Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Quinta Puntata. 26-31 gennaio 1799. “Inizia l’attività del Governo Provvisorio. La città di Napoli è in effervescenza. Preoccupazioni nelle province. Non si crea un’Armata nazionale”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Quinta puntata. 26-31  gennaio 1799. “Inizia l’attività organizzativa del Governo Provvisorio. La città di Napoli è in effervescenza. Preoccupazioni nelle province. Non si riesce a creare un’Armata nazionale. Il generale Championnet si pone contro le indicazioni del Direttorio francese”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti” (Questo avevo scritto in un  mio libro nel 1975, p. 29).  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

26 gennaio. Sabato. Napoli. “La popolazione immensa della capitale era più istupidita che attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il popolo della capitale era più lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso dai tributi e più vezzeggiato da una Corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo più sulla feccia del popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sì che non sia desiderato anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepì di quella popolazione, fece sì che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le province, dalle quali solamente si dovea temere, e dalle quali si ebbe infatti la controrivoluzione” (Cuoco, p. 93).

La municipalità si riunisce a San Lorenzo, il Governo Provvisorio a Palazzo Reale. Anche la Municipalità è composta di 25 cittadini. Arrivano da Milano Mario Pagano e da Roma Vincenzo Russo, si aspettano ancora Abbamonte, Ciaja e Delfico. Russo accompagna l’armata francese, come medico del 101° reggimento di fanteria e torna a Napoli dopo due anni di esilio. “Egli ha compreso il vero carattere dei regimi repubblicani instaurati in Italia dai francesi: certamente palestre di libertà e potenti strumenti di rigenerazione, ma imposti con la forza e da eserciti stranieri. “L’armata francese ci libera dai tiranni ma se ci lasciasse ora noi saremmo preda di nuovi tiranni, o degli antichi. La libertà non si comanda ai popoli, poiché deve essere una virtù o piuttosto il complesso di ogni virtù.  La baionetta non la può dare: solo può togliere gli ostacoli per acquistarla”, così Russo aveva scritto mesi prima sul “Monitore di Roma”. E aggiungeva: Appena che una nazione si dichiara democratica, non ha luogo in essa immantinente e per ogni sua parte la democrazia. Essa non consiste, no, nelle formule della Costituzione democratica! Questa soltanto accenna quello che si debba fare per aver democrazia, ma da se stessa nol fa. La democrazia conviene piantarla negli animi, stabilirla nel riordinamento dei fatti sociali, nella riforma dei pubblici desideri, nel raddrizzamento dei costumi, nella onnipotenza di una legislazione repubblicana e dell’opinione” (Galasso, p. 288).

“L’ordine per tre sere d’illuminazione è stato affisso questa mattina, oltre una tale illuminazione straordinaria, ordina pure che in tutte le sere ciascun cittadino debba cacciar al di fuori della sua casa un fanale perché la città resti illuminata, e si provegga alla pubblica tranquillità. Si dice che ieri fu spedita una Speronara a Palermo portando un dispaccio al fu Re di Napoli, il quale presso a poco conteneva il seguente sentimento. Ferdinando Capeto, la Repubblica napoletana, consolidata colla Francese, ti fa sapere che fra giorni…gli dovrai restituire le somme sottratte ai Banchi in 30 milioni, indennizzarla dei danni cagionatele, altrimenti si dichiara la guerra. Al Baronaggio poi partito con lui, si dice essersi ordinato pure che dovesse fra un termine prefisso restituirsi in città, altrimenti considerarsi come emigrato colla confiscazione dei beni (…) Stasera il generale Championnet è stato al Teatro del Fondo, ov’ebbe grandi applausi ed evviva dal pubblico ivi raccolto” (De Nicola, 47). Anche il generale francese Thiébault, presente in teatro, commenta questa ultima notizia: “In una città ancora fresca di carneficina e preda di incendi il nostro ingresso fa riaprire l’Opera e trasforma in una vera apoteosi la superba rappresentazione alla quale siamo stati invitati. Io accompagnavo il generale in capo, e mai dimenticherò il colpo d’occhio del San Carlo, la sala più grande che esista al mondo, e che era piena del più bel mondo. Sento ancora le assordanti acclamazioni che accolsero Championnet. A noi avevano riservato le logge del Re, tutte le altre erano piene di donne belle e affascinanti. Esse si alzarono al nostro arrivo; migliaia di fazzoletti bianchi si agitavano con furore. Io ricordo che, come spettacolo, si rappresentò “Il Matrimonio segreto” di Cimarosa, con la presenza dell’autore di questa splendida musica” (Thiébault, p. 400).

