Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Decima Puntata. 26 febbraio-3 marzo 1799. In Calabria Ruffo diminuisce il carico fiscale. Paurosa svalutazione monetaria. I giornali politici rivoluzionari.

Cronologia della repubblica giacobina napoletana. Decima puntata. 26 febbraio- 3 marzo 1799. “Il cardinale Ruffo in Calabria comincia ad organizzarsi: per rafforzarsi cerca di alleggerire il carico fiscale. Il generale Championnet parte per la Francia. Paurosa svalutazione della moneta. A cosa debbono servire i giornali politici nel tempo della rivoluzione?”

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29).  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho cercato di usare un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

26 febbraio. Martedì. Napoli. Organizzazione della Guardia Nazionale. “La milizia urbana sempre più si organizza, essendosi formati quattro battaglioni, gli si è data banda e tamburro ed un uffiziale istruttore, di maniera che va diventando truppa di linea (…) Si continuano a sentire rumori di insorti a Nocera dei Pagani, Vietri, Capua ed Aversa. Nella provincia di Montefusco è in rivolta la piccola terra di Volturara, ove furono ammazzati un Commissario e quattro dragoni, per cui vi sono spediti 300 soldati (…) L’arcivescovo di Capua Gervasio si dice anche arrestato per la tassa non pagata, ma non so se sia vero. Si sente essersi sequestrati duemila ducati di contante, e molte galanterie, come tabacchiere d’oro, anelli di brillanti, orologi e simili. E’ stato consegnato al Comandante della Piazza” (De Nicola, pp. 79-80).

Pescopagano (paese lucano ai confini dell’Irpinia). Scaramucce locali. Vennero li Calitrani al numero di 40 circa, con un prete di casa Scoca, con una bandiera del Re, ben armati e, tagliato l’albero, subito si partirono per Calitri senza nemmeno toccare un bicchiere di vino della nostra patria. Il giorno dopo si piantò di nuovo l’albero ma la notte seguente da paesani fu gittato a terra” (Pedio, p. 743).

Monteleone (Calabria). Ruffo comincia ad organizzarsi e a rafforzarsi. “L’arrivo del Ruffo aveva suscitato larghe speranze nei Calabresi e specie nel basso popolo; si sperava che la vittoria delle forze sanfedistiche avrebbe recato un sensibile sollievo alla vita economica e sociale, eliminando le cause più dirette del disordine amministrativo e delle ricorrenti ingiustizie di cui restava vittima l’indifeso ceto popolare. Racconta il Sacchinelli (segretario del cardinale, ndr) che in questo paese Ruffo dovette destinare molta parte del suo tempo prezioso ad ascoltare le appassionate invocazioni alla giustizia che gli venivano rivolte da ogni parte. Fu qui che egli modificò sensibilmente i suoi pensieri attorno ai provvedimenti più idonei per soddisfare le pressanti richieste popolari; e tale mutamento, senza dubbio, va attribuito alle nuove esigenze sorte dal moto sanfedistico e alla necessità di assicurare un esito positivo al nuovo corso della spedizione, più che alle ingiunzioni della Corte. Nondimeno il suo atteggiamento fu molto cauto ed abile; alieno da provvedimenti radicali, che potevano, sì, mostrarsi efficaci in quel particolare momento, ma le cui conseguenze più lontane potevano riuscire nocive per la struttura economica ed amministrativa del Regno, egli risolse di eliminare i balzelli più gravosi e, in primo luogo –si badi- quelli che, per il fatto che contribuivano ad arricchire i galantuomini, suscitavano più frequentemente le aspre reazioni popolari” (Cingari, p. 190).

