Dante. Divina Commedia. Similitudini. “Turbine, Uccelli, Uomo assonnato, Uomo che si sveglia, Uomo imbarazzato, Uomo pigro, Uomo previdente, Uomo stanco, Uomo stimolato dalla necessità, Uomo turbato e addolorato.

Dante. “Divina Commedia”. Similitudini.

Turbine, Uccellini, Uccelli, Uomo assonnato, Uomo che si sveglia, Uomo imbarazzato, Uomo pigro, Uomo previdente, Uomo stanco, Uomo stimolato dalla necessità, Uomo turbato e addolorato.

 

Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Perciò ripercorrere  le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.

Ricorro alle riflessioni della teologa Teresa Bartolomei: “Il viaggio ultraterreno di Dante è una grande avventura meteorologica e sensoriale, popolata di tutti i fenomeni atmosferici e climatici che scandiscono il ritmo annuale delle stagioni, intessuta di tutte le vertigini percettive che segnalano la stanchezza, il dolore, la gioia, la paura, il piacere, la contemplazione (…) Ravenna, con il complesso celestiale dei suoi mosaici, è il motore primo della geografia mistica del Paradiso; e il doloroso pellegrinaggio dei 20 anni di esilio, un andirivieni estenuante tra l’Italia del centro e del nord, attraversamento di campagne invernali e di paludi malariche, ripidi versanti appenninici e foreste casentinesi, paesini sperduti e chiese solitarie, sono l’orizzonte topologico in cui si tessono i paesaggi della “Commedia”.

Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza,  dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.

Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.

 

 

 

Un turbine. Inferno, canto III, vv. 25-30.

 “Diverse lingue, orribili favelle,/ parole di dolore, accenti d’ira,/ voci alte e fioche, e suon di man con elle // facevano un tumulto, il qual s’aggira / sempre in quell’aura sanza tempo tinta,/ come la rena quando turbo spira”. Si mescolavano lingue sconosciute, intonazioni spaventose, parole che esprimevano dolore, esclamazioni di furore, alte grida e flebili gemiti, insieme con battiti di mani, in un solo clamore che in perpetuo si avvolge su se stesso in quell’aria nera in qualsiasi stagione e tempo, come la sabbia quando spira un turbine di vento.

Nota: Dante e Virgilio giungono alla porta d’ingresso dell’Inferno, sulla quale è impressa una spaventosa iscrizione d’avvertimento. Oltrepassata la soglia, incontrano la prima schiera di dannati, formata dagli ignavi. Velocemente, senza passaggi intermedi, l’arte di Dante ci introduce nel paesaggio tragico dell’Inferno, rivelandone subito alcune costanti: il buio quasi totale, dovuto alla chiusura della volta, non esposta al cielo, le tinte scure, i suoni provocati dalla sofferenza dei dannati. I peccatori sono ancora bestialmente passionali, come furono in vita. Essi hanno infatti accentuato le qualità negative umane che li portarono a peccare. Alle voci indistinte ora si sono aggiunte frasi articolate, e suoni prodotti da mani battute le une contro le altre. Il ritmo è inverso (rispetto alla terzina precedente), discendente, indicando prima le lingue disumane, strane, e nelle lingue le pronunzie e poi le parole, fino a far spegnere il suono in accenti d’ira e voci alte e fioche. Così è facile mutare l’impressione uditiva in quella visiva, fino al turbine.

Gli uccellini. Purgatorio, canto XXXI, vv.  58-63.

“Non ti dovea gravar le penne in giuso,/ ad aspettar più colpo, o pargoletta / o altra novità con sì breve uso.// Novo augelletto due o tre aspetta;/ ma dinanzi da li occhi d’i pennuti / rete si spiega indarno o si saetta”. Non avresti dovuto appesantire le tue ali e farle scendere in basso, ad aspettare una delusione più grave, come una giovane donna o altra cosa priva di valore il cui godimento è di breve durata. Un uccellino implume sta ad aspettare di ricevere due o tre colpi; ma è inutile tendere reti o tirare frecce contro un uccello adulto.

Nota: nell’Eden Dante ha perso Virgilio e ha incontrato Beatrice. La sua donna gli parla rimproverandolo duramente: è colpevole di non aver elevato il suo spirito, dopo la morte di lei, ma di essersi lasciato affascinare dalle false promesse di una perfetta felicità terrena. L’unica attenuante che gli concede è quella di aver agito con la leggerezza e la superficialità di un giovane. Ha creduto che una filosofia tutta laica, che disprezzava le leggi teologiche, potesse indirizzarlo verso la verità, invece di cercarla in Dio. Dante vuole alludere ancora una volta al folle volo, gravissimo peccato di superbia intellettuale, che ha portato al naufragio, cioè alla condanna da parte della Chiesa e alla dannazione proprio gli aristotelici radicali, simboleggiati dalla tragica figura di Ulisse. La conclusione di Beatrice è tagliente: Dante non è più un novellino, e come gli adulti dovrebbe avere esperienza delle trappole ingannevoli.

Gli uccelli. Paradiso, canto XVIII, vv. 73-81.

“E come augelli surti di rivera,/ quasi congratulando a lor pasture,/ fanno di sé or tonda or altra schiera,// sì dentro ai lumi sante creature / volitando cantavano, e faciensi / or D, or I, or L in sue figure.// Prima, cantando, a sua nota moviensi;/ poi, diventando l’un di questi segni,/ un poco s’arrestavano e taciensi”. E come uccelli che si alzano in volo da un corso d’acqua, quasi per la contentezza di essersi nutriti, si dispongono in stormi ora circolari ora di altra forma, così dentro alla loro luce i Beati volando qua e là cantavano, e si mettevano in modo da formare insieme ora una D, ora una I, ora una L. Dapprima, cantando, si muovevano al ritmo del loro canto; poi, avendo formato uno di questi segni grafici, si fermavano per breve tempo e restavano in silenzio.

Nota: Cacciaguida si è congedato. Dante fissa il suo sguardo in quello di Beatrice e si accorge, dal colore del suo viso, non più rosseggiante per il riflesso di Marte ma bianco argenteo, di essere salito al cielo di Giove. Nel nuovo cielo gli spiriti giusti compiono per Dante una serie di grandiose evoluzioni, in primo luogo disponendosi in forma di una scritta. Con il loro movimento i Beati sembrano rappresentare confusamente dei segni grafici, senza un progetto preciso, poi chiarendo il loro intento fino a formare un’epigrafe celeste che occuperà l’intero spazio del cielo. In realtà in questi versi c’è una chiarezza quasi matematica di organizzazione, razionalmente evidenziata: si noti l’esattezza delle indicazioni temporali e spaziali (dentro, prima, un poco, poi, or, or), i parallelismi di costruzione sintattica coi gerundi (congratulando, volitando, diventando), la rispondenza accuratissima della similitudine degli uccelli con le anime beate.

Paradiso, canto XXIII, vv. 1-15.

“Come l’augello, intra l’amate fronde,/ posato al nido de’ suoi dolci nati / la notte che le cose ci nasconde,// che, per veder li aspetti disiati / e per trovar lo cibo onde li pasca,/ in che gravi labor li sono aggrati,// previene il tempo in su aperta frasca,/ e con ardente affetto il sole aspetta,/ fiso guardando pur che l’alba nasca;// così la donna mia stava eretta / e attenta, rivolta inver’ la plaga / sotto la quale il sol mostra men fretta:// sì che, veggendola io sospesa e vaga,/ fecimi qual è quei che disiando / altro vorria, e sperando s’appaga”. Come l’uccello, che tra le fronde familiari del suo albero, dopo aver riposato presso il nido in cui si trovano i suoi amati piccoli nella notte che nasconde alla vista ogni cosa, per poter vedere le loro sagome che ama e per poter procurare il cibo con cui nutrirli, compito per cui qualsiasi fatica gli è gradita, stando su di un ramo sporgente anticipa l’alba e aspetta con ansioso desiderio il sole, guardando continuamente il cielo fino a che non spunta l’alba; nello stesso modo la mia donna stava eretta e piena d’attenzione, tutta intenta verso quella parte del cielo dove il movimento del sole appare più lento: tanto che io, vedendola così assorta e ansiosa, diventai come colui che desiderando qualcosa è appagato almeno in parte dalla speranza.

Nota: nel cielo di Saturno, dove sono gli spiriti contemplanti, Benedetto da Norcia ha parlato con Dante. Poi è risalito all’Empireo. Dante e Beatrice lo seguono, passando al cielo ottavo, delle Stelle fisse. Qui il pellegrino rivede i sette cieli che ha visitato, e in fondo a tutti vede la nostra Terra, piccolo e insignificante pianeta, indegno della violenza con cui gli uomini se lo contendono. Ora Beatrice è immobile in attesa. L’ampia similitudine, poeticamente raffinatissima, permette a Dante di ricreare le atmosfere familiari della natura, l’immagine gentile dell’uccello che maternamente aspetta l’alba per poter nutrire i suoi piccoli, con un campo semantico amoroso (amate fronde, dolci nati, aspetti disiati, ardente affetto).

Paradiso, canto XXVII, vv. 10-15.

“Dinanzi a li occhi miei le quattro face / stavano accese, e quella che pria venne / incominciò a farsi più vivace,// e tal ne la sembianza sua divenne,/ qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte / fossero augelli e cambiassersi penne”. Davanti ai miei occhi le quattro anime luminose (dei tre apostoli e di Adamo) splendevano intensamente, e quella che mi era venuta incontro per prima, San Pietro, cominciò a ravvivare il suo fulgore, a diventare più rossa e fulgida, assumendo l’aspetto che avrebbe il pianeta di Giove (che è bianco)  se esso e il pianeta infuocato di Marte fossero uccelli e si scambiassero i colori delle penne.

Nota: siamo nel cielo delle Stelle Fisse. Durante la cecità temporanea di Dante San Giovanni lo esamina sulla carità. Il pellegrino supera bene anche questo terzo e ultimo esame. Appena il poeta ha terminato di parlare, i Beati insieme intonano il “Sanctus”, mentre Dante riacquista la vista. Accanto a loro c’è un quarto Beato luminoso: è Adamo, il primo uomo, non nato ma creato. La similitudine dei vv. 14-15 è basata su di un’ipotesi del tutto impossibile a verificarsi: Giove e Marte non sono uccelli, e gli uccelli non si scambiano le penne. Tale è l’astrattezza del “Paradiso” che il poeta, raccontando l’inverosimile, rappresenta il non rappresentabile attraverso un fatto irreale. La sua stessa poesia partecipa dell’assoluta assenza di limiti propria del regno eterno di Dio. Una simile perifrasi, non certo rigorosa e razionale nel rispetto di verosimiglianza e corrispondenze di parti, è un esempio interessante della poesia ermetica e sublime della terza cantica, dove il linguaggio verbale ha sempre meno importanza e il procedimento stilistico, fondato sull’analogia immediata di sensazioni, si avvicina sempre più al silenzio mistico. Rispieghiamo: dalla luce bianca di Giove, simbolo di suprema equità e di regale placidità, l’anima di San Pietro passa a quella rossa di Marte, simbolo di forza combattiva e, nei casi estremi, di violenza: è il segno che anticipa la prossima invettiva dell’apostolo, che esprime lo sdegno del poeta contro i papi simoniaci, nepotisti e avidi di ricchezza e di potere, che infestavano il suo tempo.

L’uomo assonnato. Purgatorio, canto XV, vv. 118-123.

“Lo duca mio, che mi potea vedere / far sì com’om che dal sonno si slega,/ disse: “Che hai che non ti puoi tenere,// ma se’ venuto più che mezza lega / velando li occhi e con le gambe avvolte,/ a guisa di cui vino o sonno piega?”. La mia guida, che mi vedeva comportarmi come chi si sveglia faticosamente dal sonno, disse: “Che ti succede, visto che non riesci a reggerti bene in piedi, ma hai camminato per più di mezzo miglio con gli occhi semichiusi e le gambe malferme, come se fossi ubriaco o assonnato?”.  

Nota: ai due viandanti l’Angelo della misericordia ha concesso di salire alla terza cornice, quella degli iracondi. Ora Dante è rapito da alcune visioni estatiche che gli mostrano esempi celebri di mansuetudine: la Madonna, Pisistrato, Santo Stefano. Ora Virgilio lo rimprovera per aver impiegato troppo tempo a svegliarsi dallo stato d’estasi, ricordandogli le gravi conseguenze di un comportamento pigro.

Purgatorio, canto XVIII, vv. 85-87.

“per ch’io, che la ragione aperta e piana / sovra le mie quistioni avea ricolta,/ stava com’om che sonnolento vana”. Per cui io, che ormai avevo assimilato il ragionamento limpido e chiaro che Virgilio aveva esposto in risposta alle mie domande, ero in uno stato di torpore mentale simile alla sonnolenza, vagavo con la mente senza fermarmi su alcun pensiero.

Nota: nella cornice degli accidiosi Virgilio ha spiegato a Dante la dottrina dell’amore con una complessa terminologia ripresa dalla filosofia scolastica. Dante si è concentrato moltissimo nell’ascoltare la spiegazione del maestro, ma ora, dopo lo sforzo di attenzione, l’allievo cede. E questo ci fa ricordare che Dante sta viaggiando col suo corpo fisico, che non mangia da molto tempo, che insomma ha umanamente bisogno di riposo.

Paradiso, canto VII, vv. 13-15.

“Ma quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per “be” e per “ice”,/ mi richinava come l’uom ch’assonna”. Ma quel sentimento mistico di devozione che s’impadronisce di me, solo a udire la prima e le ultime sillabe del suo nome, mi costringeva a chinare la testa, come quando si è assonnati.

Nota: cantando un inno di lode a Dio, Giustiniano e gli altri spiriti del cielo di Mercurio spariscono veloci come scintille nell’aria. Dante ha un dubbio e vorrebbe chiedere a Beatrice. E’ spinto dalla sua curiosità intellettuale ma non può instaurare con lei il rapporto quasi confidenziale che aveva raggiunto con Virgilio. Il suo dubbio, la sua esitazione estatica rimangono in questo tono di incanto paradisiaco. La similitudine con l’assonnato richiama esplicitamente l’estasi.

Uomo che si sveglia. Paradiso, canto XXVI, vv. 70-81.

“E come a lume acuto si disonna / per lo spirto visivo che ricorre / a lo splendor che va di gonna in gonna,// e lo svegliato ciò che vede aborre,/ sì nescia è la sùbita vigilia / fin che la stimativa non soccorre;// così de li occhi miei ogne quisquilia / fugò Beatrice col raggio d’i suoi,/ che rifulgea da più di mille milia:// onde mei che dinanzi vidi poi;/ e quasi stupefatto domandai / d’un quarto lume ch’io vidi tra noi”. E come ci si risveglia colpiti da una luce improvvisa, perché la facoltà visiva si rivolge allo splendore, al raggio luminoso, che dall’esterno trapassa da una membrana all’altra dell’occhio, e l’uomo così svegliato distoglie lo sguardo da ciò che vede, tanto inconsapevole è il suo improvviso risveglio, fino a che la facoltà percettiva (che chiarisce le sensazioni alla luce della ragione) non lo aiuta a vedere con consapevolezza; allo stesso modo Beatrice cancellò dai miei occhi ogni impurità con la luce dei suoi, che risplendeva tanto da potersi vedere a più di mille miglia di distanza: per cui io vidi meglio di prima, e con grande stupore chiesi notizie di una quarta anima luminosa che era apparsa tra noi.

Nota: siamo nel cielo delle Stelle Fisse. Durante la cecità temporanea di Dante San Giovanni lo esamina sulla carità. Il pellegrino supera bene anche questo terzo e ultimo esame. Appena il poeta ha terminato di parlare, i Beati insieme intonano il “Sanctus”, mentre Dante riacquista la vista. Accanto a loro c’è un quarto Beato luminoso: è Adamo, il primo uomo, non nato ma creato. Nella similitudine la descrizione del risveglio improvviso provocato da una luce inaspettata è quanto più scientifica possibile.

L’uomo imbarazzato. Purgatorio, canto XII, vv. 127-136.

“Allor fec’ io come color che vanno / con cosa in capo non da lor saputa,/ se non che’ cenni altrui sospecciar fanno;// per che la mano ad accertar s’aiuta,/ e cerca e truova e quello officio adempie / che non si può fornir per la veduta;// e con le dita de la destra scempie / trovai pur sei le lettere che ‘ncise / quel da le chiavi a me sovra le tempie:// a che guardando, il mio duca sorrise”. Allora feci come quelli che vanno in giro con qualcosa sulla testa, che però non sanno di avere, finché i cenni di chi incontrano per la strada glielo fanno sospettare; sicché con la mano tentano di accertarsene, la cercano e la trovano, pur non potendo vederla. Così, con le dita della mano destra allargate, trovai soltanto sei delle lettere incise sulla mia fronte dall’Angelo portiere: vedendo il mio gesto, Virgilio sorrise.

Nota: i due viandanti lasciano la cornice dei superbi e raggiungono il passaggio alla seconda cornice. Prima di salire, l’Angelo dell’umiltà cancella con le ali la prima P dalla fronte di Dante, il quale se ne accorge quando, salendo verso l’alto, si sente molto più leggero di prima. E allora ne chiede a Virgilio la ragione: il maestro gli risponde in modo lapidario ma esauriente. Ecco allora questa similitudine realistica e popolaresca che bene descrive il gesto di curiosità di Dante personaggio che vuole capire il significato delle parole che ha ascoltato. Il verso finale è un piccolo capolavoro di leggerezza: sembra che i due pellegrini, per la prima volta, compiano con serenità il loro cammino, anzi si divertano nel viaggio. Sermonti annota: “Virgilio sorride, per non ridere”.

L’uomo pigro. Purgatorio, canto IV, vv. 103-108.

“Là ci traemmo; e ivi eran persone / che si stavano a l’ombra dietro al sasso / come l’uom per negghienza  a star si pone.//  E un di lor, che mi sembiava lasso,/ sedeva e abbracciava le ginocchia,/ tenendo ‘l viso giù tra esse basso”. Ci avvicinammo al masso, e qui vedemmo degli spiriti che sostavano all’ombra del macigno, nell’atteggiamento in cui ci si mette per pigrizia. Uno di loro, all’apparenza stanco, stava seduto abbracciandosi le ginocchia  tenendo il viso nascosto tra di esse.

Nota: siamo nell’anti-Purgatorio e i due pellegrini qui incontrano le anime negligenti, appartenute cioè a quelle persone che tardarono fino alla fine della loro vita a pentirsi dei loro peccati, evitando la dannazione. I versi introducono la figura di Belacqua, un vecchio suo amico fiorentino, verso il quale mostra di provare ancora un sincero affetto. Sono note di mestizia e di indulgente divertimento.

L’uomo previdente. Inferno, canto XXIV, vv. 25-30.

“E come quei ch’adopera ed estima,/ che sempre par che ‘nnanzi si proveggia,/ così, levando me su ver’ la cima // d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia / dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa;/ ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”. E Virgilio, comportandosi come chi mentre agisce continua a riflettere sul da farsi, tanto che sembra prevedere l’azione successiva, così sollevandomi sulla sommità di una roccia sporgente, ne avvistava subito un’altra e mi diceva: “aggrappati a quella, ma prima tastala per vedere se è solida al punto di sostenerti”.

Nota: i due viandanti devono passare dalla sesta bolgia, dove hanno incontrato gli ipocriti (che camminano lentamente, con aria stremata, sotto tonache dorate ma di pesantissimo piombo), alla settima dove sono puniti i ladri (che hanno le mani legate con serpenti dietro la schiena). Per farlo devono intraprendere una specie di impresa alpinistica e occorre tutta l’intelligenza di Virgilio per uscirne senza danni: si inerpicano su difficili sporgenze rocciose, e Dante è invitato a fare molta attenzione alla solidità di questi massi franati.

L’uomo stanco. Purgatorio, canto XXIV, vv. 70-75.

“E come l’uom che di trottare è lasso,/ lascia andar li compagni, e sì passeggia / fin che si sfoghi l’affollar del casso,// sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meco sen veniva,/ dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”. E come chi è stanco di correre, che lascia andare avanti i compagni e cammina lentamente finché non diminuisce l’ansimare violento, così Forese lasciò passare avanti la folla di anime devote, e veniva con me, dicendo: “Quando potrò rivederti?”.

Nota: nella sesta cornice, quella dei golosi, Dante –insieme a Virgilio e Stazio- ha incontrato un suo caro amico e poeta fiorentino, Forese Donati. Con lui ha parlato a lungo; ora vengono raggiunti da una lunga fila di anime che corrono e li sopravanzano. A questo punto torna in primo piano il rapporto di amicizia tra i due suggellato dalla richiesta, tutta umana, dettata sinceramente dal cuore e da un affetto decisamente terreno del v. 75: “Quando potremo rivederci?”. Dante gli risponderà: “Non so quanto tempo vivrò”, e questa frase apre uno squarcio amaro e preoccupato sul Dante autore: probabilmente le condizioni politiche di Firenze quando il poeta componeva questo canto erano molto peggiorate rispetto a quelle della primavera del 1300, allorché soprattutto l’atteggiamento psicologico dell’autore, non ancora in esilio, non doveva essere così rinunciatario e pessimista.

L’uomo stimolato dalla necessità. Purgatorio, canto XXV, vv. 4-9.

“…come fa l’uom che non s’affigge / ma vassi a la via sua, che che li appaia,/ se di bisogno stimolo il trafigge,// così intrammo noi per la callaia,/ uno innanzi altro prendendo la scala / che per artezza i salitor dispaia”. Come fa chi non si ferma, ma va avanti per la sua strada, qualunque cosa gli appaia, se lo pungola lo stimolo del bisogno, così noi tre ci avviammo per lo stretto passaggio, salendo l’uno dietro l’altro la scala, che per le sue anguste dimensioni divide coloro che salgono.

Nota: Dante, Virgilio e Stazio hanno trascorso circa tre ore nella sesta cornice, quella dove i peccatori golosi espiano i loro peccati, a colloquio con i poeti Forese Donati e Bonagiunta Orbicciani da Lucca. Al momento di lasciare la cornice, dato che vi erano entrati alle undici del mattino (cfr. Purgatorio, XXII, 118-120), sono le due del pomeriggio. C’è ora bisogno di continuare con un certo ritmo l’ascesa. La scala è molto stretta e impedisce di salire i gradini stando appaiati. Infatti, fino a questo momento Virgilio e Stazio avevano camminato appaiati, precedendo Dante (cfr. ibidem, XXII, 127-129). Questa salita, forzatamente in fila indiana, lo vedremo, non impedirà ai tre di parlare a lungo. La strettoia è disagevole come difficile è la via della salvezza.

L’uomo turbato e addolorato. Purgatorio, canto XIV, vv. 67-72.

“Com’ a l’annunzio di dogliosi danni / si turba il viso di colui ch’ascolta,/ da qual che parte il periglio l’assanni,// così vid’ io l’altr’ anima, che volta / stava a udir, turbarsi e farsi trista,/ poi ch’ ebbe la parola a sé raccolta”. Come alla predizione di fatti dannosi e dolorosi il viso di chi l’ascolta appare sconvolto, da qualunque parte il pericolo stia per assalirlo, così con la stessa espressione vidi l’altra anima, Rinieri da Calboli, rivolta in ascolto verso Guido del Duca, diventare turbata e triste, dopo aver udito le sue parole.

Nota: siamo nella seconda cornice, quella degli invidiosi. Due anime si chiedono chi sia quest’uomo che, vivo e con gli occhi ben aperti, attraversa il loro spazio: sono Guido del Duca e Rinieri da Calboli, nobili romagnoli. Saputo da Dante che è toscano, Guido pronuncia un’invettiva contro i toscani e profetizza le crudeltà che saranno commesse a Firenze dal nipote del suo vicino. Questa è un’altra occasione che consente a Dante di esprimere il suo dolore di esule e di descrivere un’apocalittica visione della Firenze straziata, il quadro più nero suggeritogli dalla sua disperazione di proscritto.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello