Dante, “Commedia”, Similitudini. “Anima, Api, Apostoli, Arcobaleno, Argonauti, Arpa, Arsenale di Venezia, Atmosfera, Aurora, Avaro”. 

Dante, “Commedia”, Similitudini.  Anima, Api, Apostoli, Arcobaleno, Argonauti, Arpa, Arsenale di Venezia, Atmosfera, Aurora, Avaro.

 

Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, più di 350) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere  le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.

Ricorro alle riflessioni della teologa Teresa Bartolomei: “Il viaggio ultraterreno di Dante è una grande avventura meteorologica e sensoriale, popolata di tutti i fenomeni atmosferici e climatici che scandiscono il ritmo annuale delle stagioni, intessuta di tutte le vertigini percettive che segnalano la stanchezza, il dolore, la gioia, la paura, il piacere, la contemplazione (…) Ravenna, con il complesso celestiale dei suoi mosaici, è il motore primo della geografia mistica del Paradiso; e il doloroso pellegrinaggio dei 20 anni di esilio, un andirivieni estenuante tra l’Italia del centro e del nord, attraversamento di campagne invernali e di paludi malariche, ripidi versanti appenninici e foreste casentinesi, paesini sperduti e chiese solitarie, sono l’orizzonte topologico in cui si tessono i paesaggi della “Commedia”.

Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso, con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità.

Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.

 Anima, Api, Apostoli, Arcobaleno, Argonauti, Arpa, Arsenale di Venezia, Atmosfera, Aurora, Avaro.

L’anima. Paradiso. Canto II, vv. 127-132

“E come l’alma dentro a vostra polve / per differenti membra e conformate / a diverse potenze si risolve,// così l’intelligenza sua bontate / multiplicata per le stelle spiega,/ girando sé sovra sua unitate”. E come l’anima dentro i corpi mortali degli uomini, pur rimanendo una, si distribuisce in diverse membra, in organi differenti e conformati, formati in modo da servire alle diverse facoltà sensitive (vista, udito, tatto etcc.), così l’intelligenza angelica che muove il cielo delle Stelle fisse diffonde la sua unitaria bontà nelle molteplici stelle di ciascun cielo, facendo così muovere se stessa nella sua stessa unità.  

Nota: Dante è salito nel cielo della Luna. Chiede a Beatrice quale sia la vera causa di quelle che appaiono dalla Terra come macchie della superficie lunare. Beatrice risponde. Noi dobbiamo capire che ognuno degli aridi argomenti scientifici è il segno di un moto di carità nella santa, è un venire incontro, paziente e materno, alle limitate forze intellettuali dell’amato. Nel primo canto l’autore aveva descritto il moto ascensionale delle cose create verso il creatore; in questo secondo canto, con perfetta circolarità, viene descritto il moto contrario, dal creatore a tutte le parti del creato. Torna l’immagine del sistema dei cieli come un organismo vivente: gli otto cieli che vanno da quello della Luna a quello delle Stelle fisse sono come le diverse membra di un corpo unitario, la cui anima è sempre Dio, ma specificata nelle diverse Intelligenze angeliche preposte a ciascun cielo. Allo stesso modo l’anima dell’uomo si insedia nel suo corpo ma poi fluisce differenziandosi in ciascun organo, dove presiede alle diverse facoltà sensitive: la vista, l’udito, il gusto, e così via. I commentatori sono convinti che Dante ormai ha abbandonato l’aristotelismo per dirigersi verso fonti neoplatoniche e islamiche. Le due terzine sono molto simili, anche lessicalmente, a un passo di Boezio, in cui si parla della dottrina neoplatonica dell’anima mundi.

L’anima nobile. Purgatorio, canto XXXIII, vv. 130-135.

“Come anima gentil, che non fa scusa,/ ma fa sua voglia de la voglia altrui / tosto che è per segno fuor dischiusa;// così, poi che da essa preso fui, la bella donna mossesi, e a Stazio / donnescamente disse: “Vien con lui”. Comportandosi come un’anima nobile, che non cerca pretesti per non compiere il suo dovere, ma fa della volontà di chi chiede la propria volontà, dopo avermi preso per mano, Matelda si mosse e disse a Stazio con signorilità: “Vieni anche tu con lui”.  

Nota: siamo nell’ultimo canto del Purgatorio. Dopo le visioni apocalittiche alle quali ha assistito Dante, insieme a Stazio, Matelda, Beatrice e le sette donne che personificano le virtù teologali e cardinali, si avvia verso il secondo ramo del fiume che scorre nell’Eden, l’Eunoè, le cui acque risvegliano la memoria del bene compiuto nella vita terrena. Ora Beatrice assume la responsabilità del suo ruolo didascalico, invitando Dante a chiedere chiarimenti su quanto ha appena visto. L’arrivo sulle sponde dell’Eunoè fa intravedere un luogo descritto nei suoi aspetti di ombra e frescura.  Dante e Stazio vengono da Matelda immersi nell’Eunoè. Il poeta sottolinea la grazia signorile dei suoi gesti, la nobiltà mista a dolcezza con cui si muove. Quanto a Stazio, è possibile che la sua partecipazione al rito sia dovuta semplicemente al fatto che già si trovava in compagnia di Dante, e non al fatto che Matelda immerga abitualmente nell’Eunoè tutte le anime di passaggio verso il Paradiso. L’immersione è capace di rinnovare nell’animo di chi beve la memoria del bene compiuto: l’unica purificazione attiva, positiva, donatrice.

Le api. Inferno, canto XVI, vv. 1-6.

“Già era in loco onde s’udia ‘l rimbombo / de l’acqua che cadea ne l’altro giro,/ simile a quel che l’arnie fanno rombo,// quando tre ombre insieme si partiro,/ correndo, d’una torma che passava / sotto la pioggia de l’aspro martiro”. Mi trovavo ormai in un luogo da cui si udiva il rimbombo prodotto dalle cascate del Flegetonte che precipitava nel cerchio sottostante, un suono simile al ronzio delle api che volano intorno agli alveari, quando tre ombre si staccarono contemporaneamente di corsa da una schiera che procedeva sotto la pioggia infuocata del terribile tormento. 

Nota: la descrizione del luogo è basata sull’udito, veramente il senso che domina nell’Inferno, regno della tenebra e cancellatore della vista. Siamo ancora nel terzo girone del settimo cerchio, ma Dante con l’immagine del fiumicello derivato del Flegetonte che precipita con la sua acqua ne l’altro giro, fa presentire la vera e propria caduta nell’abisso che avverrà nel canto XVII. Infatti il luogo è posto nello scoscendimento che, al limite estremo del cerchio dei violenti, anticipa, con l’orribile scroscio e il rimbombo dell’acqua del Flegetonte, la sensazione di orrore che il poeta proverà durante la discesa sulla groppa di Gerione verso le zone basse dell’Inferno.

Purgatorio, canto XVIII, vv. 55-60.

“Però, là onde vegna lo ‘ntelletto / de le prime notizie, omo non sape,/ e de’ primi appetibili l’affetto,// che sono in voi come studio in ape / di far lo mele; e questa prima voglia / merto di lode o di biasmo non cape”. Perciò, gli uomini non sanno da dove venga loro la conoscenza delle nozioni primarie, né l’amore verso i primi beni desiderabili, che sono in voi come il naturale istinto dell’ape di produrre il miele; e questa primaria inclinazione non è suscettibile di essere lodata o condannata.

Nota: nella cornice degli accidiosi Virgilio spiega a Dante la dottrina dell’amore male e bene diretto, e che se la tendenza all’amore è istintiva, sta poi alla volontà dell’uomo scegliere tra le sue inclinazioni. La similitudine usa termini tecnici che appartengono al linguaggio della filosofia scolastica. C’è nell’uomo un’inclinazione naturale ad amare: la similitudine con il desiderio dell’ape di produrre il miele chiarisce come questa tendenza non possa essere né premiata né condannata, almeno finché si rivolge ai primi appetibili. Questi sono i “beni primi”, Dio, la verità, la bellezza. Finché l’uomo segue le sue “prime”, più naturali inclinazioni, non acquista merito, ma nemmeno corre il rischio di commettere peccato.