27 gennaio. Domenica. Napoli. Il generale Championnet si reca in Duomo a far visita e a rendere onore a San Gennaro. “Anche l’arcivescovo Capece Zurlo si mostra favorevole alla Repubblica presenziando al Te Deum di ringraziamento a fianco dello stato maggiore francese e del governo provvisorio. Mentre il popolo rimane in attesa che le belle parole di “libertà e uguaglianza”, sbandierate dai patrioti, si concretizzino in un miglioramento reale delle proprie condizioni di vita, la città si appresta a vivere una vita nuova” (Sani, pp. 24-5). De Nicola annota nel suo Diario: “Mi si dice che domenica nel Tesoro il generale fu veduto piangere alla liquefazione del sangue di San Gennaro, che domandò se la testa del Santo avesse collana, gli fu risposto che sì, ma se l’aveva portata il Re. Egli mostrò inorridire, fece dono al Santo di un’altra collana e di un ricco anello. All’uscire di chiesa ha dato delle monete d’oro ai poveri” (Rodolico, pp. 150-1).

Viene emesso un regolamento per la circolazione della moneta. “Crebbe il prezzo al pane, tanto più sentito per i perduti guadagni della plebe, per il gran numero dei servi congedati, per le industrie sospese, per la malvagità di quelle genti che speravano nelle disperazioni del popolo. Ma i governanti stavano sereni, confidando nello zelo dei partigiani ricchi di granaglia, nei compensi di governo libero, nella rassegnazione e nel merito di patir male per amar la patria (…) Fra tutti oratore più saggio e più inteso era quel Michele il pazzo, capo del popolo nei tumulti della città, pacificatore all’arrivo di Championnet e, mutate le cose, alzato al grado di colonnello francese, e spesso mandato ambasciatore alle torme de’ popolari. Arringava in plebeo, solo idioma ch’ei sapesse, da poggiuolo o scranna per mostrarsi in alto, non preparato, permettendo la disputa o le risposte. Diceva: “Il pane è caro perché il tiranno fa predare le navi cariche di grano, che ci verrebbero da Barberia; che dobbiamo far noi? Odiarlo, sostenergli guerra, morir tutti piuttosto che rivederlo nostro re; ed in questa penuria guadagnar la giornata faticando per non dargli la contentezza di sentirci afflitti”. E ancora: “Il governo d’oggi non è di repubblica, la repubblica si sta facendo; ma quando sarà fatta, noi idioti la conosceremo nei godimenti o nelle sofferenze. Sanno i saccenti perché mutano le stagioni, noi sappiamo di aver caldo o freddo. Abbiamo sofferto dal tiranno guerra, fame, peste e terremoto; se dicono che godremo sotto la repubblica, diamo tempo a provarlo. Chi vuol far presto, semina il campo a ravanelli, e mangia radici; chi vuol mangiar pane, semina a grano e aspetta un anno. Così è della repubblica: per le cose che durano bisogna tempo e fatica. Aspettiamo” (Colletta, pp. 309-10).

