Caravaggio, “La vocazione di Matteo” (1599-1600). Roma, San Luigi dei Francesi, cappella Contarelli

Caravaggio. Roma, San Luigi de’ Francesi. Capp. Contarelli. “Vocazione di Matteo”, 1599-1600

 

La committenza.

Nel 1565 il cardinale Mathieu Cointrel (Matteo Contarelli, italianizzato) acquista la quinta cappella a sinistra della chiesa nazionale di San Luigi dei Francesi a Roma e ne affida la decorazione a Girolamo Muziano: dovevano essere affrescate scene della vita di San Matteo sulla volta e sulle pareti, mentre per l’altare era prevista una pala con il santo intento a scrivere il Vangelo sotto la dettatura di un angelo. Il cardinale aveva descritto dettagliatamente quello che voleva: “Matteo dentro un salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tal officio con un banco come usano i gabellieri con libri et denari. Da quel banco Matteo, vestito secondo che parerà convenirsi a quell’arte, si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che passando lungo la strada coi suoi discepoli lo chiama”. L’impresa, però, ebbe tempi lentissimi e, dopo la morte di Cointrel nel 1585, scoppiarono travagliate questioni ereditarie. Muziano non iniziò mai i lavori. Nel 1591 la commissione degli affreschi passò al Cavalier d’Arpino che eseguì la volta entro il 1593, ma non cominciò i laterali. Nel 1599, per interessamento del cardinal Del Monte, membro influentissimo della Fabbrica di San Pietro, i lavori furono affidati al Caravaggio, stimato e protetto da una cerchia di intenditori potentissimi che comprendeva, oltre Del Monte e il card. Federico Borromeo, V. Giustiniani e C. Mattei.

I molteplici piani di elaborazione narrativa e linguistica, indicati dal Cointrel, erano comunque attraversati da un unico progetto tematico. Si pensa infatti che la decorazione della cappella possa essere stata usata anche per celebrare la conversione al cattolicesimo dell’ugonotto re Enrico IV di Francia e la conseguente riconciliazione col papa Clemente VIII. Caravaggio e i suoi protettori sembrano cogliere l’essenza della situazione politica e religiosa, dipingendo un grande ciclo dedicato alla celebrazione del complesso rapporto tra libertà umana e grazia divina. Si riflette sulla questione del libero arbitrio, vero tema pittorico della cappella.

Il tema.

Caravaggio scarta l’affresco, tecnica che non praticò mai per scelta precisa e non perché non la conoscesse, e consegna le tele il 4 luglio del 1600. La suggestione potente è quella di Michelangelo della Cappella Paolina in Vaticano: i quadri rappresentano una vocazione e un martirio, i due momenti salienti della vita spirituale cristiana. Ma c’è anche la capacità di lavorare su molteplici valenze espressive: questo è dimostrato dalla trascrizione pittorica del nome di Matteo che, come spiega Jacopo da Varagine, si traduce anche da “mano”  e “theos”, come per dire “mano di Dio”. E infatti il gioco di mani che percorre la tela –la mano che chiama di Gesù e quella incredula di Matteo che indica se stesso- è certamente la declinazione dei vari modi con cui l’apostolo è “mano di Dio”.

Descrizione dell’opera.

Ad una visione ideale della storia Caravaggio ne oppone una attuale e realistica, in sintonia con le esigenze delle correnti pauperistiche della riforma cattolica, un credente cattolico, forse disperatamente credente. L’ambiente, un magazzeno solo intonacato, è angusto, buio e squallido, senza sfondo prospettico. Seduti attorno a un tavolo alcuni uomini contano del denaro, indossano ricchi abiti contemporanei; due di loro, molto giovani, sfoggiano cappelli piumati e giubbe dalle maniche rigate; uno, che sembra il più autorevole, Matteo il pubblicano –sguardo vivace e bella barba-, indossa giacca e berretto di velluto; in fondo, un vecchio con bavero di pelliccia scruta –inforcando gli occhiali- un giovane chino sul tavolo che conta le monete. Improvvisamente da destra, accompagnato da Pietro, entra Gesù: i due indossano delle semplici vesti, Pietro anche un largo mantello all’antica, che contrastano con gli eleganti abiti degli altri personaggi, e sono a piedi scalzi. La loro apparizione nella stanza suggerisce un modello di vita assolutamente contrapposto a quello dell’allegra compagnia, e del tutto estraneo al denaro che brilla all’angolo opposto del tavolo. La scena è concepita come una partita a dadi che si svolge intorno a un tavolo, bruscamente interrotta dalla comparsa di Gesù. La storia sacra, calata nella contemporaneità del reale, diventa un’esperienza esistenziale comune a tutti, perennemente attuale. L’unica realtà storica rappresentabile è il presente, la ricerca della salvezza diventa concreta nell’improvvisa comparsa di Gesù e nel suo gesto imperativo. Il Vangelo si attualizza nella vita di tutti i giorni.

Il dipinto è costruito su due piani paralleli: nella zona inferiore vengono collocati tutti i personaggi, mentre la fascia superiore è vuota, connotata dalla sola finestra: lo spazio così definito è attraversato con forza da un fiotto di luce, proveniente da una fonte esterna.

Nell’affrontare la sua prima committenza pubblica Merisi doveva risolvere almeno due problemi, posti con precisione dalle indicazioni del committente: raffigurare due ambienti fisici diversi, la strada e il magazzino, e creare una composizione narrativa nella quale più personaggi raffigurassero un’azione. Risolse entrambi genialmente costruendo la scena intorno al gesto di Cristo, sguardo e braccio destro, che, indicando in direzione di Matteo, trova eco nella posizione della mano di quest’ultimo. Pietro ripete il gesto di Gesù. La mano di Cristo impone a Matteo di seguirlo, sosta su di lui; Matteo con la mano destra continua a contare o a puntare denaro mentre con la sinistra addita se stesso: “Dici a me?”. C’è un dialogo conciso: “Tu! Io? Sì, Tu!”.

Questo è il preciso momento nel quale Matteo viene chiamato all’apostolato. C’è istantaneità nella chiamata e nella risposta. Dei presenti solo Matteo capisce; i due giovani, a destra, si voltano, incuriositi dai nuovi venuti; gli altri due, sul fondo, neppure si accorgono del miracolo e continuano avidamente il conteggio.

La luce.

La luce naturale è quella strisciata di un torpido pomeriggio romano nei pressi di piazza Navona. La grazia della chiamata di Gesù non è un segno che solo all’eletto sia dato vedere: tutti si voltano sorpresi, tranne un giovane impegnato a contare i soldi. Con Cristo e Pietro entra una lama di luce: investe le figure, accende nel buio le stoffe, le piume dei cappelli, i volti. E’ un raggio di luce fisica ma è anche il raggio della grazia: la realtà è svelata e bruciata dalla luce improvvisa.

La luce viene da due fonti: la prima colpisce in pieno il dorso di Pietro e il fianco di un giovane, l’altra disegna una lingua luminosa sul pavimento. C’è una terza sorgente luminosa rappresentata dalla finestra, la cui impannata è in trasparenza e sullo sguancio, con l’ombra portata. Le luci illuminano molti particolari realistici: le monete sul tavolo, il vestiario, la gamba del ragazzo sotto il tavolo in una penombra luminosa, il piano della tavola, i libri dei conti. La testa di Cristo è tagliata in due dalla luce e dall’ombra, una linea d’ombra che continua nella barba.

C’è di più: il fascio luminoso che irrompe dall’alto proietta un’ombra scurissima sulla parete illuminando la finestra coi suoi vetri polverosi. E ci consente di seguire un doppio percorso: mentre infatti l’azione avviene da destra a sinistra (dalla mano di Gesù al volto di Matteo), il taglio in salita dell’ombra conduce lo sguardo di noi spettatori da sinistra a destra, dal gruppo attorno al tavolo verso il gesto e il volto del Cristo. Scrive un commentatore attento: “è il passaggio dall’inconsapevolezza alla coscienza, dall’indifferenza alla salvezza”. Torniamo a Matteo, il gabelliere: il fascio di luce rivela il significato della grazia che tocca improvvisamente chiunque, anche il peccatore, quello che estorce il denaro, anzi questo più di altri perché più ha bisogno dell’aiuto di Dio (“non sono i validi che hanno bisogno del medico, ma i malati”). Si sa, infine, che il nostro pittore lavorava con le pareti dello studio dipinte di nero e le finestre oscurate, per organizzare con espedienti teatrali –ripresi da Tintoretto- la luce e l’ombra, per mettere in scena una vita in cui il fascio luminoso sospendesse il tempo dell’azione.

L’analisi radiografica ha mostrato che in un primo momento il nostro pittore non aveva previsto la figura di Pietro ma la figura isolata di Gesù risultava un po’ gracile rispetto alla compatta concentrazione del gruppo di sinistra. Questo da un punto di vista formale. In realtà l’inserzione di Pietro allude alla mediazione della Chiesa tra il mondo divino e l’umano, ribadisce il primato della Chiesa secondo i dettami della Controriforma (la salvezza si attua attraverso la parola di Dio e la mediazione della Chiesa). Non solo. La figura di Pietro, infatti, fa emergere dall’ombra solo il volto di Cristo e la mano tesa nel gesto della chiamata, che in modo irresistibile richiama l’analogo gesto di Dio Padre verso l’Adamo della Cappella Sistina.

 

Conclusione.

Oggi la critica è sostanzialmente concorde nel sottolineare che la carica rivoluzionaria della pittura di Caravaggio è sostanziata da una estrema tensione morale e religiosa, al di là della sua vita disperata e violenta. Argan nota con acutezza che il suo realismo nasce dall’etica religiosa instaurata da San Carlo Borromeo nella sua diocesi lombarda: “esso non consiste nell’osservare e copiare la natura ma nell’accettare la dura realtà dei fatti, nello sdegnare le convenzioni, nel voler dire tutta la verità, nell’assumere le massime responsabilità. Questo significa: escludere la ricerca del bello, puntare al vero; rinunciare all’invenzione, stare ai fatti; non mettere in pratica un ideale dato, ma cercare un esito ideale nella pratica impegnata della pittura; contrapporre il valore morale di questa prassi al valore intellettuale delle teorie. Per il Merisi l’arte non è attività intellettiva ma morale: non consiste nel distaccarsi dalla realtà per rappresentarla, ma nell’immergersi nella realtà e viverla”.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello