Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Settima Puntata. 6-9 febbraio 1799. ” In provincia le feste per la Repubblica coincidono con i giorni del Carnevale. Ruffo sbarca in Calabria ma non trova buona accoglienza”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Settima puntata. 6-9  febbraio 1799. “Nell’Armata francese sorgono contrasti gravi tra il generale in capo e il Commissario politico. In provincia le “feste repubblicane” coincidono coi giorni del Carnevale ed assumono anche forme carnevalesche. A Napoli cominciano ad operare le “Sale patriottiche”. Il card. Ruffo sbarca in Calabria ma non trova buona accoglienza.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29).  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

6 febbraio. Mercoledì. Napoli. Contrasti gravi nell’Armata francese tra il generale in capo e il Commissario politico del Direttorio. Championnet ordina l’allontanamento da Napoli del Commissario Civile Faypoult. “Nell’esercito francese per mantenere un certo legame tra l’armata e il potere politico erano stati creati fin dall’epoca della Convenzione dei “commissari presso le armate”, che nel periodo del Direttorio furono istituzionalizzati, fissando con norme precise i loro compiti. La loro funzione più importante era quella di fissare la linea politica delle operazioni. Questa situazione, che poneva a capo dell’esercito due organi diversi come origine e finalità, non poteva non dar luogo ad incidenti e contrasti. La lotta tra i due era iniziata a Roma ma ebbe il suo epilogo a Napoli. Championnet, trovatosi a capo delle armate francesi nell’Italia centro-meridionale, volle imitare Napoleone e credette possibile porre il Direttorio di fronte al fatto compiuto: approfittando dell’insipienza dei borbonici, conquistò l’Italia meridionale e volle creare in quella zona una repubblica che garantisse la continuità con quelle organizzate al nord e al centro d’Italia. Il primo urto con Faypoult avvenne proprio in questo campo: la Francia voleva trarre da Napoli soprattutto denaro; creando una repubblica autonoma Championnet rese, se non impossibile, certo più difficoltosa la confisca. Il Direttorio fu informato dell’iniziativa del generale da Faypoult. Il governo provvisorio napoletano ne chiese l’allontanamento e Championnet emise l’ordine di espulsione dal territorio della Repubblica del Commissario Civile. La conseguenza di questo gesto impulsivo fu gravissima per Napoli perché, alle somme sottratte più o meno legalmente dalla Commissione civile, si aggiunsero i danni enormi che produssero i saccheggi indiscriminati dei soldati” (Battaglini, p. 27). “Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione francese. Si parlava di conquista dopo che si era tante volte promessa la libertà; e, per conciliar la promessa e l’editto, si chiamava frutto della conquista tutto ciò che apparteneva al fuggito re. Ma quali erano i beni del re, che non fossero della nazione? Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò Faipoult. O Championnet, tu ora più non esisti; ma la tua memoria riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed alla giustizia tua. Che importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha però avvilito” (Cuoco, pp. 140-1). “Faypoult aveva chiesto il trasferimento alla Francia di tutti i Beni Nazionali della Repubblica napoletana. Era stato scacciato, anche con l’appoggio del Governo Provvisorio. Tornato a Parigi, riceveva il pieno e aperto sostegno del Direttorio. Pochi giorni dopo partiva dalla Francia l’ordine di arresto per Championnet” (Sani, p. 24).

E’ nominata una Deputazione per andare a Parigi a portare il saluto alla Repubblica francese, ottenere il riconoscimento della piena autonomia e indipendenza del nuovo Stato e l’attenuazione delle contribuzioni di guerra. “Fu primo pensiero del Governo Provvisorio spedire alla Repubblica Francese oratori di gratitudine per gli avuti benefizi ed ambasciatori di amicizia e di alleanza: scegliendo a quegli offici il principe d’Angri, grande di casato e di ricchezza, e il principe Moliterno, anch’egli nobile e fornito di pregi più belli, cioè buona fama ed alcun fatto nelle armi, lontano dai club, capo sincero del popolo nell’ultima guerra contro i Francesi, e, quando la plebe imperversò, fuggitivo, non traditore: ma dava sospetto al giovine Governo, così che, onorandolo del carico di ambasciatore, lo discacciò” (Colletta, p. 304).