San Severo (Puglia). Nella lettera del Paribelli del 25 febbraio, citata, si dava notizia che reparti francesi avevano ripreso la città: “a San Severo vi fu un fatto d’armi tra le falangi di Duhesme e i ribelli, che costò la vita a più di tre mille di costoro, i quali in numero di diecimila con cavalleria, offiziali dell’antico esercito e cannoni hanno opposto una resistenza veramente imponente e regolare, da far onore al loro coraggio se avessero difeso una miglior causa. La vittoria tranquillizzò gran parte della Puglia, ma non aprì ancora le comunicazioni, cosicché il Governo possa trarne dei soccorsi, né promuovervi la nuova organizzazione” (Croce, pp. 288-9). Anche il generale francese Thiébault ne parla nelle sue “Memorie”: “Diecimila fanatici difendono la città, e con tanto coraggio che quasi la metà di essi furono uccisi o feriti. Duhesme voleva bruciare la città conquistata ma la disperazione dei ventimila abitanti e la vista di tanti cadaveri lo fermò, e così anche i soldati non saccheggiarono” ( p. 465).

27 febbraio. Mercoledì. Napoli. Championnet parte alla volta della Francia, insieme a Dufresne. Bassal, ministro delle Finanze del Governo Provvisorio, è arrestato. Giunge in città il generale Macdonald in sostituzione di Championnet. “La più interessante notizia della giornata è stata l’improvvisa ed impensata partenza del generale Championnet seguita nel cader del giorno, verso le ore 23 e mezzo d’Italia, essendo stato destinato in suo luogo il generale Magdonal che si aspetta. Ove sia stato destinato Championnet s’ignora: dicesi che sia a comandare l’armata d’Italia contro l’imperatore (…) Questa sera nella Sala d’Istruzione si era proposto di mettere una guardia alla porta, ma si è rigettata la proposizione. Il moderatore di detta Sala e cattedratico Troisi sacerdote Vincenzo ha quest’oggi insegnato dalla cattedra potersi dai preti contrarre matrimonio, e non vi è bisogno della benedizione del Parroco, che ha egli caratterizzata come una semplice accessione al contratto. L’altro sacerdote e maestro Ignazio Falconieri sta organizzando una compagnia di Guardia Nazionale di sacerdoti la maggior parte, facendo egli da capitano. Maiora videbimus” (De Nicola, pp. 80-1).

A cosa debbono servire i giornali politici nel tempo della rivoluzione? Eleonora Pimentel è nella stanza-redazione del suo “Monitore”. La interrompono Sanges e Cuoco, è felice di rivederli. “Meu Deus, Vincenzo. Ma dove vi siete cacciati, in questi giorni clamorosi? Ho avuto anche preoccupazione per voi due”. Vincenzo ride, sollevando le spalle. “Il fatto è che gente come noi non la vuole nessuno. Diamo fastidio”. “Agli sciocchi. Ma non a chi vi stima. Hai visto il “Monitore”? Voi, Cuoco, l’avete visto? Ditemi cosa ne pensate, ve ne prego: la vostra opinione m’è più cara di qualsiasi altra”. Cuoco tentenna il capo: s’è smagrito, ha aria tesa, occhi inquieti. “Posso dirvi proprio tutta la mia opinione?”. “Ve ne supplico”. “Il giornale è buono, è concepito in maniera abbastanza moderna e ragionevole. Quello che talvolta non mi piace è il tono”. “Il tono?”. “Sì, l’atteggiamento. Che è poi il vostro, visto che lo fate da sola: è ingenuo, semplice, pieno di buona fede, d’entusiasmi, come siete voi. Troppe lodi sperticate ai Francesi, ai patrioti, a qualsiasi stupidaggine avvenga nella Repubblica. Insomma, un po’ fuori del reale”. “Ma bisogna abituare il popolo alla Repubblica! All’idea che la Repubblica è mille volte meglio di quanto c’era prima! Se ci mettiamo subito a criticare, spegniamo ogni entusiasmo e Dio sa se ne abbiamo bisogno!”. “Allora sarebbe stato meglio non fare alcun giornale” sentenzia Cuoco, nel suo insopportabile ma implacabile tono pedagogico. “Un giornale politico è critica spassionata o non serve a nulla”. “Anche tu, però, sei fuori della realtà, Vincenzo mio, quando parli così” obietta Sanges. “Mi dici come, in una Repubblica legata a un filo, quello delle armi francesi, priva di denaro, staccata dal popolo, un giornale politico possa mettersi a criticare la situazione, il Governo? O le ruberie dei Francesi, che si comportano da puro e semplice esercito d’occupazione?”. “Il problema di fondo”, fa Cuoco, “resta per me l’assurdità della Repubblica. Mi dici come può esser libero un popolo, la cui parte superiore ha venduto la propria opinione allo straniero? E come una repubblica di principesse e letterati possa piacere ai lazzari?”. “Ma insomma!”, insorge Eleonora, stizzita per le critiche. “I lazzari devono imparare. Li educheremo, certo, questa è la linea che il giornale seguirà. Ma non potete pretendere che siano loro a dettare la politica. O a fare la cultura!”. “I lazzari e il popolo basso sono la maggioranza, Lenòr” interviene Sanges. “Ma Cuoco non intende dire che soltanto perché sono maggioranza debbano dirigere lo Stato”. “Staremmo freschi!”, strilla Cuoco. “Così daremmo ragione a quegli imbecilli alla Mably, alla Babeuf, che parlano di stolide uguaglianze. Io voglio dire che una rivoluzione deve tener conto degli interessi del popolo, ma non bisogna confondere questi interessi con le ideologie imparate da qualche filosofo forestiero. I cervelli degli intellettuali, il loro linguaggio, non sono quelli del popolo. Ho sentito io, giorni fa, nella Sala d’Istruzione, un dialogo significativo. Un patriota insegnava il calendario repubblicano a dei popolani. “Tu, lo sai che mese è chisto?”. “Febbraro”. “Nonsignore. Se dice piovoso. Marzo è ventoso. Aprile è germinale. E sai luglio comme se chiamma? Termidoro. Hai capito?”. “Gnorsì, eccellenza. Luglio è pommodoro: perché è lo tiempo de li ppommarole” (Striano, pp. 315-7).

28 febbraio. Giovedì. Napoli. Il Governo Provvisorio si reca a far visita al nuovo comandante in capo dell’armata francese. “Il generale MacDonald, personaggio dal carattere duro, profondamente ostile al popolo napoletano e ispirato a principi di netto moderatismo, entra subito in rotta di collisione coi membri più radicali del Governo Provvisorio, inaugurando una politica di aperta rottura” (Sani, 41). “Se ambizioso e in un certo senso ribelle era Championnet, altrettanto conformista era MacDonald che, seguendo gli ordini del Direttorio, fermerà l’avanzata dell’armata verso il Sud, confischerà tutto il confiscabile, farà ritornare Faypoult e preparerà, fin dal suo arrivo, la ritirata della maggior parte delle truppe segnando così la fine di un governo che, nato avventurosamente, sarà travolto da un disegno politico che gli era estraneo” (Battaglini, p. 27). C’è un tentativo dei lazzari, non riuscito, di occupare Castel Sant’Elmo.

“La repubblica, passato il primo momento di entusiasmo e di sbalordimento, si trovò senza radici e senza forze. La sua situazione era, in verità, contraddittoria e disperata. La Repubblica non poteva sostenersi se non a patto di creare intorno a sé una serie d’interessi, coll’abolizione totale del feudalesimo, colla liquidazione della proprietà ecclesiastica, col garantire le carte dei Banchi, e col fare insomma tutte quelle mutazioni che si compirono poi, in condizioni più fortunate, durante il decennio francese e formarono la base del governo murattiano. Per ispiegare questa attività, avea bisogno di un esercito, che la difendesse e garantisse, e le procacciasse la calma necessaria. Ora, l’esercito non poteva crearsi subito con forze nazionali, che o non eran mature o, come le plebi delle città e delle campagne, le si erano volte contro. Unico appoggio, dunque, il corpo di occupazione francese, che aveva aiutato i patrioti a proclamare la repubblica, come essi l’avevano aiutato a penetrare in Napoli, e alla cui ombra il nuovo Stato avrebbe dovuto crescere e rafforzarsi. Ma quel corpo francese, fuori delle linee militari, sempre sul punto di essere richiamato sui teatri delle guerre europee, era un appoggio precario; e, d’altra parte, colle contribuzioni, colle spogliazioni d’ogni sorta, con gli arbitrii, attizzava le insurrezioni delle provincie, ed impediva la formazione di un’armata nazionale. Il suo restare e il suo partire recavano pericolo diverso, ma eguale” (B. Croce, pp. VII-VIII).