Si tenta di costituire l’Armata Repubblicana. “Due legioni di fanteria di tremila uomini ciascuna, due reggimenti di cavalleria, due batterie d’artiglieria , per un totale di ottomila combattenti. Il comando è dato al principe Moliterno. L’obiettivo è di poter contare, alla fine, su almeno ventimila uomini. Questa armata, unita ai quarantamila francesi, sembrava sufficiente a Championnet per occupare gli Stati di Roma e di Napoli e per conquistare la Sicilia” (Thiébault, p. 437). La critica spietata di Cuoco. Un governo nuovo ha più bisogno di forza che un governo antico, perché l’esecuzione della legge, per quanto sia giusta, non può esser mai con sicurezza affidata al pubblico costume: gli scellerati, che non mancano giammai, hanno campo maggiore di calunniarla e di eluderla; e i deboli sono più facilmente sedotti o trascinati nell’ondeggiar dubbioso tra le antiche opinioni e le nuove. I francesi impedirono però ogni organizzazione di forza nella repubblica napoletana. Il primo loro errore fu quello di temer troppo la capitale; il secondo, di non temere abbastanza le province. Essi non aveano truppa per inviarvene, e di ciò non poteano essere condannati; ma essi non permisero che si organizzasse truppa nazionale che vi potesse andare in loro vece, e di ciò non possono essere scusati. Degli avanzi dell’esercito del re di Napoli si potea formare sul momento un corpo di trentamila uomini, di persone che altro non chiedevano che  vivere. Essi formavano il fiore dell’esercito del re, poiché erano quelli appunto che erano stati gli ultimi a deporre le armi. Tra questi, per il loro coraggio, si distinsero “i camisciotti”: contesero a palmo a palmo il terreno fino al castello del Carmine. Ciò dovea farli stimare, e li fece odiare. Furono fatti tutti prigionieri: conveniva o assoldarli per la repubblica o mandarli via. Si lasciarono liberi per Napoli, e furono stipendiati da coloro che in segreto macchinavano la rivoluzione. Si tennero così i controrivoluzionari nel seno istesso della capitale (…) Oltre di una truppa di linea, si avrebbe potuto sollecitamente organizzare una gendarmeria: allora quando ordinossi a tutti i baroni di licenziare le loro genti d’armi, costoro sarebbero passati volentieri al servizio della repubblica; essi non sapevano far altro mestiere: abbandonati dalla repubblica, si riunirono agli insorgenti. Essi avrebbero potuto formare un corpo di cinque in seimila uomini, e tutti valorosi. Si ordinò congedarsi gli armigeri baronali, e non si pensò alla loro sussistenza; si soppressero i tribunali provinciali, e non si pensò alla sussistenza di tanti individui che componevano le loro forze e che ascendevano ad un numero anche maggiore degli armigeri” (Cuoco, pp. 132-4). “L’indifferenza del generale in capo francese per la costituzione di forze militari napoletane, l’appropriazione da parte dei commissari civili francesi di tutti i mezzi finanziari, lo stato d’umiliazione del governo, la cattiva scelta dei comandanti militari napolitani e la mancanza di fiducia in loro dei patrioti, impedirono la formazione d’un esercito nazionale, che si sarebbe potuto costituire con gli avanzi dell’esercito lasciato dal re, organizzando una forza d’una trentina di mila uomini” (F. Serrao De’ Gregorj, p. 153).

“La sera, al Teatro San Carlo (ribattezzato Teatro Nazionale) si rappresenta Nicaboro in Iucatan, libretto di Domenico Piccinni e musica di Giacomo Tritto, per festeggiare la cacciata da Napoli del re. La gente grida ad alta voce: “viva la libertà, muoia il tiranno” e si nominano anche vari soggetti in odio alla Nazione, come Acton, Castelcicala ed altri” (Sani, p. 25).

Palermo. Il cardinale Ruffo parte alla volta di Messina.La spedizione, più che lo scopo palesato della riconquista del regno, aveva quello di servire come antemurale della sicurezza in Sicilia; ove si temeva che la rivoluzione dalle Calabrie, tutte democratizzate ad eccezione di Reggio, Palmi, Bagnara e Scilla, si propagasse nell’isola, in cui grande era il malcontento delle popolazioni contro la corte. E di questo malcontento si rendeva conto la regina, che scriveva a Vienna: “Ho la triste convinzione che quando il regno di Napoli sarà in rivoluzione da un capo all’altro, la Sicilia non tarderà a seguire il cattivo esempio; e tale rivoluzione sarà sfrenata e selvaggia; sono persuasa che nessuno di noi ne uscirà con la vita salva”. Data la pochezza, per non dire la mancanza assoluta di mezzi con cui veniva iniziata l’impresa, poca fiducia si nutriva per la buona riuscita di essa; la stessa regina qualche giorno dopo la partenza del cardinale scriveva a Vienna: “Io fido poco nella buona riuscita del Ruffo, che deve conservarci le provincie ancora rimasteci; e rifacendosi dalla Calabria ridurle alla fedeltà e alla lotta per la buona causa”. Né maggiore fiducia avevano gli Inglesi, e specialmente Nelson, anche pel fatto che il cardinale non era uomo di guerra”  (Serrao De’ Gregorj, pp. 176-8).