Molfetta (Puglia). “Il governo della città viene assunto dal popolo che, convocato in assemblea, elegge i nuovi amministratori: capitano generale viene eletto un popolano, Felice Ragno; ministro della guerra, un marinaio, e trenta popolani, marinai contadini e artigiani, sono eletti a far parte del Consiglio del Popolo. I nuovi amministratori ristabiliscono l’ordine mediante la costituzione di un reparto armato alle dirette dipendenze del Ragno. Vengono riaperte le scuole e viene regolato il lavoro con norme che devono tutti osservare. Imposti nuovi tributi per il regolare funzionamento dell’amministrazione cittadina, si provvede anche a lenire la disoccupazione. Nessun provvedimento viene preso se non discusso ed approvato dal Consiglio del Popolo cui è affidato, tra l’altro, il compito di fare osservare tutte le disposizioni che vengono emanate dal capitano generale della città dopo aver sentito i suoi collaboratori” (Pedio, p. 167).

Avigliano (Basilicata). “Li cittadini Aviglianesi inclinarono immediatamente al Governo Rivoluzionario sulla speranza di potersi dividere le difese del principe Doria come se gli era dato ad intendere. Quando videro che tutt’altro facevasi dalla Municipalità fuorché la ripartizione delle dette difese, diedero segno di controrivoluzione ed alcuni più risentiti minacciarono di non solamente voler tagliare l’albero, ma ben anche bruciare le case di tutti i galantuomini che credevano di opporsi alla spiegata divisione” (Pedio, p. 760).

Puglia. Francesco Pepe, nominato membro del Governo Provvisorio, mentre è diretto a Napoli per prendere possesso della carica, è ucciso dagli insorgenti.

Rossano (Calabria). “La costituzione della municipalità repubblicana ebbe un deciso carattere antinobiliare: presero parte al moto parecchi galantuomini e molti sacerdoti, compreso l’arcivescovo Cardamone. A differenza di altre municipalità, questa ebbe un robusto nucleo dirigente e una larghissima rete di adesioni e di simpatie” (Cingari, pp. 135-6).

Cirò (Calabria). “Il paese era feudo della principessa Spinelli la quale, partecipe del moto repubblicano a Napoli, inviò al suo agente l’ordine di istituire la nuova municipalità. Sebbene nel paese esistevano ragioni di avversione del ceto contadinesco nei riguardi dei membri dell’amministrazione feudale, esse non erano predominanti: fattori, massari, magazzinieri, armigeri erano in maggioranza paesani e, per molteplici vie, legati al basso popolo che talora opprimevano, ma che spesso sostenevano, sfruttando l’avanzata decadenza del regime feudale e la costante assenza del feudatario dai propri possessi. Viceversa, diffuso era l’odio nei confronti dei galantuomini, proprietari di recente formazione e rigorosissimi nella conduzione delle proprie terre; e occorre aggiungere che spesso i contadini, possessori di minuscoli fondi, erano costretti ad alienarli in favore di borghesi usurai. In tali condizioni, pervenuta la lettera della feudataria, non fu difficile ai suoi agenti creare il nuovo governo anche se, all’inizio, essi dovettero contenere la spinta diretta all’eliminazione di taluni diritti feudali particolarmente odiosi. Così, dopo aver piantato l’albero e cantato e ballato, un immenso stuolo a suono di tamburo ed al grido “viva la repubblica” eseguì col fatto lo sbarro delle cacce, ed i cinghiali e capri, che finora placidamente vivevano, si videro aggrediti da’ cani, atterriti, spaventati da’ schiamazzi, molti ne morirono e trionfalmente furono recati il giorno appresso nel paese” (Cingari, 136-7).

