Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Prima puntata. Estate-dicembre 1798. “Il re Borbone da Napoli a Roma, da Roma a Napoli, da Napoli a Palermo: toccate e fughe precipitose”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Prima puntata. Estate-dicembre 1798. “Il re Borbone da Napoli a Roma, da Roma a Napoli, da Napoli a Palermo: toccate e fughe precipitose”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti” (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

Estate 1798. Il re di Napoli decide di invadere il Lazio, ora occupato dai Francesi. La Francia apre un nuovo fronte europeo di guerra sul Reno mentre si prolunga la sua campagna d’Egitto contro gli inglesi. Di conseguenza si assottigliano le armate francesi sui territori delle repubbliche giacobine italiane. In un contesto del genere va maturando la decisione del re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, di iniziare un’azione militare contro i francesi a settentrione, con l’obiettivo dichiarato di riportare sul trono di Roma il pontefice Pio VI e con quello nascosto di ritoccare a suo vantaggio i confini del regno. Tale iniziativa aveva l’appoggio dell’Inghilterra, dell’Austria e della Russia.

25 luglio. Napoli. Vengono scarcerati 58 giacobini, tra i quali Mario Pagano (incarcerato nel febbraio del 1796) che va in esilio prima a Roma e poi a Milano.

2 settembre. Napoli. Il re , per completare il suo esercito (già infoltito nel 1796 con un arruolamento volontario, ordina una leva straordinaria di quarantamila uomini. “In Bagnoli Irpino (Principato Ultra), entusiasta allora del monarca borbonico, si offersero ad inscriversi nella nuova milizia ben diciassette persone, le quali furono dal Comune vestite a sue spese e stipendiate con un carlino al giorno per ciascuno durante il tempo, che avrebbero prestato il servizio militare. Nel giorno 19 giugno del 1796 partirono da qui questi volontari accompagnati da tutta la popolazione fin fuori l’abitato, con giubilo e lagrime attesa la loro intrepidezza” (A. Sanduzzi, pp. 533-534). Il Sanduzzi aggiunge altre notizie che sono utili per inquadrare gli eventi di quegli anni: “Non solo questo sagrifizio fece Bagnoli alla causa della Monarchia Borbonica, ma fu costretto sottostare a tutte le vessazioni ordinate allora dal Governo per far danari. Essendo stato emanato un Decreto con cui si faceva obbligo alle Chiese e Congreghe di consegnare allo Stato tutti gli arredi sacri ed oggetti in oro ed argento non necessari strettamente alle funzioni di culto, salvo il pagamento di essi a tempo opportuno, furono spediti pel Regno speciali Commissari per incettarli, e Bagnoli non poté sottrarsi a tale consegna. E’ vero che per far sfuggire all’avidità del Governo vari oggetti di singolare importanza, e specialmente le statue dei Santi in argento, si ricorse a nasconderle nelle fosse della Chiesa, ma molti arredi sacri ed oggetti preziosi furono consegnati al Commissario, e la più danneggiata fu la Congrega del Santissimo della Chiesa Matrice, e la spoliazione raggiunse il valore di oltre tremila ducati, dei quali non fu giammai rimborsata, giacché è risaputo dalla storia che dopo essere stata convertita in monete d’argento tutta l’argenteria incettata, la maggior parte di essa portò seco in Sicilia il re Ferdinando, quando fu costretto dall’armi francesi a ricoverarsi colà, e né tornato nel Regno ebbe cura di pagarne il valore a coloro dai quali avea incettati questi arredi sacri. Né solo questo aggravio subì Bagnoli in quei tempi tristi, ma dovette sottostare al pari di tutti i paesi del Regno a gravose imposte, delle quali la più risentita fu quella detta della Decima, la cui ripartizione dovendosi fare dall’Amministrazione Comunale, provocò tanti malumori da far risorgere di nuovo l’ire partigiane” (ibid, 534).

4 ottobre. Dal “Monitore di Roma”, articolo di Vincenzo Russo. “Protesta contro il lusso e lo spreco dei generali francesi e dei consoli repubblicani. Pranzi luculliani. I cittadini non avevano da comprarsi il pane”. Si evidenzia la tendenza tardo-robespierrista del nostro giovane scrittore.