1 marzo. Venerdì. Napoli. Il generale MacDonald tiene un discorso al Governo Provvisorio nel quale “ha assicurato la Repubblica Napoletana dell’intera indipendenza: i fatti per altro sin’ora non corrispondono, staremo a vedere” (De Nicola, p. 88).

La città di Napoli è divisa in sei “Cantoni”: “Chiaia; Sannazzaro, Antignano; Monte libero, Due Porte; Colle Giannone, Serraglio; L’Umanità, Le paludi; Sebeto, Mercato, Masaniello. Per ciascuno di questi cantoni si è destinata una municipalità composta di 7 individui, oltre il Commessario. Si è con altro invito disposta la nuova numerazione delle case della città, tolta dal furore popolare nei giorni dell’anarchia” (De Nicola, p. 86).

La verità è che non si puol essere contenti del Governo attuale. E’ cattiva la condotta dei generali francesi, e di quei che si sono posti alla testa degli affari. Tante belle promesse di felicità e libertà, ed intanto siamo più infelici e schiavi di prima. I dazii e le imposizioni sono le stesse. Il numerario manca come prima ed è arrivato al 62%. I viveri sono cari oltremodo: la tassa angustia tutti coloro che avevano qualche comodo; e ciò si rifonde anche a danno del restante della popolazione, perché chi meno ha meno spende; la gente non è impiegata, quelli ch’erano in Corte non trovano padroni, gli artieri non hanno da poter fatigare, in conseguenza i malcontenti crescono, e quelli che desiderarono la mutazione di governo ora hanno cangiato linguaggio. I francesi uffiziali per le case dei particolari finiscono a disgustare per le loro impertinenze, e se non altro col peso che recano a chi deve darli quanto li bisogna per alloggio e mangiare, e non si contentano di poco. I soldati non lasciano di commettere impertinenze, e questo la Nazione non lo soffre. La Religione che si promise di non toccarsi, il basso popolo crede che si vilipenda, perché i soldati francesi non hanno rispetto né per le chiese, né pel Santissimo quando lo incontrano per Napoli. I preti si veggono arrolati nella milizia urbana, si sente pubblicamente insegnare lo scioglimento dei voti, il matrimonio dei preti, il ripudio e il divorzio, cosa che al popolo fa della molta impressione. Questo è lo stato della città, ed io preveggo nuove sciagure” (ib, 87). “La paurosa svalutazione della moneta era già iniziata sotto i Borboni ma con la Repubblica era giunta a punte inimmaginabili specie perché, da un lato, l’oro e i metalli preziosi erano stati trafugati dal re, e dall’altro la garanzia che avrebbe dovuta essere offerta dai beni nazionali, costituiti specialmente dai conventi, si rivelò inefficace” (Battaglini, p. 18).

Monteleone (Calabria). Ruffo cerca di alleggerire il carico fiscale. Il card. Ruffo entra in città ed emana un proclama col quale ordina di: “1. Abolirsi per le due Calabrie dal I° del passato gennaio la contribuzione annuale per la costruzione delle strade, riserbando di disporre a miglior tempo sulla contribuzione da pagarsi per mantenimento delle strade già fatte. 2. Abolirsi per tutte le provincie fedeli la contribuzione pel cordone marittimo. 3. Assolversi le stesse provincie per la contribuzione delle franchigie ai miliziotti provinciali. 4. Cassarsi dalla tassa l’onorario dell’avvocato nella capitale e quelle del procuratore presso il Tesoriere provinciale. 5. Sospendersi la decima, con obbligo però agli esattori della medesima di versare le somme già esatte” (…) Di notevole importanza furono poi i provvedimenti diretti ad alleviare la gravissima crisi dell’industria della seta (…) A differenza di quel che non avevano saputo o potuto fare i repubblicani, il Ruffo cercò di alleggerire il carico fiscale, eliminando, se non i più pesanti contributi, certo i più impopolari: l’abolizione degli annotatori e dei loro sostituti e dei soprabilancieri, figure odiatissime della vita calabrese, più che ogni altro provvedimento valse a viepiù avvicinare il ceto popolare al Ruffo e ad alimentare il concorso dei realisti all’Armata Cristiana. La quale, anche per effetto dell’editto di perdono nei confronti di tutti coloro che, pur compromessi nel moto repubblicano, ritornavano all’obbedienza, si apprestava ora a marciare verso paesi spontaneamente “realizzatisi”. Infine non bisogna dimenticare che le Calabrie non subirono nel 1799 la diretta occupazione da parte delle armate francesi e che qui, dunque, l’azione antirepubblicana non fu originata dalle confische, dai sequestri e dai soprusi che accompagnano ogni occupazione militare (Cingari, pp. 191-3).

2 marzo. Sabato. Napoli. Si organizzano quattro battaglioni di Guardia nazionale. E’ pubblicata la lettera di congedo del generale Championnet dai napoletani. Il “Monitore” annuncia che la “Costituzione non tarderà a pubblicarsi”.

“L’arrivo nelle provincie de’ commissari organizzatori, le loro follie, le loro pretensioni, affettando anche principi irreligiosi e libertini e togliendo al popolo l’elezione dei suoi ufficiali comunali e reprimendo le sue invasioni nelle proprietà feudali, fecero sì che si credettero burlati, idea alla quale non si resiste. La condotta avida e sovente cruda dei generali francesi nelle provincie, in cui erano entrati, la licenza dei soldati, le pretensioni degli uffiziali a vivere in un modo che non era né nelle abitudini né nei mezzi dei provinciali, risvegliò energicamente i sentimenti che avevano un momento taciuto; e incoraggiati dalla resistenza, benché non felice, delle Puglie, i moti di Calabria con l’arrivo di Ruffo, la presenza degli Inglesi sulle coste, le nuove di prossimo sbarco dei Russi, tutto determinò la popolare resistenza. La classe media vi prese parte, e proscrisse quella che per il nuov’ordine parteggiava, meno in alcuni comuni di Puglia e Basilicata, ove il partito repubblicano prese il di sopra e si associò parte delle classi inferiori” (Blanch, 49).

L’insurrezione antigiacobina dei contadini in nome della Santa Fede esprimeva, da un lato, la rivolta delle campagne contro i privilegi e il secolare parassitismo della capitale, che la sua storia settecentesca non aveva fatto che confermare; dall’altro lato era anche il risultato delle più recenti trasformazioni che avevano almeno in parte mutato nelle province assetti ed equilibri tradizionali. Il lento ma ormai definitivo processo di disgregazione del regime feudale avviatosi nella seconda metà del ‘700, con la privatizzazione delle terre demaniali, l’erosione della gestione collettiva e degli usi civici, e che aveva promosso la formazione di un nuovo ceto terriero, aveva al tempo stesso aggravato le condizioni dei contadini, privati dei loro tradizionali punti di sostegno. Tutti gli sforzi che pure erano stati compiuti, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, per promuovere una piccola e media proprietà contadina erano regolarmente falliti: il popolo delle campagne si era trovato escluso in tal modo da un processo di rinnovamento delle strutture produttive e di mercato che contemporaneamente colpiva le sue esigenze e i suoi mezzi di sussistenza. L’erosione della proprietà ecclesiastica, in particolare in Calabria, aveva rafforzato la posizione economica dei proprietari nobili e borghesi, proprio mentre la Chiesa, in reazione all’offensiva anticuriale, aveva cercato di giustificare il possesso dei propri beni, accentuandone il carattere pubblico e assistenziale, attraverso la concessione di terre a canoni inferiori a quelli della proprietà laica, e il rispetto dei tradizionali usi comuni. A tutto ciò si era aggiunta, soprattutto dopo il 1793, una violenta e capillare azione di propaganda antigiacobina, che faceva leva sulla religiosità popolare presentando i francesi e i loro sostenitori come “bevitori di sangue” ed eversori “del trono e dell’altare” (Rao, pp. 133-4).

3 marzo. Domenica. Napoli. Torna a Napoli l’ammiraglio Caracciolo. Fa il suo ingresso tra le file dei patrioti repubblicani l’ammiraglio Francesco Caracciolo, giunto oggi a Napoli dalla Sicilia. Assumerà il comando della Marina della Repubblica. “Al giorno su d’una corvetta proveniente dalla Sicilia è arrivato il nostro bravo comandante di mare, Francesco ex duca Caracciolo” (De Nicola, p. 92). “Circa i beni personali del Re si è preteso doversi alla Nazione francese, su di ciò vi fu rimostranza avanzata dal Governo Provisorio per ottenere che si lasciassero alla nazione Napoletana” (ib, 90).

Caracciolo, ritornato dalla Sicilia, solennemente congedato dal re, e restituito alla patria, ci rese le nostre speranze. Caracciolo valeva una flotta. Con pochi, mal atti e mal serviti barconi, egli osò affrontar gl’inglesi: l’officialità di marina, tutta la marineria era degna di secondar Caracciolo. Si attacca , si dura in un combattimento ineguale per molte ore; la vittoria si era dichiarata finalmente per noi, che pure eravamo i più deboli: ma il vento viene a strapparcela dalle mani nel punto delle decisione; e Caracciolo è costretto a ritirarsi, lasciando gl’inglesi malconci, e si potrebbe dire anche vinti” (Cuoco, pp. 158-9).

Acquaviva delle Fonti (Puglia). “Per affezionare maggiormente il popolo al nuovo sistema e per fare che l’emblema della finta libertà incutesse in esso della venerazione, volle il Supriani che si facesse solenne benedizione dell’Albero. Questa si effettuò oggi. Concorso innumerevole di popolo, la guardia civica tutta in ordine, una solenne processione, spari, musica, canto di inni patriottici, proclamazione al popolo, elargizioni e larghe limosine ai poveri resero quel giorno memorabile” (Pedio, pp. 450-1).

Monteleone (Calabria). Il card. Ruffo scrive al ministro Acton: “Ad oggetto che quelle popolazioni calabresi, le quali si sono mantenute attaccate al Sovrano risentano gli effetti della reale riconoscenza, e le altre sieno animate a seguir l’esempio delle fedeli, ho creduto espediente di sgravarle di alcune contribuzioni, di cui generalmente si dolevano (…) Le nuove di Napoli, quantunque abbia parlato con parecchie persone, non ho potuto saperle con precisione. Hanno tassato la nobiltà già con due contribuzioni. I castelli sono guardati da francesi, ma le porte e le guardie sono napoletani che servono per turno. La nobiltà sta chiusa nelle case, il mezzo ceto sta in grande allegria, i lazzari aspettano le occasioni di vendicarsi (…) In Cosenza c’è un misto di luoghi realisti e repubblicani; la nobiltà e il popolo è realista, il mezzo ceto e paglietti è repubblicano. A Catanzaro la nobiltà è pessima, è ricca e superba, opprime gli altri ceti, spende per mantenere soldati; ma a lunga, non puol durare, le si può tagliare l’acqua, i molini (…) Dei fiscali ho fatto qualche rilascio, anzi la metà del focatico ed industria ai braccianti e poveri di quei paesi che si sono dimostrati i più fedeli ed arditi, nutrendo sempre la gelosia fra il popolo ed il ceto medio, ed esonerando il popolo che è veramente troppo caricato di pesi, ma non sciogliendolo interamente. La prego a credere che le circostanze di utilità e necessità mi conducono, non già la volontà di beneficare o di dominare” (Ruffo, pp. 43-5).

Nell’armata che andava formando, il Ruffo cercò tenere il nucleo centrale (il Reggimento dei R. Calabresi) separato dalle masse degli irregolari; anzi dapprima pensò di poter agire quasi esclusivamente con detto nucleo, che sperava si sarebbe molto accresciuto. Purtroppo il numero degli ex militari dell’esercito regio, che si presentarono al cardinale, fu assai limitato (5 o 600 al massimo), mentre le masse degli irregolari crebbero presto a numero considerevole: dopo un mese dallo sbarco, essi non erano, a Monteleone, meno di 15mila. Perciò al Ruffo, che non ebbe la possibilità di scegliersi gli uomini ed i mezzi d’azione, s’impose la necessità di servirsi, come strumento principale di guerra, della massa degli irregolari, vera moltitudine, senza disciplina, pronta agli eccessi, al sangue, al saccheggio. Il cardinale cercò con tutta la sua energia di frenare questa massa, di ordinarla e disciplinarla; ed indubbiamente esercitò su coloro che lo seguivano un’azione moderatrice. Nessuno potrebbe affermare che egli vi sia riuscito completamente; ma anche nessuno potrebbe negare che abbia ottenuto un risultato non disprezzabile. Sicché il carattere che la spedizione ebbe nel primo periodo, cioè di guerra civile combattuta da una moltitudine irrequieta, amante di bottino e pronta ad ogni eccesso, andò attenuandosi man mano che la massa acquistò maggior consistenza ed ebbe una  certa organizzazione. Comunque sta il fatto che il Ruffo riuscì a creare dal nulla un’armata, sia pure con poca disciplina, ma abbastanza compatta ed a lui sempre obbediente, tanto che poté condurla di successo in successo ed ottenere con essa un risultato finale, che da principio sembrava follia sperare” (Serrao De Gregorj, pp. 184-5). “La frantumazione delle forze rivoluzionarie e la scarsa consapevolezza che i repubblicani ebbero del carattere e della portata del movimento sanfedista non permisero loro di opporsi efficacemente ad esso. D’altra parte, nemmeno il moto sanfedista ebbe un carattere organico. Il Ruffo, per avanzare all’interno del regno si appoggiò ai diversi moti locali, ma non li assorbì in un moto più vasto: si può fare perciò una certa distinzione tra la vera e propria Santa Fede ed i moti antirepubblicani a carattere sociale su cui il Ruffo fece abilmente leva per abbattere la Repubblica, senza però riuscire a dar loro un significato politico unitario. Lo stesso Ruffo così descrisse la sua avanzata: “E’ sempre però un miracolo della Provvidenza, giacché non sono sempre gli stessi, ma quelli che sono nei contorni del paese che vuole assediarsi, i quali per un malumore potrebbero non venire o lasciarci, ma non sono la grazia di Dio mai mancati”. Il Ruffo dunque si limitò a raccogliere intorno al suo esercito le diverse spinte antiborghesi, sfruttando gli elementi oggettivi a lui favorevoli, ed anche attuando un’accorta politica fiscale” (A. Lepre, p. 64).

Palermo. La regina scrive al Ruffo: “Trovo savissimo e da molto profondo ed accorto pensatore quello che per non sgravare i popoli tutto assieme dai pesi fiscali bisogna proporzionare il beneficio al merito, e lasciare sempre qualche cosa da sperare. Credo necessarissimo sollevare i popoli dai soverchi aggravi che potrebbero fargli scuotere ogni giogo, ma bisogna farlo con prudenza” (Croce, “La riconquista..”, p. 43). “La regina scriveva ancora: “Genzano e Cassano Serra padre sono ambidue come pure Vaglio e Monteleone impiegati nella Municipalità della sedicente repubblica, e perciò li annunzio ciò, i loro feudi essendo nelle Calabrie”. Il messaggio era chiaro: il cardinale doveva punire subito i traditori, colpendo le loro proprietà” (Gargano, p. 22).

 

                                                           Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, 1973
  • L. Blanch, “Scritti storici”, Napoli
  • G. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
  • B. Croce, “La rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza., Bari, 1943
  • Gennaro Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • P. Gargano, “Gennaro Serra di Cassano. Un portone chiuso in faccia al tiranno”, Magmata, 1999
  • A. Lepre, “Storia del Mezzogiorno nel Risorgimento”, Editori Riuniti, 1969
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