“Lo stato d’animo del popolo delle province nei primi giorni della Repubblica fu di stupore e di sbigottimento. Le notizie delle sconfitte patite dal popolo negli Abruzzi, in Terra di Lavoro e sotto le mura e nelle vie di Napoli, la fuga dei Sovrani, di generali e di ministri, il disfacimento dell’armata, tutto concorreva a far sì che la fantasia ingigantisse la forza numerica dell’esercito francese e desse credito alla voce dell’invincibilità dei francesi. Il popolo era dunque stordito e disorientato, allorché nelle città di provincia, ai primi di febbraio, i patriotti alzavano alberi di libertà, e celebravano feste repubblicane. Queste feste coincidevano coi giorni del Carnevale, ed ebbero anche forme carnevalesche: fantocci, rappresentanti il Re e Maria Carolina, erano portati in giro tra i lazzi e gli insulti. E al profano era unito il sacro: l’albero della libertà era benedetto dal parroco o dal vescovo, e l’allocuzione evangelico-democratica era quasi sempre recitata da sacerdoti. Il vedere trascinato nel fango delle ingiurie istituzioni e persone che gli ingiuriatori stessi avevano fino a poco tempo prima proclamate sacre e inviolabili, il vedere mischiato a tale profanazione la religione con il concorso di sacerdoti: tutto questo doveva stupire e indignare il popolo” (Rodolico, p. 191).

Bagnoli Irpino (Principato Ultra). “La nuova forma di governo fu imposta in paese per opera specialmente di due preti bagnolesi ascritti alla Lega dei Patriotti, a nome Tommaso Trillo e Domenico Cella, i quali da Napoli, dove dimoravano, vennero a questo scopo espressamente qui, ed unitisi ai pochi adepti concittadini fecero innalzare nella Piazza Maggiore l’Albero della Libertà, che era il simbolo della Repubblica. La maggioranza del paese, convinta che questa forma di governo era contraria ai principi allora professati dalla religione di Cristo, l’accolse con malcontento e riluttanza, e se la subì, fu per timore dell’armi Francesi, ma vide con amarezza ed avversione l’intervento dei due sacerdoti” (Sanduzzi, pp. 534-5).