28 gennaio. Lunedì. Napoli. Ancora sui discorsi tenuti ai lazzari da Michele il pazzo.Dimandato da uno del popolo che volesse dir “cittadino”, rispose: “Non lo so, ma dev’essere nome buono, perché i capezzoni l’han preso per se stessi. Col dire ad ognuno cittadino, i signori non hanno l’eccellenza, e noi non siamo lazzari: quel nome ci fa uguali”. E allora un altro: “E che vuol dire questa uguaglianza?” “Poter essere (indicando con le mani se stesso) lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre; io lo sono per l’uguaglianza: allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva”. E quel plebeo le riferiva nel dialetto parlato, brevissimo e vivace. Alcuni preti e frati, sapienti ancor essi, parlavano al popolo di governo; e tirando dal Vangelo le dottrine di eguaglianza politica, e volgarizzando in dialetto napoletano alcuni motti di Gesù Cristo, incitavano e rafforzavano l’odio al re, l’amore a’ liberi governi, l’obbedienza all’autorità del presente (…) Ma pure altri cherici dai confessionali inspiravano sensi contrari; e giovani dissennati guastavano le buone opere de’ sapienti per dottrine di sfrenata coscienza, predicando libero il credere, libero il culto di religione; non premi celestiali alla virtù, non pene alle colpe: nullo il futuro come di belve” (Colletta, p. 310).

Marra, ridendo, tira per un braccio Fasulo. “Senti questa, ch’è buona. C’è un Francese che, attorniato da un mucchio di lazzari, va ripetendo: “Une femme. Tu peux me procurer une femme?”. E i lazzari gli portano pagnotte, maccheroni, aranci. Lui li respinge, insiste: “Je veux une femme”. “Ma comme?” fanno i lazzari, sbalorditi, “Tieni famme e non vuo’ mangià?”. Finalmente uno di essi s’illumina, grida: “Qua famme e famme! Chisto nun vo’ mangia’, chisto vo fot…” (Striano, 303)

“Mi è stato riferito che nel Teatro de’ Fiorentini si vide ballare la prima ballerina, mezzo denudata quasi sino all’ombelico, ed essersi ripetutamente baciata col ballerino. Se ciò è vero, mi rincresce, perché non mi pare che corrisponda alle massime del Governo, che annunzia Virtù e Libertà, ma non libertinaggio; ed il Teatro se si corrompe, anco i costumi si corromperanno; mi auguro perciò che si dia riparo a tali laidezze” (De Nicola, p. 50).

29 gennaio. Martedì. Napoli. Eruzione del Vesuvio.

Il gioco dell’Albero. Davanti a Palazzo Reale, ribattezzato Palazzo Nazionale, viene innalzato l’albero della libertà con balli e canti e l’organizzazione estemporanea di matrimoni repubblicani. “ Si è innalzato l’arbore con gran concorso e solennità. Si sono abbattuti tutti gli emblemi che dinotavano Sovranità, come corone gigli ed altri, ch’erano attaccati al detto palazzo” (De Nicola, p. 50). La sera stessa si registra il tentativo di bruciare l’albero. Il giorno dopo “vi si trovarono attaccate satire”.

Il generale Championnet emana un proclama dal suo Quartier Generale: “Abitanti della Calabria, della Puglia e dei due Abruzzi, non contate più sulla protezione del Re che vi governava. Egli è fuggito per sottrarsi al pericolo; tutti i vostri tesori sono stati tolti via dalla di lui ingordigia. I Monarchi sono tutti gli stessi. Indifferenti alle disgrazie dei loro sudditi, li abbandonano al menomo pericolo. Siffatti uomini non ebbero mai né amici, né Patria. Cittadini, perdendo un Tiranno, Voi acquistate un popolo di fratelli (…) Dichiaratevi. Napoli è degna dei Repubblicani francesi; ha infranto l’idolo del suo Re; ha organizzato il suo governo; ciascun individuo dello Stato sarà rappresentato dai suoi mandatari; la libertà scriverà il codice delle sue leggi; l’uguaglianza proscriverà le distinzioni indegne dell’uomo; la religione che Voi preferite sarà rispettata; la lealtà francese garantirà le vostre persone e le vostre proprietà. Se resistete ai miei inviti, ai miei paterni consigli, non potrei io stesso contener l’impeto dell’armata (…) Sospendo fino alla vostra risposta la marcia delle mie colonne” (Battaglini, pp. 73-4).

30 gennaio. Mercoledì. Napoli. Il presidente del Comitato Militare, principe di Moliterno, fa un proclama ai militari borbonici e ai patrioti perché accorrano nell’esercito. L’operazione, appena iniziata, fu poi proibita.

Si sta pensando a riorganizzare i Tribunali ma non so ancora quale sia il sistema che sarà per darsi, né dove si reggeranno” (De Nicola, p. 51).

Giuste preoccupazioni dalle province. “Dalle provincie vennero a Napoli deputazioni di patrioti per ricevere istruzioni sulla nuova forma di governo, e molti di essi non mancarono di esporre la necessità di affrettarsi a dare un unico e conveniente indirizzo all’entusiasmo delle popolazioni per il nuovo ordine di governo, allo scopo di evitare che l’entusiasmo stesso si convertisse in un movimento anarchico, dato il gran numero di soldati sbandati, che infestavano le provincie, e per impedire la guerra civile, fomentata dall’oro e dalle mene della corte dalla Sicilia” (Serrao De’ Gregorj, pp. 142-3).

La disfatta rapida dell’esercito afflisse, ma non umiliò, perché fu considerata come il risultato di un tradimento di tutti i capi, dal primo all’ultimo; e questa idea doveva trovar credenza, perché lusingava tutte le popolari passioni e concordava con le idee, che si erano date al popolo, che tutte le altre classi erano infestate dalle massime francesi, e che tutti eran giacobini. Ora, come tutti i posti dell’esercito erano occupati da costoro, e i soldati fuggiti, che rientravano nei comuni, tenevano questo linguaggio; così furono queste classi, più irritate che umiliate dalla triste riuscita della guerra, benché fossero colpite dal valore dei Francesi, descritti con tutti i colori delle immaginazioni meridionali, e particolarmente da quei che non l’avevano nemmeno visti. In questo stato la repubblica fu proclamata in Napoli e nel regno. Ebbene, in questa occasione accadde un fenomeno che meritava d’essere osservato. Il regno accettò il nuov’ordine, e prese i segni della repubblica, procedendo a seguire le disposizioni date dalle autorità regie che regolavano le provincie; e non solo non si fece opposizione in niun luogo, ma vi fu piuttosto gioia. Il Te Deum fu cantato in tutte le comuni, per una disfatta, come si sarebbe fatto per una vittoria. Il nuovo ordine, che assicurava il rispetto della religione e delle proprietà, erasi accettato; e, come gli infelici sperano sempre, si fondarono speranze nei nuovi governanti, perché gli antichi non si stimavano più. Alle classi inferiori l’idea dell’eguaglianza non ripugnava, e l’applicarono subito a qualcosa di positivo, vale a dire a non pagare i diritti feudali, e ad estendere gli usi civici nelle proprietà feudali. La classe media ci vedeva la distruzione della feudalità, e per gli ambiziosi tolte le barriere, che lor rendevano, se non inaccessibili, almeno difficili le pubbliche carriere. Napoli non era stata saccheggiata, benché avesse resistito, il culto era rispettato, i tribunali funzionavano. Sicché si calmò il terrore, che un’invasione francese ispirava; i provinciali ch’erano in Napoli, per lo più i più svelti, e perciò più accessibili alle nuove idee, scrivevano in modo non solo da riassicurare le loro famiglie, ma come di un periodo di benessere, che si apriva avanti a loro” (Blanch, pp. 47-8).

Puglia. “Vengono quasi ovunque effettuati i consueti rituali repubblicani ma spesso (come a Ruvo, Molfetta e Trani) il popolo abbatte gli alberi della libertà e i simboli del nuovo regime. Le masse contadine e urbane riescono in alcuni casi a dare vita a dei governi popolari antirepubblicani presieduti da capipopolo e organizzati in assemblee consiliari che decretano l’occupazione immediata delle terre come a Mola, Trani e Molfetta. Altrove si hanno Municipalità repubblicane nelle quali, vista l’assenza di disparità di interessi, borghesia e ceti popolari operano di comune accordo come a Terlizzi, Altamura e Gravina, o si hanno solidi governi nelle mani dei galantuomini come a Bari e a Barletta. In Terra d’Otranto, Taranto è schierata per la Repubblica” (Sani, p. 37).

31 gennaio. Giovedì. Napoli. Inizia l’attività organizzativa del Governo Provvisorio: escono numerosi decreti su varie materie.

Un confronto tra la rivoluzione francese e quella napoletana. “I maggiori prestigi della Rivoluzione francese, libertà ed uguaglianza, erano per il nostro popolo non pregiati né visti. Queste sole differenze tra le rivoluzioni di Francia e di Napoli bastavano per suggerire differenti regole di governo; ma ve n’erano altre non meno gravi. Aveva la Francia operato il rivolgimento, l’aveva Napoli patito; il passaggio tra gli estremi di monarchia dispotica e repubblica era stato in Francia opera di tre anni, in Napoli di un giorno; i bisogni politici furono in Francia manifesti dai tumulti, in Napoli erano ignoti o mancavano; soddisfare in Francia a quei bisogni era mezzo e riuscita alle imprese, in Napoli occorreva indovinare i desideri, anzi destarli nel popolo, per aver poscia il merito di appagarli. Il re di Francia era spento, erano spenti i sostenitori di monarchia, o fuggitivi; il re di Napoli regnava nella vicina Sicilia, rimanevano tra noi tutti i partigiani del passato. La baronia, contraria; i nobili partigiani di repubblica (figli, non capi delle famiglie), poco validi a muovere gli armigeri dei feudi; i preti, impauriti dagli strazi del clero francese; i frati, temendo lo spoglio dei conventi; i curiali, la rivocazione di quella congerie di codici ch’era per essi talento e fortuna. E infine a noi mancavano (e abbondavano in Francia) le difese della libertà, che sono le virtù guerriere e le cittadine ambizioni; e a noi mancava la legittimità del rivolgimento; perciocché non veniva dai Parlamenti, Stati generali, assemblee, autorità costituite, moto uniforme di popolo; ma da sola conquista e non compiuta: condizione che allontanava dal nuovo governo gli animi paurosi e metodici” (P. Colletta, p. 303). “Championnet, proclamando la Repubblica napoletana, si era messo in contrasto con le istruzioni del Direttorio, il quale aveva nuovamente abbandonato la politica del “rivoluzionamento” e non voleva creare nuove repubbliche. Nei piani del Direttorio, l’occupazione del Regno di Napoli doveva servire in primo luogo a ricavare nuove ingenti ricchezze in denaro, oggetti preziosi e merci, mediante sistematiche contribuzioni, requisizioni e saccheggi; in secondo luogo doveva offrire alla Francia un complesso di basi nel Mediterraneo per ristabilire le difficili comunicazioni con i presidi di Malta e delle Isole Jonie e col bloccato esercito d’Egitto; in terzo luogo doveva servire come merce di scambio in future trattative di pace con la coalizione che allora si era formata. Invece la creazione della Repubblica napoletana rendeva difficile la realizzazione del primo scopo e impediva la realizzazione del terzo. Essa infatti poteva irritare le monarchie europee, in modo particolare l’Austria, molto più di una semplice occupazione militare; infine rappresentava un nuovo campo d’azione per i patrioti italiani, ai quali il Direttorio era profondamente ostile. Inoltre Championnet si era già violentemente urtato a Roma col commissario Faypoult e ancora più gravemente si urtò con lui dopo l’occupazione di Napoli. Egli infatti impose alla nuova Repubblica il pagamento di una contribuzione di 15 milioni di ducati, pari a 60 milioni di franchi, certo difficilmente sostenibile dalle stremate finanze napoletane ed aggravata inoltre dalle solite richieste di viveri e materiali vari e dal saccheggio di oggetti preziosi e di opere d’arte, ma tuttavia inferiore ai desideri del Direttorio, che contava di estrarre dal Regno di Napoli ricchezze per l’importo complessivo di ben 200 milioni di franchi, cioè 50 milioni di ducati” (Candeloro, p. 256).

Messina. Vi arriva il cardinale Ruffo.

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, 1973
  • L. Blanch, “Scritti storici”, Napoli, 1945
  • G. Candeloro, “Le origini del Risorgimento. 1700-1815”, Milano, Feltrinelli, 1978
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, vol. II
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Milano, Principato, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Bari, Laterza, 1976
  • C. De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, v. I
  • G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno. Il pensiero politico di V. Russo”, Einaudi, 1975
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizio del Rosorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze 1926
  • V. Sani, “La Repubblica Napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • F. Serrao De’ Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I
  • E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, 1998
  • Thiébault, “Mémoires du général baron Thiébault”