Come imparare ad amare Simone Weil

Come imparare ad amare Simone Weil

Di Giancarlo Gaeta, grande studioso della filosofia francese, esce un saggio per far luce sulla complessità del suo pensiero.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 13 aprile 2018 è pubblicato un articolo di Alfonso Berardinelli che commenta l’uscita nelle librerie del saggio di Giancarlo Gaeta, “Leggere Simone Weil”, Quodlibet editore, pp. 320.

 

Di Simone Weil si conosce il nome e forse qualcosa della vita, ma se ne ignorano le opere. Fra i grandi autori del Novecento è ancora la più misconosciuta. Solo eccezionalmente si fa riferimento a qualcuno dei suoi scritti per ricavarne frasi fuori contesto. La sua stessa esistenza, così interamente votata all’impegno morale e alla conoscenza, continua a turbare e infastidire. Anoressica? Sessuofobica? Estranea alla vita? Tradizionalista? Qualche ragione per liberarsene si trova sempre. Ma benché lontana dalla modernità culturale fino al punto di apparire antimoderna, per originalità di pensiero, energia e purezza stilistica, universalità di formulazioni e di interessi, Simone Weil, come saggista, probabilmente non ha uguali nell’ultimo secolo. La lucidità e radicalità con cui ha analizzato l’organizzazione sociale, la cultura e la politica che hanno portato l’Europa all’autodistruzione fra il 1914 e il 1945 ne fanno, accanto a Karl Kraus e a George Orwell, una interprete imprescindibile del suo tempo. Ciò che più respinge nella sua opera e nella sua vita è forse una cosa sola: l’eccesso di consapevolezza e di coerenza. Un eccesso che non esclude nulla: sensibilità estetica e intuito psicologico, intelligenza politica e ispirazione religiosa.

La sua vita fu breve. Nata a Parigi nel 1909 in una famiglia ebraica agiata e laica, già a dieci anni si definiva bolscevica. Ebbe come professore di liceo Alain, umanista e saggista amico di Paul Valéry e insegnò filosofia in un paio di licei femminili impegnandosi contemporaneamente in attività sindacali e corsi serali per minatori. Alla sua compagna di scuola (e più tardi biografa) Simone Pétrement aveva confessato di non amare gli operai solo per spirito di giustizia: “Li amo naturalmente, trovo che sono più belli dei borghesi”.

Nel 1932, a ventitré anni, passa alcuni mesi a Berlino e scrive una serie di articoli di straordinaria acutezza politica sugli errori della sinistra tedesca, sia comunista che socialdemocratica, incapace di contrastare l’ascesa di Hitler. Nel 1934 lavora a uno dei suoi saggi fondamentali, “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione” che, partendo da Marx e utilizzandone il materialismo, ne critica come mitologiche le idee di progresso e di rivoluzione. Critica il rivoluzionarismo di André Malraux e Georges Bataille. Di quest’ultimo scrive: “La rivolòuzione è per lui il trionfo dell’irrazionale, per me del razionale (…), per lui la liberazione degli istinti, per me una moralità superiore”.

Decide subito dopo di lavorare come operaia prima alla Alsthom e poi alla Renault, sperimentando gli effetti fisici e soprattutto mentali della “schiavitù” di fabbrica. Nel 1936 parte per la Spagna e partecipa alla guerra civile nella colonna internazionale dell’anarchico Buenaventura Durruti. Fisicamente provata da queste esperienze, delusa dal burocratismo e dalla dipendenza da Mosca delle organizzazioni operaie, riprende a studiare. Due viaggi in Italia risvegliano la sua sensibilità per l’arte e la religione, a lungo rimossa. Tra i suoi artisti più amati, Monteverdi e Bach, Giotto, Leonardo, Giorgione, Rembrandt. Le sue letture preferite sono l’Iliade (su cui scrive in quanto “poema della forza”), Re Lear, il Libro di Giobbe, la Bhagavad Gita. L’evento del 1938 fu l’improvvisa, inaspettata esperienza estatica in cui sente di incontrare Cristo.

Da questo momento in poi, con la stesura dei “Quaderni”, vera e propria opera a sé, con il suo sentirsi cristiana fuori della Chiesa (nell’intersezione del cristianesimo e di tutto ciò che il cristianesimo non è), con l’angoscia per l’inizio della Seconda guerra mondiale, in tutta la sua riflessione si intrecciano più strettamente etica, filosofia sociale, religione e soprattutto una revisione dell’intero percorso culturale dell’Occidente. Il cristianesimo di Simone Weil è evangelico, ma non esclude, anzi richiama corrispondenze speculari con “le parti più belle e pure del Vecchio Testamento”, con la Grecia dei pitagorici, di Platone, dello stoicismo, con la Cina taoista, l’induismo e l’arcaica sapienza egizia. Le sue diagnosi e il suo testamento culminano negli “Scritti di Londra” e nell’ampio saggio “La prima radice”, dedicati a un’Europa da rifondare dopo le rivelazioni demoniache dei suoi errori storici con il nazifascismo e lo stalinismo, le cui origini le appaiono remote e i cui effetti potranno prolungarsi in altre forme nel futuro. A Londra, nel 1943, mentre cerca di rientrare in Francia per combattere nella resistenza antinazista, muore di tubercolosi a solo trentaquattro anni.

Ciò che può dare le vertigini al lettore di Simone Weil è il cortocircuito continuo fra esperienze dirette, impegno pratico e l’ininterrotta meditazione sui fondamenti della vita mentale e sociale. Tutta la sua filosofia è una lotta contro l’irresponsabilità delle astrazioni. Il maggior pericolo morale e politico, che dall’antica Roma è arrivato allo Stato assoluto di Luigi XIV e Napoleone per arrivare a Hitler e Stalin, è nel controllo totalitario sulla vita di ognuno e di tutti. Mito della grandezza storica, nazionalismo, culto della forza, burocrazia di Stato e di partito, sovranità della macchina economico-produttiva, nascondono e cancellano un principio essenziale: che è la società ad avere doveri verso gli individui, non viceversa.

Grande merito di Giancarlo Gaeta, che ora pubblica da Quodlibet “Leggere Simone Weil”, è stato di aver vissuto fin dagli anni Sessanta l’esperienza di esplorare il pensiero della Weil, traducendo e introducendo (soprattutto per Adelphi) la maggior parte delle sue opere. Il libri ripropone introduzioni e saggi e costituisce la migliore trattazione d’insieme che abbiamo per tornare su questa autrice.

Il problema della Weil e la sua soluzione, in effetti, sono interamente nel leggerla. Nell’onestà di traduttore e commentatore (questo saggio è un’enorme glossa al servizio dell’autrice e dei lettori), il lavoro di Gaeta ha avuto qualcosa di ascetico. Massima aderenza alla lettera per cogliere lo spirito. Vengono in mente due aforismi della stessa Weil: “Il genio è l’attenzione” e (ancora più audace e misterioso) “Il dono della lettura è soprannaturale, e senza questo dono non c’è giustizia”. Gaeta ha avuto l’intelligenza di applicare alla Weil il metodo della Weil: leggere con un’attenzione limpida e prolungata, usando il suo autore come un ispiratore e non come un semplice “oggetto di studio”.

Quando nel 1995 Patrizia Cavalli, Carlo Cecchi ed io inventammo un Premio Elsa Morante (che durò solo due anni), lo assegnammo subito a Gaeta in quanto curatore delle opere di Weil, amatissima da Elsa. Nella foto ricordo della serata si notano fra gli altri Goffredo Fofi, Raffaele La Capria, Geminello Alvi, Mario Martone… Al centro, accanto a Gaeta, vedo a sinistra Piergiorgio Bellocchio e Giorgio Agamben a destra (o se volete viceversa). Leggere Simone Weil oggi è possibile solo se ci si libera dalla tentazione di trascinarla a sinistra o a destra, fra i mistici o i rivoluzionari o i mistici della rivoluzione. Della Weil una cosa è certa: amava i diseredati, gli espropriati, chi non ha niente. Meglio i folli che i ricchi.

 

     Alfonso Berardinelli