20 ottobre. Dal “Monitore di Roma”, articolo di V. Russo. “La democrazia va piantata negli animi, stabilita riordinando i fatti sociali, riformando i pubblici desideri, raddrizzando i costumi. Essa promette per l’ordinario i più leggeri tributi”.

24 ottobre. Dal “Monitore di Roma”, articolo di V. Russo. “E’ vero, vi è disuguaglianza grande nelle fortune, ma chi dice mai che vi sarà sempre? La Costituzione repubblicana ha già distrutto feudi, primogeniture, fedecommessi. A poco a poco si faranno ancora altre operazioni, onde di qui a qualche anno le fortune siano ridotte almeno ad equabilità”.

22 novembre. Napoli. Re Ferdinando dichiara guerra alla Repubblica giacobina romana e si pone alla testa delle truppe. Il suo esercito conta circa settantamila uomini. Il generale austriaco Mack è nominato capo della spedizione. “Questa guerra, alla quale nessuno era preparato, fu praticamente imposta al re dalla regina Carolina e si rivelerà inutile e dannosa. Essa non poteva comportare nessun vantaggio, nemmeno di puro prestigio; accelererà la fine del Regno di Napoli e lo getterà in mano ai francesi e poi agli inglesi, poi di nuovo ad inglesi e francesi insieme per quasi 15 anni” (M. Battaglini, p. 24).

24 novembre. Lo sviluppo della guerra. Le truppe napoletane varcano la frontiera dell’ex Stato pontificio. Il Cuoco immagina un dialogo tra la regina Carolina e il ministro della guerra Ariola. “Che vi pare di questa guerra già risoluta?” –domandò la regina ad un ministro della guerra che non ne sapeva nulla. Il ministro, che avrebbe voluto tacere, spronato a parlare, le disse che da tal guerra vi era più da temere che da sperare. “Il re potrebbe – disse Ariola- sostener con vantaggio una guerra difensiva, ma tutto gli manca per l’offensiva. Egli non combatte ad armi eguali. I francesi, pochi di numero, son tutti soldati avvezzi alla guerra ed alla fatica; l’esercito nostro è per metà composto di reclute strappate appena da un mese dal seno delle loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirà che ad imbarazzare i buoni veterani che son tra loro, ed a rendere più sensibile la mancanza di buoni officiali, il numero de’ quali non abbiam potuto raddoppiare in un momento, come abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si aspetta che queste truppe si disciplinino?(…) Intanto Mack, quasi potesse terminar la guerra in pochi giorni, si avvia verso un paese desolato, ove è penuria di tutto, senza aver prima pensato a provvedersi, ed in una stagione in cui difficili sono i trasporti ed i generi non abbondanti. Egli si avvia a conquistare il territorio altrui e forse a perdere il proprio” (V. Cuoco, pp. 65-66).

26 novembre. Roma. Il generale francese Championnet e il governo giacobino romano abbandonano la città.

27 novembre. Le truppe napoletane, dopo cinque giorni di avanzata rapidissima, entrano a Roma. Ai francesi rimane solo Castel S. Angelo.

28 novembre. Entra a Roma il generale Mack.

29 novembre. Entra a Roma Ferdinando IV e nomina un governo provvisorio.

Primi giorni di dicembre. Si registrano vittorie francesi nella campagna romana (Civita Castellana e Otricoli). E’ ancora una volta preziosa la testimonianza di Cuoco: “Non si concessero che cinque ore di riposo sotto le armi alla truppa, e fu costretta di nuovo a correre a Civita Castellana. Per la strada i viveri mancarono del tutto: i provvisionieri dell’esercito chiedevano invano a Mack ove dovessero inviarli; i viveri si perdevano inutili per le strade, ed i soldati e i cavalli intanto morivano di fame. Quando giunsero a Civita Castellana, i nostri da tre giorni non avean veduto pane. Essi erano nell’assoluta impossibilità di poter reggere a fronte di un nemico fresco, che conosceva il luogo e che distrusse il nostro esercito, raggirandolo qua e là per siti ove il maggior numero era inutile” (V. Cuoco, p. 68).

8 dicembre. Sabato. L’ala sinistra dell’armata francese, guidata da Duhesme, attacca le terre d’Abruzzo. Un editto di Ferdinando IV invita gli abruzzesi all’insurrezione. “Si pubblicò un proclama, col quale s’invitarono i popoli ad armarsi e difendere contro gl’invasori i loro beni, le loro famiglie, la religione dei padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri popoli ch’essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di risvegliare tali sentimenti in nome di Dio” (V. Cuoco, p. 73).