Paradiso, canto XXXI, vv. 1-12.

“In forma dunque di candida rosa / mi si mostrava la milizia santa / che nel suo sangue Cristo fece sposa;// ma l’altra, che volando vede e canta / la gloria di colui che la ‘nnamora / e la bontà che la fece cotanta,// sì come schiera d’ape che s’infiora / una fiata e una si ritorna / là dove suo laboro s’insapora,// nel gran fior discendeva che s’addorna / di tante foglie, e quindi risaliva / là dove ‘l suo amor sempre soggiorna”. Con l’aspetto generale di un’immensa rosa bianchissima e splendente mi appariva la santa comunità dei Beati, che Cristo sposò versando il proprio sangue; ma l’altra comunità, quella degli Angeli, che muovendosi in volo vede e glorifica cantando la gloria di Dio, che ama riamata, e la sua bontà che la creò tanto bella e potente, come uno sciame di api che si immerge una volta nel fiore e una seconda volta ritorna nell’alveare, scende va dentro il grande fiore dei Beati ornato da innumerevoli petali, e di lì risaliva verso la luce divina.

Nota: nell’Empireo Dante assiste stupito a tutto lo splendore della comunità dei Beati, che trionfano in forma di rosa bianchissima, continuamente visitata da Angeli simili ad api. In apertura di canto, la bella immagine della rosa candida, l’ultima delle figure metamorfiche in cui si era composta l’intera comunità dei Beati, riappare in primo piano. Nella similitudine c’è un perfetto parallelismo tra uno sciame di api tra i fiori di primavera e il gruppo degli Angeli. L’incessante volo degli Angeli intorno ai Beati trova il suo paragone ideale nella descrizione dell’attività instancabile delle api, che sono una comunità molto unita, basata sulla perfetta distribuzione delle attività, e che ancora oggi sono un simbolo di organizzazione operosa. Il pellegrino, alla fine del lungo viaggio, sta dunque assistendo alla rivelazione della bellezza dell’uomo, al risultato più perfetto che l’umanità tutta può raggiungere, coltivandosi come un fiore, e a cui contribuisce fin da quando è stata creata da Dio.

I tre apostoli. Purgatorio, canto XXXII, vv. 73-84.

“Quali a veder de’ fioretti del melo / che del suo pome li angeli fa ghiotti / e perpetue nozze fa nel cielo,// Pietro e Giovanni e Iacopo condotti / e vinti, ritornaro a la parola / da la qual furon maggior sonni rotti,// e videro scemata loro scuola / così di Moisè come d’Elia,/ e al maestro suo cangiata stola;// tal torna’ io, e vidi quella pia / sovra me starsi che conducitrice / fu de’ miei passi lungo ‘l fiume pria”. Come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, condotti a vedere la prima fioritura del melo che rende ghiotti del suo frutto gli Angeli e fa nel Cielo una festa eterna, e sopraffatti dalla luce che li investì, ritornarono in sé con la parola di Cristo, grazie alla quale si spezzarono sonni ben più profondi; e, ridestandosi, videro che la loro compagnia era diminuita, perché erano scomparsi Mosè ed Elia, e che il loro maestro aveva cambiato abito; allo stesso modo rinvenni io, che vidi accanto a Me Matelda, colei che prima mi aveva guidato lungo il corso del Lete. 

Nota: siamo nel Paradiso terrestre, Dante ha assistito a tutta una serie di processioni simboliche e, infine, ha incontrato Beatrice. La processione con il carro trionfale ha ripreso a muoversi. Beatrice scende dal carro e si mette a sedere sulle radici dell’albero; il grifone vi lega il timone del carro e subito la pianta, spoglia e in apparenza morta, rifiorisce e si copre di fiori purpurei. Dante si addormenta. E la similitudine, di ispirazione evangelica, ha una costruzione sintattica complessa e contenuti difficili: è descritta con linguaggio metaforico la trasfigurazione di Gesù, che fu per gli apostoli che vi assistettero una primizia della beatitudine celeste, tanto che ne furono tramortiti. Dante si sveglia al richiamo di Matelda e si accorge che Beatrice non è più lì vicino.

L’arcobaleno. Purgatorio, canto XXV, vv. 91-96.

“E come l’aere, quand’è ben piorno,/ per l’altrui raggio che ‘n sé si reflette,/ di diversi color diventa addorno;// così l’aere vicin quivi si mette / e in quella forma ch’è in lui suggella / virtualmente l’alma che ristette”. E come nel mondo terreno l’aria, dopo un’abbondante pioggia, per effetto dei raggi solari che riflette si adorna di molti colori; così l’aria intorno all’anima si dispone ad assumere quella figura che il corpo possedeva, e che in essa imprime come un sigillo per propria potenza l’anima che si era fermata lì dopo la sua caduta.  

Nota: mentre i tre poeti salgono alla settima cornice, Dante chiede come sia possibile che le anime dei golosi, che espiano le loro colpe nella sesta cornice, e che non hanno bisogno di cibo, appaiano così magre. Per invito dello stesso Virgilio gli risponde Stazio, il cui discorso spazia dalla fecondazione alla formazione del feto, all’innesto in esso dell’anima da parte di Dio. Anche questa similitudine è tratta dalla realtà quotidiana e da un suo aspetto piacevole: l’arcobaleno, ornamento dei sette colori dell’iride che abbellisce l’aria nelle giornate estive. Se ne ritrova un’eco in un passo ovidiano delle “Metamorfosi”, la storia di Aracne: “ Così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda”. “Qualis ab imbre solet percussis solibus arcus / inficere ingenti longum curvamine caelum,/ in quo diversi niteant cum mille colores,/ transitus ipse tamen spectantia lumina fallit” (libro sesto, 63-66).

Paradiso, canto XII, vv. 10-21.

“Come si volgon per tenera nube / due archi paralleli e concolori,/ quando Iunone a sua ancella iube,// nascendo di quel d’entro quel di fori,/ a guisa del parlar di quella vaga / ch’amor consunse come sol vapori,// e fanno qui la gente esser presaga,/ per lo patto che Dio con Noè puose,/ del mondo che già mai più non s’allaga:// così di quelle sempiterne rose / volgiensi circa noi le due ghirlande,/ e sì l’estrema a l’intima rispuose”. Come due arcobaleni equidistanti e di medesimo colore si incurvano sullo sfondo di nubi leggere e trasparenti, quando Giunone ordina alla sua ancella Iride di raggiungere la terra, così che l’arcobaleno esterno nasce per riflessione da quello interno, nel modo in cui per la voce ha origine l’eco (la ninfa Eco, innamoratasi di Narciso e disprezzata da lui, si consumò di dolore fino a ridursi a sole ossa e voce, come il sole dissolve la nebbia; gli dei trasformarono le sue ossa in un sasso, mentre la voce continuava ad errare viva per l’aria); e i due arcobaleni confermano agli uomini che, grazie al patto che Dio stipulò con Noè, il mondo non subirà più un diluvio universale; allo stesso modo giravano intorno a noi le due ghirlande di eterne rose, e allo stesso modo quella esterna corrispose perfettamente a quella interna.

