equilibrio.

viaggio a betlemmeLa narrazione continua con Maria e Giuseppe in cammino verso Betlemme: la scena è ambientata tra paesaggio e architetture, con grande purezza e maturità stilistica; equilibrio delle immagini, finezza del modellato, incisività del disegno. La cavalcatura arranca faticosamente, come è descritto appunto nell’apocrifo protovangelo di Giacomo, attribuendosi quello sforzo al peso rivelatore del nascituro. Il magnifico verismo pittorico della testa del quadrupede richiama quello di un mosaico del palazzo di Costantinopoli, forse del sec. VI. Giuseppe, dal tipico vestimento di contadino orientale, segue la cavalcatura e quasi conversa con Maria, che lo fissa negli occhi. C’è la maestria della migliore tradizione antica ma imbevuta, nello stesso tempo, di un’intensa vita spirituale cristiana. Lo spazio è credibile e costruito con sicurezza da un maestro che rinnova e rivitalizza un classicismo che pareva essersi affievolito in Italia sotto i duri colpi delle invasioni barbariche. C’è un’eccezionale sensibilità alle trasparenze e alla luminosità dei colori. Emozionante è il muto colloquio fra i due sposi, con Maria che rivela nello sguardo una fiducia piena d’abbandono nel marito. Sui gesti e sui movimenti si posa una soffusa malinconia.

NativitàAl di sotto c’è il riquadro della Natività: qui si riuniscono vari momenti distinti con la nascita, l’affaccendarsi delle donne col bagno del bambino, il miracolo di Salomé, l’annuncio ai pastori, un Giuseppe in primissimo piano concentrato e meditabondo, molto pensieroso. La scena si svolge all’interno di una grotta e all’esterno si nota il paesaggio della campagna di Betlemme; Maria è il centro stupendo della figurazione. La Vergine a fatica, appoggiando i gomiti, tenta di sollevarsi -in atteggiamento di abbandono ma con una certa regale eleganza- dal proprio giaciglio, quasi a voler sorvegliare con sollecitudine il bagno del piccolo; ma è un’allusione realistica alla vera umanità assunta da Gesù, nato, come ogni uomo, dalle sofferenze della madre. Cristo è posto in una piccola cassetta rettangolare, strettamente fasciato secondo le consuetudini di allora, in uso ancora nelle nostre campagne fino a sessanta anni fa. C’è estrema minuzia nella descrizione del bagno del neonato: una donna seduta sorregge il bambino che fuoriesce da una tinozza, essa ha il capo coperto da un panno annodato sulla nuca, secondo l’uso contadino, ha le maniche rimboccate e gli orecchini pendenti; un’altra donna versa acqua da un’anfora. Citavo prima “il miracolo di Salomé”: anche questo è un episodio estraneo alla conoscenza occidentale, desunto dalla stessa fonte apocrifa che ci ha narrato della prova delle acque amare. La levatrice Maria Salomé, presente al parto, ha dei dubbi sull’eccezionalità di una nascita da una vergine, quindi vuole controllare personalmente la verginità di Maria: all’istante le si paralizza il braccio, disperata invoca la sua guarigione guardando intensamente la Madonna. Anche l’annuncio ai pastori è un episodio che ha un largo respiro: c’è il gregge di pecore che bruca, un grosso cane pastore rossiccio in bella evidenza, un ampio squarcio prospettico di paesaggio e l’angelo in volo. Tutto si risolve in movimento e colore.

i magiAll’estrema destra, per finire, c’è l’Adorazione dei Magi. Guidati dalla stella cometa arrivano i sapienti orientali e anche questa scena è rappresentata con uno scambio intenso di dialoghi e gesti fra i personaggi. I protagonisti sono distribuiti su più livelli: a destra Giuseppe, più in alto –fra le rocce- Maria e il bambino Gesù sovrastati da un angelo, in primo piano, con un abile scorcio, si trovano i Magi, dal movimento vivace, dall’espressione arguta e dalle forme insolitamente allungate. Uno di loro si protende verso il Bambino, a cui porge un vassoio ovale; presso di lui vi sono i bagagli che alludono al loro lungo viaggio; gli altri due parlano fra loro; il loro abbigliamento singolare indica ancora una volta nel nostro pittore un’attenzione decisamente circostanziata e realistica.

Siamo arrivati alla fine. Ormai è chiaro che nel borgo isolato lombardo l’anonimo artista ha portato un’evidente impronta della scuola bizantina, anche se la scorretta iscrizione in lettere greche –che accompagna i dipinti- può far pensare, secondo qualche studioso, a un pittore latino. Altri aspetti di questo capolavoro ci rimandano alla cultura figurativa occidentale, tra i quali la disposizione delle scene su registri sovrapposti , come a Mustair e, più tardi, nella pittura ottoniana. Così il nord e il sud dell’Italia si ritrovano a dialogare culturalmente e artisticamente, non solo con la sintesi elaborata nei grandi scriptoria dei monasteri, ma attraverso un contatto diretto e periferico. E’ esemplare, a questo proposito, la vicenda umana e intellettuale di Paolo Diacono, l’autore della fondamentale “Historia Langobardorum”: nobile longobardo di nascita, passato da Pavia nella Longobardia minore, alternando soggiorni tra Montecassino –nella cui abbazia teneva scuola- e la corte beneventana di Arechi II (della cui moglie, Adelperga, figlia di re Desiderio, fu precettore), prima di trasferirsi alla corte di Carlo Magno ad Aquisgrana. Non è importante stabilire qui se l’ampia diffusione di temi e linguaggi neoclassicistici sia partita dai centri meridionali, o se invece sia stata la cultura elaborata nei centri carolingi del nord a penetrare fin nell’area molisana e beneventana. Quel che conta è la constatazione che in quel remoto periodo del medioevo era davvero intensa la circolazione in Italia, lungo tutta la penisola, di contenuti e di stilemi che animavano, ravvivavano e unificavano il dibattito culturale e davano vita a capolavori di arte e di religiosità.

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello