C’era una volta Enrico Berlinguer

C’era una volta Enrico Berlinguer

Un secolo fa nasceva l’uomo che fu segretario del PCI dal 1972 alla sua morte improvvisa nel 1984. Quale la sua eredità politica?

Ne “La Lettura”, inserto culturale del Corriere della Sera del 15 maggio 2022, il giornalista Antonio Carioti organizza una conversazione sulla figura di Berlinguer tra Francesco Barbagallo, professore emerito di Storia contemporanea all’Università di Napoli, Roberto Chiarini, già docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, e Claudia Mancina, già docente di Etica dei diritti alla Sapienza di Roma.

Gennaro Cucciniello

Cent’anni fa, il 25 maggio 1922, nasceva Enrico Berlinguer, che fu segretario del PCI dal 1972 fino alla sua morte improvvisa nel 1984. Per discuterne l’opera e l’eredità abbiamo interpellato tre studiosi: Francesco Barbagallo, autore del libro “Enrico Berlinguer” (Carocci 2007), Claudia Mancina, autrice del saggio “Berlinguer in questione” (Laterza 2014), Roberto Chiarini, autore di studi storici sul sistema politico italiano.

La proposta avanzata da Enrico Berlinguer nel 1973 per un compromesso storico tra comunisti e cattolici ha qualcosa a che vedere con la convergenza tra eredi del PCI e della DC nel Partito democratico di oggi?

Barbagallo.

Non si trattava solo di un’alleanza tra il PCI e i cattolici. Berlinguer perseguiva un nuovo grande compromesso storico, il secondo dopo quello della Costituente, tra tutte le forze dotate di maggiore consenso popolare. Puntava a costruire un’alternativa democratica di governo e a scongiurare una spaccatura in due del Paese che temeva potesse travolgere le istituzioni democratiche. La costituzione del Pd appartiene a un altro momento storico, in cui le tradizioni della Dc e soprattutto del Pci si erano ormai ampiamente diluite, anzi gli ex comunisti dichiaravano da tempo di non avere più nulla a che fare con il loro passato. Io condivido la definizione che ne diede Emanuele Macaluso: il Pd è stato il prodotto di una fusione a freddo che non ha dato i risultati sperati perché mancava di cuore, di strategia e di prospettiva politica.

Mancina.

Sicuramente il compromesso storico era un’ipotesi di largo respiro, che non voleva ridursi a un’alleanza tra Dc e Pci. Ma di fatto la sua unica possibile realizzazione concreta era quella: un incontro tra identità politiche distinte, come era avvenuto appunto alla Costituente, in una fase di emergenza per la democrazia. Berlinguer era convinto che la situazione italiana fosse così difficile da non consentire una normale competizione politica per la conquista del 51% dei voti. A suo avviso era necessario un accordo più vasto tra i partiti che rappresentavano le masse popolari, ma quella strategia non riuscì, anche perché l’assassinio di Aldo Moro tolse a Berlinguer il suo principale interlocutore nella Dc.

E il Pd c’entra qualcosa?

Mancina.

No, perché è un partito che è potuto nascere proprio perché gli ex democristiani e gli ex comunisti hanno rinunciato alle loro identità per crearne una nuova e comune. Il problema non è tanto che queste forze si siano unite a freddo, quanto la carenza di un’elaborazione politica e culturale capace di produrre un riformismo aggiornato. E’ una lacuna che riguarda soprattutto gli ex comunisti: non è un caso che la guida del partito e le cariche istituzionali più importanti siano oggi in mano a cattolici democratici, da Sergio Mattarella a Enrico Letta, da Dario Franceschini a Lorenzo Guerini. Ma il fatto che quei due filoni si siano uniti a me pare positivo, perché il Pd è l’unica offerta politica valida in questo Paese, anche se non ha ancora assunto l’identità riformista forte di cui ci sarebbe bisogno.

Chiarini.

C’è certamente un rapporto di continuità tra il compromesso storico e la formazione del Pd. In tutta la storia repubblicana si era sviluppato infatti un dialogo fra comunisti e cattolici di sinistra, perseguito con convinzione dal Pci ma ostacolato dal fatto che la Dc era un partito che aveva fatto dell’anticomunismo un suo punto di forza. Alla meta della confluenza nel Pds, poi Ds, infine Pd, le due componenti arrivano, però, sfiatate per la sconfitta che entrambe hanno subìto: il Pci con la caduta del Muro di Berlino, la Dc con la fine della sua centralità e la conseguente frantumazione. L’incontro si realizza così, non tra vincenti, ma tra sopravvissuti.

E il compromesso storico?

Chiarini.

Non c’è dubbio che per Berlinguer si trattasse di un progetto di ampio respiro, che avrebbe dovuto portare a una svolta epocale. Era un progetto, però, che incorporava una contraddizione insanabile. Il leader del Pci si proponeva di attuare la fuoriuscita dal capitalismo, ossia una società socialista. Ma come avrebbe potuto farlo sottoscrivendo un patto con la Dc, un partito che del contrasto al Pci aveva la sua stessa ragion d’essere? Di fatto l’obiettivo del socialismo veniva in questo modo abbandonato. Alla resa dei conti, si scoprirà che del compromesso storico era rimasto il sostantivo, mentre si era perso l’aggettivo.

La politica di Berlinguer segna un progressivo distacco dall’Unione Sovietica. Ma non porta alla confluenza del Pci nel socialismo europeo. Come mai?

Barbagallo.

In realtà, sin dagli anni Settanta, Berlinguer si pone sulla scia di una parte della socialdemocrazia nordica. Penso al leader svedese Olaf Palme, che già nel 1971 parla di austere necessità della crisi che impongono cambiamenti radicali. E Berlinguer nel 1977 propone una politica di austerità e un nuovo modello di sviluppo. Il suo progetto è innestare nel comunismo italiano, già fortemente irrorato dalla lezione di Antonio Gramsci, i valori della libertà e della democrazia. Su questo terreno s’incontra con esponenti socialisti come il francese Mitterand e il tedesco Brandt, del quale Berlinguer condivide appieno il rapporto presentato all’Onu su Nord e Sud del mondo, che prevedeva un impegno globale per il sostegno ai Paesi in via di sviluppo. I contenuti di quel programma sono in gran parte ripresi nella Carta per la pace e lo sviluppo approvata dal Pci nel 1981. Tra Berlinguer e Brandt c’era un’evidente sintonia anche sulla necessità di dare alla politica un fondamento etico e sul richiamo a una dimensione utopica.

Eppure Berlinguer rifiuta l’idea di uno sbocco socialdemocratico per il Pci.

Barbagallo.

Prende le distanze dalla storia concreta della socialdemocrazia italiana, ma è molto vicino alle posizioni di una parte di quella nordeuropea.

Mancina.

Berlinguer ha un rapporto positivo con alcuni leader socialdemocratici, ma non smette mai di polemizzare con quel filone politico. Con il Psi di Craxi c’è grande tensione, direi quasi incomunicabilità: una contesa esacerbata dalle personalità dei due leader, ma che viene da lontano, perché il Pci rivendica sempre la sua storia e la sua antica ostilità al riformismo. I comunisti non hanno mai accettato di avere un rapporto paritario con i socialisti. E non solo in virtù della loro maggiore forza elettorale: c’era proprio l’idea di una superiorità politica. Avevano un atteggiamento simile a quello dei cristiani verso la Bibbia ebraica, a cui veniva riconosciuto un valore solo in quanto illuminata dal Nuovo Testamento. E come i cristiani sono stati spesso antisemiti, così i comunisti sono stati sovente antisocialisti.

Vale anche per Berlinguer?

Mancina.

Ancora nel 1978, nel discorso conclusivo del Festival dell’Unità di Genova, afferma che il Pci non vuole percorrere la via della socialdemocrazia. E infatti punta sull’eurocomunismo come una terza via che però si rivela senza sbocchi. Lo stesso distacco dall’Urss c’è sicuramente stato, ma non è andato fino in fondo. Dire che la spinta propulsiva della rivoluzione russa si era esaurita presuppone che quella spinta ci sia stata e abbia portato grandi conquiste. Rivendicare il valore universale della democrazia a Mosca richiedeva coraggio, ma Berlinguer lo fece ribadendo la sua appartenenza al mondo comunista. Sono limiti che hanno pesato, anche se bisogna riconoscere che Berlinguer ha portato il Pci al punto massimo di cambiamento a cui poteva arrivare restando se stesso.

Chiarini.

Il Pci di Berlinguer era già un partito socialdemocratico nei suoi comportamenti. Restava comunista invece nella sua identità. Non a caso continuava ad alimentare una memoria che individuava nella rivoluzione d’Ottobre il grande passaggio storico da cui aveva preso le mosse. Del resto, anche dopo la caduta dell’Urss il Pds proseguirà la polemica astiosa con il Psi, dovuta senza dubbio alla concorrenza elettorale ma anche, e forse soprattutto, alla difesa della sua identità. In questo senso conta molto l’eredità di Berlinguer. Questi aveva abbracciato la democrazia, ma non ancora il mercato e sappiamo che senza mercato una democrazia non si vede come possa esistere.

In effetti Berlinguer continua a sostenere la necessità di una fuoruscita dal capitalismo.

Barbagallo.

Era un’affermazione propagandistica, che non corrispondeva alle posizioni assunte dal Pci a partire dagli anni ’70. La prospettiva reale dei comunisti italiani è quella dello sviluppo produttivo qualificato, interna al sistema occidentale. L’obiettivo è cambiare il capitalismo, non superarlo. E’ una posizione che si riallaccia ai temi della programmazione e delle riforme che negli anni ’60 il centrosinistra aveva impostato, ma non era riuscito a realizzare. Lo scopo era orientare l’economia verso lo sviluppo del Sud e i servizi sociali. Qui si era arenato il riformismo del centrosinistra, perché tutti i tentativi di regolazione della crescita erano stati bloccati dalle resistenze di settori sociali insofferenti alle regole, ostili all’idea di sacrificare i loro interessi privati per il bene del Paese. Berlinguer pone a più riprese l’accento sulla necessità di moralizzare la vita pubblica, eliminare sprechi e ruberie, tutelare la salute e l’ambiente, garantire l’equità sociale. Dov’è in tutto questo la fuoruscita dal capitalismo?

Berlinguer era di fatto su posizioni riformatrici?

Barbagallo.

Se non è così, qualcuno mi deve spiegare perché Ugo La Malfa, un democratico di fede atlantista, sostiene negli anni ’70 il diritto del Pci di accedere al governo.

Però la strategia del compromesso storico fallisce.

Barbagallo.

Aveva contro tutto il mondo: Usa, Urss, importanti Paesi europei. Moro ricevette avvertimenti a non procedere sulla via dell’alleanza con il Pci. Berlinguer nel 1973 subì un attentato in Bulgaria, camuffato da incidente stradale, perché i sovietici volevano disfarsi di lui. La politica in Italia non era completamente libera, era condizionata da vincoli molto stretti, tra i quali l’impossibilità per il Pci si andare al governo.

Mancina.

Senza dubbio la fuoriuscita dal capitalismo era una formula irrealistica, che richiedeva un intento rivoluzionario ben lontano dalla prassi del Pci. Però il riformismo di quel partito voleva spingersi molto a fondo, produrre un nuovo modello di sviluppo che negava alcuni caratteri fondamentali del capitalismo, come la diffusione e la crescita dei consumi individuali. E’ vero che nella realtà quotidiana il Pci agiva come un partito socialdemocratico, ma la sua identità restava comunista. Ricordo una frase di Salvatore Veca: “Io e altri intellettuali sbagliavamo su un punto: credevamo che il Pci fosse un partito socialdemocratico senza ammetterlo; invece no, era un partito comunista”.

Chiarini.

Il comunismo italiano, nella sua lunga storia, è arrivato a scoprire la democrazia liberale. Non ha saputo, invece, fare i conti con il mercato. Il Pd a sua volta ha abbracciato sì il mercato, ma si è trovato davanti all’ostacolo di dover ripensare la democrazia nel tempo della globalizzazione. La democrazia delegata mostra gravi falle che fanno la fortuna del populismo, mentre la sinistra si ritrova senza più una proposta di ampio respiro da offrire agli italiani. I nodi da sciogliere sono molteplici. A partire dal ruolo dello Stato. Come può salvaguardare il mercato dai suoi squilibri senza sfociare nello statalismo? E la democrazia rappresentativa, come può essere reinventata al tempo in cui la politica non si gioca più tanto tra progressisti e conservatori, quanto tra vincenti e perdenti nella globalizzazione? Oggi il malessere sociale risulta interpretato meglio dalla destra populista, anche perché la sinistra ha perso la forte suggestione di una fuoriuscita dal capitalismo senza trovarne un’altra capace di rianimare una grande aspettativa sul futuro. Resta aperto, comunque, il problema di come governare una globalizzazione che ha messo in crisi il patto sociale su cui si è retto l’Occidente democratico.

E’ stato rimproverato a Berlinguer di avere isolato il suo partito, dopo il 1980, con l’insistenza sulla questione morale. E’ una critica fondata?

Barbagallo.

Berlinguer nel 1981, in una famosa intervista concessa a Scalfari, denuncia lo stato comatoso in cui versano i partiti, ridotti “a macchine di potere e di clientele” con pochi ideali e programmi, nessuna passione civile. Con il senno di poi non possiamo che verificare come questa riflessione indicasse le ragioni del successivo disfacimento del sistema politico negli anni ’90. Come unica via di salvezza Berlinguer proponeva un profondo rinnovamento dei partiti, delle istituzioni, dei costumi, dei rapporti sociali. Un programma di lunga lena che ricorda la riforma intellettuale e morale prospettata da Gramsci.

Non era una visione troppo radicale?

Barbagallo.

Era un’analisi lucida e realistica, niente affatto esasperata. Dieci anni dopo, nel 1991, uno storico acuto di area cattolica come Pietro Scoppola esprimeva posizioni analoghe, denunciando il dilagare del voto di scambio e lo svuotamento dello stesso significato politico delle competizioni elettorali, con partiti sempre più simili l’uno all’altro che si contendevano il consenso dei cittadini per farlo valere nei loro reciproci rapporti di potere. Poco dopo abbiamo assistito al crollo di quel sistema politico. E nel trentennio che abbiamo vissuto dal 1991 in poi la politica è stata annullata a livello mondiale dal processo di finanziarizzazione del sistema capitalistico. I leader sono diventati attori che recitano una parte sul palcoscenico, fanno spettacolo. Fino al degrado che è sotto i nostri occhi. Si può dire dunque che Berlinguer è stato profetico, ha visto in anticipo i disastri accaduti dopo.

Mancina.

Nel porre l’accento sulla questione morale Berlinguer coglie due punti importanti. Il primo è che la politica deve avere un fondamento etico, non può essere solo ricerca del consenso e del potere. Il secondo punto riguarda l’occupazione dello Stato da parte dei partiti, una degenerazione molto grave. In tutto questo c’è un aspetto profetico e convincente. Lascia però perplessi il rapporto che istituisce tra la questione morale e la diversità dei comunisti. Quando Scalfari nell’intervista gli chiede perché dilaga il malcostume, il segretario risponde: perché noi siamo tenuti fuori dal governo. Lo stesso Scalfari resta stupito, perché se siamo di fronte a un processo generale, è un po’ difficile pensare che il Pci sia l’unica forza immune. E infatti anch’esso, ormai divenuto Pds, sarà in parte poi coinvolto nelle inchieste di Mani Pulite.

Approfondiamo questo tema della diversità.

Mancina.

L’idea di fondo è che i comunisti, rispetto agli altri, siano a priori dotati di un più forte fondamento etico perché investiti di un compito storico di realizzazione della giustizia sociale. A me pare un discorso molto debole, su cui Berlinguer insiste dopo il fallimento del compromesso storico. Non è l’accento sulla questione morale che produce l’isolamento del Pci, ma l’isolamento del partito che lo induce a focalizzarsi su quel tema e sulla sua diversità. Ma soprattutto il discorso di Berlinguer lascia scoperto il piano istituzionale, non si traduce in nessuna proposta di riforma della regolamentazione dei partiti, che è il problema che ci portiamo dietro da Tangentopoli in poi. Pensiamo alla questione del finanziamento o a quella degli statuti dei partiti. Né Berlinguer né il Pci nel suo complesso hanno mai avuto una sensibilità per le riforme istituzionali, delle quali il Paese aveva e ha più che mai bisogno. Vorrei però toccare anche un’altra questione.

Di che si tratta?

Mancina.

Nel 1976 Berlinguer afferma di sentirsi più sicuro stando sotto l’ombrello della Nato. Fu una scelta di grande importanza, che forse il popolo comunista interpretò erroneamente come una semplice mossa tattica. Sta di fatto che oggi a sinistra, spesso tra le stesse persone che fanno di Berlinguer un’icona, assistiamo a un forte rigurgito di anti-americanismo e anti-atlantismo. E’ impressionante che su questo punto l’eredità di Berlinguer non riesca ad arrivare.

Chiarini.

La denuncia sulla degenerazione dei partiti fu di certo coraggiosa e lungimirante. Ma finì per sovrapporre la questione morale su quella politica, e questo il Pci si era sempre rifiutato di farlo. L’attenzione si è così spostata dai programmi ai valori. Ne è derivata una torsione moralistica che ha assolutizzato il problema della corruzione, trascurando invece un intervento sulle sue ragioni strutturali, a cominciare da una riforma dell’assetto istituzionale. Ha finito con l’avvalorare l’idea che esistesse una politica malata da liquidare a favore di una società civile sana. Favorì così implicitamente l’onda dell’antipolitica che, brandendo la questione morale, avrebbe travolto il sistema dei partiti e posto la politica in una condizione di minorità dalla quale non si è più emancipata.

Antonio Carioti