7 febbraio. Giovedì. Napoli. Inizia la sua attività la Sala di Istruzioni: vigilatore è Vincenzo Russo. “Oltre al popolo, anche la borghesia e l’ex nobiltà del Regno sono destinatarie del messaggio educativo e propagandistico della repubblica. Questo si attua nei 13 club cittadini e nelle 5 cosiddette Sale Patriottiche, istituite e organizzate dal Governo provvisorio con questo decreto del 7 febbraio. Loro compito è quello “di divenire il mezzo con cui si formava lo spirito pubblico accendendo nel petto di tutti i cittadini il sagro fuoco della libertà”. Nel primo periodo le due Sale più importanti di Napoli sono la Sala di Istruzione, che si riunisce nei locali dell’Università e presso la cui tribuna si alternano tutti i più importanti personaggi della Repubblica (84 iscritti) e la Sala Patriottica con sede nel Monastero di Monte Calvario (67 iscritti). L’importanza di questi circoli democratici –paragonati dal Colletta a vuote accademie di parole ispirate al modello francese- consisteva nel fatto nuovo di costituire per la prima volta un luogo pubblico di incontro, di confronto e di dibattito sugli aspetti politici e sociali dell’esperienza repubblicana. Criticabile era semmai l’uso di un linguaggio altisonante e il più delle volte artificioso, frutto del retaggio culturale neoclassico comune a tutta la borghesia rivoluzionaria dell’epoca” (Sani, p. 30). Anche il ministro dell’Interno della Repubblica, Francesco Conforti, in una sua circolare puntualizza il ruolo delle Sale d’istruzione, cioè dei locali dove tutto il popolo poteva discutere di qualunque questione attinente al governo della Repubblica o, in genere, dei problemi di attualità e di cultura: “Le sale d’istruzione autorizzate debbon formare un altro efficace strumento dello spirito patriottico, e dissipare ad un tempo le tenebre dell’ignoranza, onde troppo lungo tempo sono rimase ingombrate queste felici contrade, ma le gare, e le inimicizie personali, tiranne e distruttrici di ogni società, non debbono penetrare in queste unioni consacrate alla fratellanza, alla concordia ed all’amore del pubblico bene. Lungi ancora da queste unioni lo spirito d’intolleranza, la quale urtando i pregiudizi già stabiliti, attaccando quanto v’à di più sacro, imprudente combatte fino le opinioni religiose con la filosofia e la ragione. Non conviene allo stato di libertà che l’uomo venga disturbato sino ne’ più segreti pensieri, ma deve piuttosto una savia amministrazione dirigerli in modo che si rendano utili. Insomma le sale d’istruzione debbono veramente corrispondere all’oggetto che indica il loro nome, diffondere intorno di loro lo spirito Repubblicano, e raccogliere tutte le scoverte, che possono estendere l’impero delle cognizioni umane, ed il potere e la gloria della Repubblica” (Battaglini, p. 94). “Taluni credevano che col mezzo delle sale patriottiche si potesse attivare la rivoluzione; e furono perciò stabilite. Ma come mai ciò si potea sperare? Io non veggo altro modo di attivare una rivoluzione che quello d’indurci il popolo: se la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai rivoluzionari; se è passiva, convien che i rivoluzionari si uniscano al popolo e, per unirvisi, convien che si distinguano il meno che sia possibile. Le sale patriottiche, e nell’uno e nell’altro caso, debbono essere le piazze (…) Si condussero taluni lazzaroni del Mercato nelle sale; ma questi erano per lo più comperati e, come è facile ad intendersi, non servivano che a discreditare maggiormente la rivoluzione. Non sempre, anzi quasi mai, l’uomo del popolo è l’uomo popolare. Le sale patriottiche attivavano la rivoluzione attirando una folla di oziosi, che vi correva a consumar così quella vita di cui non sapeva far uso. I giovani sopra tutti corrono sempre ove è moto, e ripetono semplici tutto ciò che loro si fa dire. Intanto pochi abili ambiziosi si prevalgono del nome di conduttori e di moderatori di sale per acquistarsi un merito” (Cuoco, pp. 163-5).

“Le prediche quaresimali vi sono secondo il solito; ma ieri d’ordine di Championnet furono aperti i Teatri tutti che in Napoli sono sempre stati chiusi di Quaresima, specialmente nei primi quattro giorni, essendosi solo da qualche anno in qua permesso degli oratorii sacri in musica e delle prose” (De Nicola, p. 66).

Il generale Championnet si preoccupava ancora del disarmo dei lazzari. “Dopo avere circondato di milizie e di artiglieria i quartieri popolari, parlamentò coi capi dei Lazzari e venne a patti con loro: sarebbe stata fatta la consegna delle armi, ma non sarebbe stato permesso la perquisizione delle case, se non da ufficiali francesi e col più scrupoloso rispetto alle persone” (Rodolico, p. 168).

Bagnara (Calabria). Ruffo sbarca con soli 7 uomini al seguito (Sani, p. 38).  “Giunto al lido di Calabria, essendosi prima inteso coi servi e gli armigeri della sua casa, decorato della Croce e dei segni delle sue degnità, il cardinale Ruffo sbarcò in Bagnara, dove fu accolto riverentemente dal clero e dai notabili, e con pazza gioia dalla plebe. Divolgato l’arrivo e il disegno, accorsero dai vicini paesi torme numerose di popolani, guidate da gentiluomini e da preti o frati, che, quando viddero andar capo un porporato, non isdegnarono quella guerra disordinata e tumultuosa” (Colletta, p. 324). “E vi si aggiunsero in gran numero soldati fuggitivi o congedati, malfattori, e molti individui fuggiti dalle carceri e dalle galere” (Serrao De Gregorj, p. 181).

Noci (Puglia). “I contadini assistono ad una manifestazione repubblicana. Sentono parlare di libertà e di eguaglianza ed apprendono che un loro concittadino, Giuseppe Albanese, fa parte, a Napoli, del Governo Provvisorio. Guardano con curiosità l’albero innalzato in piazza ma non partecipano a quella manifestazione perché si accorgono che ancora una volta si agisce contro di loro. Il presidente della nuova Municipalità è un fratello di Albanese, Giambattista. Sanno i contadini che i municipalisti repubblicani approfitteranno della carica per mantenere, e magari accrescere, le terre demaniali che da tempo hanno usurpato. Insorgono. Abbattuto l’albero e affidato il nuovo governo a Michele Palazzi, i contadini invadono le terre in contestazione ed impongono nuovi tributi cui sono tenuti soltanto i ricchi galantuomini” (Pedio, pp. 161-2).

Castellana (Puglia). “Contro la borghesia repubblicana che ha innalzato l’albero della libertà, un tessitore un sarto e un bottegaio si pongono alla testa dei contadini e, sorretti ed incoraggiati da un gentiluomo, Giovanni Palmisani, assumono la direzione della vita cittadina e promuovono, successivamente, l’occupazione delle terre” (Pedio, p. 162).

8 febbraio. Venerdì. Napoli. Rapporti tra lazzari e patrioti. Questa parte del popolo, la quale per fintanto che una migliore istruzione non l’innalzi alla vera dignità di popolo, bisognerà continuar a chiamare plebe, comprende non solo la numerosa minuta popolazione della città, ma benanche la più rispettabile delle campagne; e se sopra di questa parte poggia pur nelle monarchie la forza dello Stato, vi poggia nella democrazia la forza non solo, ma la sua dignità. Una gran linea di separazione disgiunge fra noi questa parte dal rimanente del popolo, appunto perché non si ha con essa un linguaggio comune. Se ben si rimonti alla cagione de’ nostri ultimi mali, si vedranno derivati particolarmente da questa separazione; e tuttavia la plebe diffida dei patrioti, perché non gl’intende. In una parola, per fin che lo stabilimento di un’educazione nazionale non riduca la plebe ad esser popolo, conviene che il popolo si pieghi ad apparir plebe. Ogni buon cittadino dunque, cui per la comunione del patrio linguaggio si rende facile il parlarle e il commischiarsi fra lei, compie con ciò opera non solo utile ma doverosa” (Monitore Napoletano, 28 Piovoso VII, p. 455).

Palermo. La regina Carolina scrive al card. Ruffo: “Cercherò mandarvi il danaro necessario. Andate dunque avanti con coraggio e risoluzione. Un indulto per disertori o soldati sbandati che unisca lusinga, promesse, e li animi a servire al loro legittimo Sovrano. Esenzione di dazi e pesi, e se potete introdurre a Napoli gente che animano, parlino al popolo, appurino dove si ritrovi il deposito di armi, che vi dicano chi sono i capi che si sono distinti, che coltivino i medesimi. Io sono di ferma opinione che bisogna annichilire la Repubblica Vesuviana, o quella con l’esempio farà nascere ben presto la Repubblica Mongibelliana: ne vedo tutti i semi ed ho l’animo trafitto” (Croce, p. 14).

Andria (Puglia). “E’ proprio la particolare situazione locale a spingere la popolazione contro il nuovo regime. Per anni questa cittadina ha sostenuto una lite giudiziaria contro il feudatario. Il duca Carafa nega ai suoi vassalli il diritto di eleggere i propri amministratori e non riconosce a quella Università prerogative che spettano alle città feudali. Andria, che soltanto nel 1797 ha ottenuto ragione in giudizio ed ha finalmente potuto eleggere in pubblico parlamento il proprio sindaco, non può naturalmente aderire alla corrente in cui milita il fratello del duca Carafa e diviene di conseguenza antirepubblicana e sanfedista” (Pedio, 165).

Lecce (Puglia). Monaci e preti portano nei cappelli la coccarda della libertà.

Laurino (Basilicata). “L’albero della libertà fu piantato dai galantuomini del paese con la partecipazione del clero. La reazione popolare scoppiò ben presto. Il barone De Bellis per liberarsi dalla furia del popolo si mascherò da realista, e per tale facendosi credere dalla gente bassa premeditò di sollevarla contro i galantuomini, e farsi con la mano del popolaccio la privata vendetta. Senonché i contadini, aizzati dal barone, agiscono con un proprio programma, invadono terre possedute da galantuomini, abbattono siepi, tagliano alberi fruttiferi e viti per restituire a demanio universale con diritti pubblici quelle terre usurpate trasformate in proprietà private. Il barone erasi presa la porzione di molti animali porcini appartenenti a galantuomini; ora doveva, secondo la promessa, dividere tra i popolani le cose tolte ai galantuomini, ma alle richieste del popolo si oppose adducendo che quelle cose appartenevano al Fisco. E perché il popolo non insistesse, additò altri beni di galantuomini e preti del paese. Il barone credeva di poter continuare a trastullarsi del popolo, ma esso insorse contro il barone” (Rodolico, pp. 206-7).

“Nel gennaio del 1799, portata da soldati fuggiaschi la notizia della rotta dell’esercito borbonico, nei maggiori centri lucani elementi della borghesia escono in piazza con la coccarda tricolore. I contadini si soffermano incuriositi e, poiché vedono tra i dimostranti coloro che li hanno sempre difesi contro gli arbitri del barone, non esitano ad accodarsi ad essi. Uno spirito nuovo si diffonde rapidamente in tutta la regione. La prospettiva di una trasformazione economica e sociale viene accettata con sincero entusiasmo dai giovani intellettuali, che risentono ancora dello spirito della Napoli universitaria, e della borghesia radicale costituita da professionisti e da sacerdoti che traggono la loro origine da famiglie non ancora saldamente legate alla terra. Questo entusiasmo si ripercuote nelle masse contadine che si illudono di poter finalmente realizzare le loro antiche aspirazioni. Allarma, però, coloro che sono restii ad ogni innovazione, infonde il panico tra le autorità costituite e consiglia alle gerarchie ecclesiastiche di agire con molta prudenza. Ad eccezione di pochi che, sin dal primo momento, si pongono manifestamente contro i principi cui si ispira e si uniforma la Repubblica Napoletana, i più si schierano in favore del nuovo ordine di cose. Alcuni per realizzarne i principi, altri per impedire che quell’entusiasmo, che ha travolto un po’ tutti, si concreti in una radicale trasformazione economica e sociale. Altri ancora aderiscono al nuovo regime col proposito di assumerne la direzione e di servirsene per far proprie le prerogative, i privilegi e la funzione sino ad allora esercitata dal barone e dai suoi agenti. In ogni centro abitato i giovani si limitano, generalmente, ad organizzare entusiastiche manifestazioni per la piantagione dell’albero della libertà. I grossi possidenti e le autorità ecclesiastiche, invece, in nome dei principi repubblicani, prendono l’iniziativa di costituire le nuove Municipalità con uomini di loro fiducia, allo scopo di controllare gli avvenimenti e di impedire l’attuazione pratica di quei principi onde poter assumere un’incontrastata posizione di privilegio in una società sostanzialmente immutata” (Pedio, pp. 711-3).

9 febbraio. Sabato. Napoli. “Quest’oggi si è innalzato un altro arbore di libertà al largo dello Spirito Santo e si è dal popolo fatta in pezzi la statua equestre di Carlo Borbone con mille obbrobrii e villanie, e si è gittata per terra gridandosi “viva la libertà” da quel popolo stesso che venti giorni sono gridava per le stesse strade “viva il re”. Altri arbori si sono nei giorni passati innalzati in altri luoghi della città, e continuano ad alzarsene. Lo stesso si fa nel Regno, e già si è avuto notizia che Calabria Citra è democratizzata. Non mancano bensì in varii luoghi del Regno dei rumori, e ieri venne corriere da Montella, terra in provincia di Montefusco, che appartiene alla casa d’Angri, che portò la notizia di essersi là abbattuto l’arbore di libertà, dopo essersi innalzato, e che alcuni tumultuanti minacciavano i galantuomini del luogo. Lo stesso è accaduto altrove” (De Nicola, p. 67).

“Al Largo un gran palco coperto da bandiere tricolori napoletane e francesi. Vi sorgeva un enorme albero della libertà, pavesato di stendardi, tutt’intorno plotoni di granatieri rossi e blu, baionette innestate. Eleonora venne colpita da un gruppetto di persone in nero, con bandiere nere recanti la scritta “Vendicarsi o morire”. “Chi sono?”. “Non lo so” rispose Gennaro Serra. “Qui, in un giorno e una notte, sono nati come funghi i gruppi più stravaganti. Bisogna creare presto la Guardia nazionale: così si levano di mezzo gli esaltati” (Striano, p. 305).

Matera. E’ piantato l’albero della libertà. Un canonico commenta nel suo Diario: “Fa d’uopo qui notare che fin da quel tempo cominciò a metter piede tra noi l’anarchia, dacché parecchi del popolo basso, dando alle dette voci di libertà e di uguaglianza un senso di interesse mossero a praticar violenze contro i possidenti e contro coloro che con giusti e solenni titoli tenevano beni da tempo comprati e posseduti”. Si bruciavano fabbricati rurali, perché il fabbricato, come la coltura a vigneti e frutteti, trasformava la natura del terreno di demanio universale, in cui gli abitanti dell’Università avevano diritti di pascolo o di semina: l’incendio cancellava, a giudizio del popolo, le usurpazioni fatte, e restituiva quei beni demaniali alla loro primitiva natura” (Rodolico, p. 203).

Lecce. “Dopo piantato l’albero si andò nel vescovado e un monaco benedettino fece un sermone sulla libertà”.

Pizzo Calabro. La Calabria è tutta repubblicana. Il card. Ruffo scrive al ministro Acton: “Molte città e luoghi della Calabria hanno innalzato l’albero della libertà, e temo che in breve possa accadere altrettanto vicino a me, poiché i ribelli di Catanzaro, dove si dice esservi già cavalleria francese, si sono posti d’intelligenza coi mali intenzionati di Reggio, i quali non sono pochi, né mi recherebbe meraviglia se da un momento all’altro mi giungesse la trista notizia che anche questa si fosse democratizzata. Io non ho forze per resistere al torrente che inonda queste provincie. Per quanto abbia fatto in voce e per iscritto, non ho potuto finora radunare che circa ottanta uomini, tutti o armigeri o fuorusciti, vale a dire persone di niuna buona intenzione e stabilità. Proseguirò ad adoperarmi colla maggiore efficacia, ma preveggo che al più potrà riuscirmi di accozzare 300 uomini. Tanta è la freddezza e la malavoglia che trovo in tutti. Oltre ciò mi mancano i fucili che mi occorrerebbero, e quel che è peggio mi manca anche il danaro, né so come procurarmelo, perché le casse o non sono ora fedeli, o non hanno altro che polizze dei banchi. Il giacobinismo è molto esteso in Messina, e coloro che ne sono infetti spacciano francamente le loro massime, ed anche in mezzo alla truppa” (Croce, pp. 14-5).

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • G. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • B. Croce, “La riconquista del Regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • R. De Felice, Opinione pubblica, propaganda e giornalismo politico nel triennio 1796-99”
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
  • A. Sanduzzi, “Memorie storiche di Bagnoli Irpino”, Montella 1975
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997
  • F. Serrao De Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, v. I
  • E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, 1998