Nota: siamo nel cielo del Sole, la sede delle anime sapienti. San Tommaso, domenicano, ha fatto l’elogio di San Francesco e ha denunciato la corruzione dell’ordine di San Domenico. Terminato il racconto, la corona di luci beate riprende a ruotare. Quand’ecco, all’improvviso, è circondata da un’altra più grande, formata di altri dodici spiriti, che ruota concentrica intorno alla prima. La similitudine è di limpida efficacia: apparenta il movimento rotante delle due corone al suggestivo fenomeno atmosferico di un doppio arcobaleno. Dall’armonia trascendente dei cieli l’autore ci fa scendere di nuovo sulla terra, ad assistere ad una delle apparizioni più amate dagli uomini, l’arcobaleno dopo la pioggia, quando l’aria è così gonfia di umidità da coprirsi di nubi tenere. Si uniscono due perifrasi mitiche, la prima con Iride e Giunone, la seconda con il mito di Eco, la ninfa che si consumò come le nebbie sono dissolte dal sole. Il malinconico mito della ninfa Eco è narrato da Ovidio: figlia dell’Aria e della Terra, si innamorò perdutamente di Narciso, e si consumò tanto che di lei rimasero solamente le ossa, tramutate in sasso, e la voce, dispersa perennemente nell’aria (Metamorfosi, III, 339-510). Dopo le belle immagini del mito classico, ecco il fatto biblico, il racconto dell’Arca di Noè nella “Genesi”, e ancora l’arcobaleno come segno della pace tra Dio e gli uomini.

Paradiso, canto XXIII, vv. 115-132

Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza;// e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso, e ‘l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri.// Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, / è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.//O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!// Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso,/ da li occhi miei alquanto circunspetta,// dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige:/ per che ‘l mio viso in lei tutto era messo”. Nella profonda e luminosa essenza di Dio mi apparvero tre cerchi di tre colori diversi e di uno stesso diametro; e l’uno sembrava prodotto dal riflesso dell’altro, come arcobaleno da arcobaleno, mentre il terzo sembrava fuoco che fosse acceso in ugual misura dall’uno e dall’altro. Oh, come sono insufficienti le mie parole, e deboli rispetto al mio ricordo! quanto ho scritto, rispetto a quanto vidi, è ancora meno che poco. O luce eterna, che in te sola consisti, che sola ti comprendi, e compresa da te e comprendendo te ridi d’amore! Quel cerchio che in te appariva generato come luce riflessa, il Figlio, contemplato attentamente da me, mi apparve recare dipinta al suo interno, col suo stesso colore, la figura umana; per la qual cosa il mio sguardo era totalmente fisso su di esso.

 Nota: siamo ormai alla fine della cantica e, quindi, del poema. San Bernardo prega la Madonna affinché con la sua infinita potenza e bontà intervenga presso Dio a favore di Dante. Tutti i Beati pregano a loro volta per lui, giungendo le mani. Maria acconsente. Finalmente il pellegrino fissa lo sguardo in Dio. Può così vedere l’unità dell’universo, la sua natura una e trina, e comprendere il mistero dell’incarnazione. L’intuizione del divino folgora la mente del pellegrino in un istante di suprema felicità. Dopo il mistero della molteplicità dell’universo fusa nell’unità di Dio, Dante contemplante ha l’intuizione di un altro mistero: la Trinità nell’Unità di Dio. La visione a cui assiste e che racconta è rigorosamente lineare e astratta. Non poteva che essere così: la sua mente ha intuito Dio, ne ha avuto una visione simbolica. Ciò che ora il poeta ricostruisce per noi lettori è l’essenza della Trinità, cerchi che si riflettono l’un l’altro, ma uno dei quali, quello che rappresenta lo Spirito Santo, è come un respiro acceso d’amore, che si libra tra il Padre e il Figlio, dando origine all’energia che tiene unito tutto l’universo, l’amore di Dio.  Dante sa che la rappresentazione di Dio, anche la più straordinaria, non può che essere inadeguata. Sceglie quindi la via dei simboli, della descrizione essenziale, evitando il rischio dell’inverosimiglianza. Le Tre Persone della Trinità appaiono dunque in forma di tre cerchi: la figura geometrica che simboleggia la perfezione e l’eternità, priva com’è di distinguibili inizio e fine.

Anche il mistero dell’incarnazione di Cristo, nei vv. 127-132, non è rappresentabile con mezzi umani: Dio conosce se stesso pensandosi, quindi creandosi con l’atto della sua mente, nella persona del Figlio. Quella che Dante vede in effetti è una non-immagine, visto che risulta impossibile distinguere una figura dipinta con lo stesso colore dello sfondo. Anche questo paradosso figurativo è coerente con la definizione teologica di Cristo, il Figlio di Dio: colui che incarnandosi restò quel che era, cioè Dio, diventando insieme quel che non era, cioè uomo.

 

Gli Argonauti. Paradiso, canto II, vv. 16-18.

“Que’ gloriosi che passaro al Colco / non s’ammiraron come voi farete,/ quando Iasòn vider fatto bifolco”. Quei navigatori eroici che solcarono il mare fino alla Colchide, quando videro il loro capitano, Giasone, trasformato in contadino, non si stupirono quanto vi stupirete voi leggendo i miei versi.  

Nota: Dante poeta avverte i lettori sprovvisti di cultura di non avventurarsi nella lettura del “Paradiso” perché rischierebbero di smarrirsi. Il mito degli Argonauti, uno dei più noti nel Medioevo, raffigura il fascino del varcare i limiti, del compiere imprese mai tentate prima dalla mente umana. Racconta Ovidio che per poter conquistare il prezioso vello d’oro Giasone dovette sottoporsi ad alcune prove di carattere magico. In particolare, fu fatto bifolco perché dovette arare un campo con buoi dalle corna di ferro, dai piedi di bronzo e che emettevano fiamme dalle narici (“Metamorfosi, VII, 100 sgg.”)..

 

L’arpa. Paradiso, canto XIV, vv. 118-123.

“E come giga e arpa, in tempra tesa / di molte corde, fa dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa,// così da’ lumi che lì m’apparinno / s’accogliea per la croce una melode / che mi rapiva, sanza intender l’inno”. E come una giga (antico strumento ad arco, simile a un violino) e un’arpa accordate grazie alla tensione delle molte corde producono un piacevole suono, anche alle orecchie di chi non distingue le note musicali, così dai Beati che lì mi apparvero si diffondeva per la croce una melodia che mi mandava in estasi, senza che comprendessi le parole dell’inno.  

Nota: Dante si rende conto di essere salito con Beatrice nel quinto cielo, quello di Marte. E qui le presenze luminose degli spiriti combattenti assumono la forma di una croce splendente. Per rendere almeno in parte la meravigliosa visione immateriale delle anime in movimento per tutta l’ampiezza della croce il poeta ricorre a questa similitudine, introducendo – accanto all’armonia del suono del violino (la giga) e dell’arpa- l’elemento del canto corale e tutto sfuma nel rapimento della mente: l’immaterialità dell’emozione supera la parvenza di realtà. Una trepidazione di attesa piena di ansia.

L’Arsenale di Venezia. Inferno, canto XXI, vv. 7-18

“Quale ne l’arzanà de’ Viniziani / bolle l’inverno la tenace pece / a rimpalmare i legni lor non sani,// ché navicar non ponno –in quella vece / chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più viaggi fece;// chi ribatte da proda e chi da poppa;/ altri fa remi e altri volge sarte;/ chi terze ruolo e artimon rintoppa-:// tal, non per foco, ma per divin’arte,/ bollìa là giuso una pegola spessa,/ che ‘nviscava la ripa d’ogne parte”. Come nell’Arsenale dei Veneziani bolle, in inverno, la vischiosa pece per rispalmare le navi in avaria, dato che non è la stagione per navigare, invece di andar per mare, chi si costruisce una nuova nave, chi chiude con la stoppa le falle nelle fiancate della propria, già segnata da molti viaggi; chi lavora battendo col martello sulla prua, chi sulla poppa; qualcuno costruisce remi, altri intrecciano sartie; chi rattoppa la vela minore, chi la più grande; allo stesso modo, non a causa di fuoco ma per opera divina, bolliva là in fondo alla bolgia una pece spessa, che colmava e rendeva vischiose entrambe le pareti dell’argine di roccia.

Nota: i due poeti, sempre conversando, sono entrati nella quinta bolgia, quella dei barattieri. Nel canto precedente hanno attraversato la quarta bolgia dove Dante è entrato in crisi alla vista della pena degli indovini, che avevano la testa e il collo completamente girati in modo da costituire un tutt’uno con le spalle e la schiena. I dannati camminano lentamente, perché non potendo guardare davanti a sé devono camminare all’indietro. Sono esseri umani trasformati in mostri. Torniamo ai barattieri e a questa splendida similitudine, movimentata da immagini e suoni che riproducono mirabilmente la vita del famoso cantiere navale di Venezia (fondato nel 1104 e ristrutturato all’inizio del 1300, quando la città-stato era al culmine della potenza). Lo spunto è dato dai movimenti di ebollizione della pece infernale, ma da questa immagine prende vita una scena vivace, quasi allegra, non in contrasto con il tono farsesco delle terzine successive incentrate sulla pece come supplizio dei dannati e sui feroci diavoli alati guardiani, ma anzi quasi ne anticipa il frenetico dinamismo. Il preciso realismo sembrerebbe nascere da un’osservazione diretta: Dante da Padova sarebbe andato nella città lagunare e avrebbe visitato l’Arsenale tra il 1308 e il 1310. E’ possibile quindi che l’autore abbia aggiunto successivamente la similitudine.

L’atmosfera. Purgatorio, canto I, vv. 13-18.

“Dolce color d’oriental zaffiro,/ che s’accoglieva nel sereno aspetto / del mezzo, puro infino al primo giro,// a li occhi miei ricominciò diletto,/ tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta / che m’avea contristati li occhi e ‘l petto”. Un delicato colore azzurro zaffiro che si diffondeva nella serenità dell’atmosfera, puro fino all’orizzonte, ridiede ai miei occhi la gioia della vista, appena fui uscito dall’aria gonfia di morte dell’Inferno, che mi aveva riempito d’angoscia lo sguardo e il cuore.  

Nota: i due poeti sono arrivati sulla spiaggia solitaria dell’isola su cui sorge la montagna del Purgatorio. E’ quasi l’alba: nel cielo splendono il pianeta Venere e quattro stelle visibili solo nell’emisfero australe, quello nobile in cui visse il primo uomo nel suo stato d’innocenza. Dico subito che questa è una descrizione metaforica ma la scelgo perché ha l’andamento dispiegato d’una bellissima similitudine. “Dolce, sereno, puro” sono tre aggettivi che possono rappresentare l’atmosfera di tutto il Purgatorio, un regno immerso nella purezza di un’aria limpida, tanto più apprezzata dopo i miasmi soffocanti dell’Inferno, ma soprattutto un regno aperto alla visione del cielo, della luce naturale delle stelle. Già l’ultimo verso dell’Inferno aveva concentrato l’attenzione sulla ritrovata felicità della vista (“uscimmo a riveder le stelle”, Inferno, XXXIV, 139), tanto mortificata nella tenebra infernale. Ora i versi si riempiono del paesaggio, che si espande come il colore azzurro dello zaffiro nella sua vastità. Dante e Virgilio sembrano scomparsi, nella solitudine serena di quest’alba luminosa, la prima dopo tante ore di buio. I due poeti sono passati nell’emisfero australe, dove sorge l’isola del Purgatorio, e sta per spuntare il sole: Dante descrive il momento in cui il cielo si illumina e mette in primo piano la bellezza di cui si colora il cielo mattutino.

L’aurora. Purgatorio, canto IX, vv. 1-12.

“La concubina di Titone antico / già s’imbiancava al balco d’oriente,/ fuor de le braccia del suo dolce amico;// di gemme la sua fronte era lucente,/ poste in figura del freddo animale / che con la coda percuote la gente;// e la notte, de’ passi con che sale,/ fatti avea due nel loco ov’eravamo,/ e ‘l terzo già chinava in giuso l’ale;// quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,/ vinto dal sonno, in su l’erba inchinai / là ‘ve già tutti e cinque sedavamo”. La moglie del vecchio Titone, l’Aurora, era ormai bianca sull’orizzonte, a Oriente, come una donna al balcone appena uscita dalle braccia del suo amato; di fronte a lei brillava la costellazione che la forma dello scorpione, il freddo animale che colpisce con la sua coda; nel frattempo, nel luogo in cui ci trovavamo, la notte aveva già fatto due dei passi coi quali sale in cielo, e stava già portando a termine il terzo; quando io, che portavo con me il peso del corpo fisico, vinto dalla stanchezza mi abbandonai sull’erba e mi addormentai, là dove tutti e cinque già eravamo seduti.  

Nota: nell’antipurgatorio, nella valletta dei principi, Dante, Virgilio, Sordello, Nino Visconti e Corrado Malaspina hanno assistito alla fuga del serpente ad opera degli Angeli di Dio. Ora il poeta si è addormentato sul prato. All’inizio c’è una complessa perifrasi astronomica, non sempre di chiara interpretazione. Nei primi sei versi forse è descritto il sorgere dell’aurora nell’emisfero boreale, nel punto in cui si trova Dante intento a comporre il poema, in Italia perciò. Dal v. 7 al v. 9 è descritto, invece, l’evento astronomico corrispondente nell’emisfero australe, nel luogo in cui si trova Dante personaggio, il pellegrino che compie il viaggio. L’aurora è detta concubina di Titone perché, innamorata di questo bellissimo giovane, aveva ottenuto da Giove che Titone rimanesse con lei per sempre, rendendolo immortale. Ma si era dimenticata di chiedere per lui anche l’eterna giovinezza, e quindi Titone era invecchiato fino a un’estenuante ed eterna decrepitezza. Alla fine il sonno di Dante prepara il passaggio al Purgatorio vero e proprio: d’ora in avanti, questo clima sfumato e sospeso diventerà soltanto un ricordo.

L’avaro. Inferno, canto I, vv. 55-60.

“E qual è quei che volentieri acquista,/ e giugne ‘l tempo che perder lo face,/ che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista;// tal mi fece la bestia sanza pace,/ che, venendomi  ‘ncontro, a poco a poco / mi ripigneva là dove ‘l sol tace.”  E come l’avaro, che con tutta la sua volontà punta sempre ad acquistar nuovi beni, se giunge un momento, un’occasione che gli fa perdere tutto, in quella disgrazia si rattrista e piange in ogni suo pensiero, così mi rese (inquieto, addolorato) la bestia senza pace, cioè la lupa, che non ha e non dà mai pace perché è insaziabile e avida, che venendomi addosso a poco a poco mi spingeva di nuovo verso il buio della selva.

Nota: Dante si smarrisce in una selva buia e solitaria; vi trascorre la notte. All’alba vede un colle già illuminato dal sole. Mentre tenta di salirvi, gli appaiono dinanzi tre belve: prima una lince, poi un leone, che gli sbarrano la strada, e infine una lupa, che lo fa lentamente ridiscendere verso la selva. La similitudine dipinge lo stato d’animo del peccatore Dante, già fiducioso in un felice esito della sua ascesa verso il colle, e invece costretto a tornare nello smarrimento, rappresentato efficacemente dal buio, anche in pieno giorno, della selva. Da notare come delle tre fiere soltanto la lupa sia davvero capace di far precipitare di nuovo Dante nella pianura della selva. Il verso 60 si chiude con questa espressiva sinestesia, cioè una figura retorica basata sull’analogia, in cui un verbo riguardante una sensazione uditiva (tace) viene riferito al sole, di per sé legato alla percezione visiva. Secondo un critico la frase, “il sol tace”, allude all’assenza di armonia divina nell’Inferno, luogo eternamente buio, dove non si alternano ciclicamente ore e stagioni.

 

                                                        Gennaro   Cucciniello