9 dicembre. Domenica. Il generale Mack ordina la ritirata da Roma.

10 dicembre. Lunedì. Abruzzi. La prima insorgenza. Mossi dall’appello del re, animati da frati e preti, spesso a capo dei popolani, stimolati dal sentimento religioso e nazionale, da desiderio di vendetta e cupidigia di bottino, i montanari si levarono a torme nella caccia feroce contro gli invasori francesi” (A. Franchetti). I francesi occupano Teramo. “Tra le montagne impraticabili della provincia dell’Aquila non si pervenne mai ad estinguere l’insorgenza, e la stessa capitale della provincia non fu che per pochi giorni in poter de’ francesi, ridotti a doversi difendere entro il castello”.

11 dicembre. Martedì. Re Ferdinando IV lascia Roma e va ad Albano. Riparte il giorno successivo per Napoli.

12 dicembre. Mercoledì. Inizia la ritirata dell’esercito napoletano, ritirata che ben presto, tra defezioni e accuse di tradimento ai generali, si trasforma in una rotta. “In meno di un mese, Ferdinando partì, corse, arrivò, conquistò il regno altrui, perdette uno de’ suoi e, poco sicuro dell’altro (la Sicilia), fu quasi sul punto di fuggire fino al terzo suo regno di Gerusalemme per ritrovare un asilo (…) Mack, che nella sua fortuna non avea fatto altro che correre, nella disgrazia non seppe far altro che fuggire: cogli avanzi del suo esercito poteva fermarsi a Velletri oppure al Garigliano, ove potea per lungo tempo contendere il passo; potea salvar Gaeta e salvare il Regno” (V. Cuoco, pp. 69-70). “La monarchia borbonica tentò il colpo di scacciare i francesi da Roma e dar principio alla loro cacciata dall’Italia, ristabilendo i vecchi governi; ma la stolta uscita in guerra, istigata dal Nelson, con un esercito mal congegnato e in gran parte improvvisato e con la guida di un fatuo generale ottenuto in prestito dall’Austria, finì in un disastro e aprì ai francesi e agli esuli giacobini la via del Regno. E i sovrani gridarono allora al tradimento, e quantunque traditori ce ne fossero, perché in quell’esercito abbondavano i giacobini, e quantunque si abbiano ora le prove che in vari scontri di quella campagna essi soppressero ordini o gettarono nelle truppe lo scompiglio, il maggiore tradimento lo aveva compiuto, spontanea o costretta, la monarchia con l’intraprendere la guerra contro il sentimento di tutta la parte migliore della nazione e contro l’avviso di tutti i saggi” (Croce, p. 206).

14 dicembre. Venerdì. I francesi giungono a Fondi, Gaeta, Pescara.

15 dicembre. Sabato. Caserta. Il re convoca d’urgenza il Consiglio del Regno: si fa subito strada l’ipotesi della fuga in Sicilia. Il progetto viene messo a punto nei giorni successivi con l’assistenza dell’ammiraglio inglese Nelson.

16 dicembre. Domenica. Napoli. “Questa mattina doveva farsi il miracolo di S. Gennaro, e non è successo, ma l’ha fatto verso le 22 ore. Nella città si sente un mormorio” (Marinelli).

17-18 dicembre. Napoli. La fuga dei sovrani in Sicilia. Notte dopo notte andò in scena sui vascelli inglesi un vero e proprio trasloco di tutti i principali beni mobili della corte borbonica: denaro, tesori, opere d’arte, mobilio e biancheria. Dieci milioni e mezzo di ducati, vale a dire tutto il residuo deposito contante del Regno, si prepararono a prendere la via di Palermo. Ben presto la notizia dell’imminente fuga del re si sparse tra il popolo in fermento” (Sani, p. 11). In città si sparge la notizia dell’arresto per ordine del Re del ministro della guerra Arriola. E su quella notizia vera si aggiunsero altre inesistenti di altri arresti di personaggi autorevoli (Marinelli).

19 dicembre. Gli insorti abruzzesi liberano Teramo dall’occupazione francese.

20 dicembre. Giovedì. Napoli. “I reali vogliono scappare perché non hanno più fiducia nell’esercito; molti ufficiali sono sospettati di giacobinismo”. Delegazioni di nobili, di magistrati e del clero si recano alla reggia per scongiurare il re di non partire. Nel dopopranzo ci va anche l’arcivescovo e poi il capo-popolo Sabatiello alla testa di una delegazione di popolani. Viene trucidato dalla folla sotto Palazzo Reale, per un equivoco, Antonio Ferreri, corriere di gabinetto del re. Il re Ferdinando annota nel suo Diario: “Passata un’infame nottata. Alzatomi alle cinque e mezza, vestitomi, intesa la S.ta Messa, dato il buon giorno a mia Moglie, salito su, applicato. Dalle nove e mezza alle undici e mezza tenuto sessione sul modo tenendi di passare in Sicilia e quando. Andati alla Cappella per la novena, alla mezza pranzato e poi salito su, applicato. Alle tre venuto Acton portar alcune risposte di Nelson riguardo al concerto per la partenza e, mentre stavamo parlando, venuto avanti palazzo una quantità di popolo, facendo degli applausi, chiedendo che io non li lasciassi, e volendo essere armati per andar contro i francesi, ma prima di tutto per scannare i cavalieri giacobini(…) Tempo dichiarato di tramontana bello e freddo. Le maniere di mia Moglie sono state buone” (Battaglini, p. 54).

21 dicembre. Venerdì. Napoli. Il re, nell’abbandonare la reggia, nomina Vicario Generale del Regno Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, con pieni poteri di rappresentanza, e conferma il barone Mack comandante dell’esercito. “Si disse che la regina, partendo, avesse lasciate al Pignatelli istruzioni segrete di sollevare il popolo, di consegnargli le armi, di produrre l’anarchia, di far incendiare Napoli, di non farvi rimanere anima vivente da notaro in sopra. Sia che queste voci fossero vere, sia che fossero state immaginate, è certo però che queste voci furono da tutti ripetute, da tutti credute” (V. Cuoco, p. 78).

22 dicembre. Sabato. Napoli. Nel cuore della notte precedente, in preda al panico, la famiglia reale era fuggita rifugiandosi sulle navi inglesi. Per tutto il giorno una tempesta infuria nel golfo e blocca la partenza.

23 dicembre. Domenica. Napoli. Finalmente i vascelli inglesi possono prendere il largo alla volta di Palermo.

24 dicembre. Lunedì. Napoli. Si punta ad una repubblica aristocratica?Si riuniscono i rappresentanti della “Città” (cioè l’amministrazione municipale napoletana). La “Città” era espressione della nobiltà napoletana composta da 119 famiglie divise in cinque Piazze (Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanuova) ed era un organismo in continua rivalità con l’autorità regia. “Composto da sette Eletti (la Piazza di Nido ne eleggeva due mentre il settimo che doveva essere eletto dalla Piazza del Popolo era in realtà nominato dal re), godeva del privilegio di potersi sostituire all’organo sovrano ogniqualvolta questi non fosse stato più in grado di esercitare in pieno i propri poteri. Rivendicando quindi per sé la gestione del potere, i nobili della Città entrarono subito in conflitto col Pignatelli costituendosi in Governo Provvisorio e puntando, fra mille incertezze, alla creazione di una repubblica oligarchica di tipo veneziano” (Sani, pp. 12-3). La nomina del vicario Pignatelli era perciò considerata abusiva dalla “Città”, che rivendicava il suo tradizionale diritto di assumere il governo in caso di assenza del re. Il Cuoco commenta con intelligenza: “Tra coloro che reggevano la Città alcuni pendevano per una oligarchia, la quale non avrebbe potuto sostenersi a fronte delle province, dove l’odio contro i baroni era la caratteristica comune di tutte le popolazioni; e, nello stato in cui trovavansi gli animi e le cose, volendo stabilirsi un’oligarchia, sarebbe stato necessario rinunciare alla feudalità” (V. Cuoco, p. 79).

                                               Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • B. Croce, “Storia del regno di Napoli”, Bari, Laterza, 1972
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • A. Fiordelisi, “I Giornali di Diomede Marinelli”, Napoli, 1901
  • A. Sanduzzi, “Memorie storiche di Bagnoli Irpino”, 1923
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997