Don Carlos, Infante di Spagna (1545-1568). “Principe maledetto?”

L’affaire Don Carlos, infante di Spagna

Torna alla Scala il capolavoro di Verdi dedicato al “principe maledetto”. Ma chi fu davvero? Un eroe? Una vittima? Un pazzo? Il giallo dura da cinque secoli. E gli investigatori ora dicono…

 

Questo articolo, scritto da Marco Cicala, è stato pubblicato nel “Venerdì” di “Repubblica” del 27 gennaio 2017, alle pp. 90-93-

 

Nei ritratti dell’epoca è un ragazzotto dai perfidi tratti femminei. Ma il “photoshop” della pittura cortigiana (ritratto di Alonso Sànchez Coello) ne mascherava le deformità: aveva una spalla gibbosa, il petto infossato, una gamba più lunga dell’altra; zoppicava, tartagliava, si ammalava di continuo e ancora più spesso dava fuori di matto. Un malevolo ambasciatore veneziano lo descriveva come un giovane “di complessione malinconica e collerica… difficilissimo in lasciarsi governare e appetitoso fuor di ragione… Poco cortese e di natura molto crudele”.

Povero Don Carlos: benché circondato da ogni comfort, visse male –ma per sua fortuna poco, 23 anni- e morì ancora peggio. Falsificata, strumentalizzata per screditare il dominio della Spagna trionfante, la sua storia dark divenne subito materia di pamphlet assassini e in seguito di struggenti trasfigurazioni letterarie. A quell’uso si prestava benissimo, perché racchiudeva motivi ad alto tasso di suggestione drammatica: lo scontro tra generazioni, il conflitto tra politica e affetti, tra ragion di Stato e ragioni del cuore, e poi la rivolta, il complotto, la follia, il tradimento, il castigo. L’elaborazione del mito Don Carlos si sgrana lungo quattro secoli e il grand opéra verdiano, che adesso torna alla Scala con l’allestimento di Peter Stein, ne rappresenta il compimento sublime. Ma oggi che cosa sappiamo di certo o quantomeno di convincente sulla vicenda del “principe maledetto” incarcerato e lasciato crepare dal padre Filippo II in una torre dell’Alcàzar madrileno per motivi ancora misteriosi?

Una decina d’anni fa il dibattito sull’affaire Don Carlos fu riaperto in Spagna dalla scoperta di un documento shock. Era la ritrascrizione ottocentesca di un testo andato perduto, redatto dal monaco Juan de Avilés, sedicente confessore di Sua Altezza. Il resoconto sconvolgeva le ipotesi più plausibili circa la fine del principe e le colpe che ne avevano portato alla condanna. Carlos –riferiva il religioso- non era morto di stenti durante la segregazione, ma era stato giustiziato tramite garrota dopo un processo segreto. Le accuse? Alto tradimento, intelligenza col nemico: gli indipendentisti olandesi da tempo in fermento contro il giogo spagnolo. A inchiodarlo, una serie di lettere a lui inviate dai ribelli, Guglielmo d’Orange, il conte di Egmont… Non bastasse, ad aggravare la posizione dell’imputato erano spuntati pure alcuni ardenti biglietti destinati alla regina Elisabetta di Valois, terza moglie di suo padre. I palpiti per la libertà, l’ammutinamento di un delfino al dispotismo, l’amore impossibile per la matrigna, la vendetta di un padre doppiamente tradito… Da non crederci: il rapporto di frate Juan ridava improvvisamente corpo a tutte le fole romantiche che avevano alimentato il giallo di Don Carlos. Peccato però che quella ricostruzione fosse una patacca. Rilevandone incongruenze ed errori, storici come l’inglese Geoffrey Parker –il maggior biografo di Filippo II- hanno dimostrato come si trattasse di una versione dei fatti rimaneggiata ex post, risalente al Seicento e dunque già impastata di tutti i rumors, le più sperticate dicerie che si erano propagate in Europa dopo la morte dell’Infante. Ma anche la vita di Carlos era stata un groviglio di enigmi, oltreché un distillato di infelicità da manuale. Tutto era cominciato sotto pessimi auspici.

Erede di un regno grande quanto un impero, il primogenito di Filippo II nasce nel 1545 uccidendo sua madre: Maria di Portogallo sopravvive al parto solo quattro giorni. Col padre assente causa superiori impegni, il ragazzino viene su “arrogante e mal disposto” registrano i cortigiani. Nell’apprendimento è lento. Soffre di febbri quartane. E’ soggetto a brutali sbalzi d’umore. Secondo i cronisti inclina al sadismo: lepri e conigli “si diletta di vederli arrostir vivi; ed essendogli stata donata una biscia molto grande, ed essa avendogli dato un morso a un dito, esso subitamente con i denti le spiccò la testa”. Per dirozzarlo, Filippo lo spedisce a studiare nella prestigiosa università di Alcalà de Henares. Ma il 19 aprile 1562 arriva la notizia di un grave incidente. Rincorrendo una servetta o più probabilmente incespicando con le gambe scompagnate –Carlos è ruzzolato giù da una scala e ha intruppato con la parte del corpo che fra tutte più gli fa difetto: la testa. La ferita s’infetta. Il principe non ci vede più, entra in coma. I monaci accorrono dando fondo all’arsenale miracolistico: statue della Vergine, reliquie taumaturgiche. Ma i luminari del regno danno all’Infante poche ore di vita. Non resta che un ultimo azzardo: la trapanazione. Mentre mezza Spagna si raccoglie in preghiere e processioni, a sobbarcarsi l’ingrata missione è l’esimio chirurgo Andrea Vesalio. L’intervento riesce. Suonano le campane, viene decretata un’amnistia, Carlos si riprende, sei mesi dopo cammina, ma non è più lo stesso. Se possibile, è peggiorato. Un giorno scaraventa dalla finestra un paggio che non gli garba. A un calzolaio che ha fabbricato scarpe troppo strette gliele fa mangiare. Guai a contrariarlo, come niente il principe sfodera il coltello. A Palazzo non si conquista simpatie. Seppur con cautela, Filippo cerca di coinvolgerlo negli affari di Stato –è il suo unico figlio maschio- ma Carlos si sente emarginato. Recrimina, frigge di rancore verso il padre. Fino a commettere qualcosa di imperdonabile. Cosa? Di sicuro c’è solo che nella notte del 18 gennaio 1568 il re ne decide la carcerazione. A incaricarsene è il monarca stesso. La scena dell’arresto vale tutto il film.

Una maglia di ferro infilata sotto gli abiti, tipo giubbotto antiproiettile, Filippo si presenta negli appartamenti del figlio con un drappello di armigeri, ministri del Consiglio di Stato, attendenti muniti di chiodi e martello. Toc toc. Chi è? “El Consejo de Estado”. Irrompendo, le guardie sequestrano all’Infante spada e archibugio, carte e denari. Le finestre vengono sigillate. “Vostra Maestà è venuto per uccidermi o per imprigionarmi?” s’informa Carlos, “non sono pazzo, sono disperato”. Filippo: “Calmatevi e tornate a letto. Lo stiamo facendo per il vostro bene”. Il principe è messo in isolamento e “rapidamente gettato nel dimenticatoio; di lui si parla meno che se non fosse mai nato”. Bocche cucite. Anche quella del sovrano che con il suo silenzio gonfia i sospetti. In una lettera a papa Pio V si spiega in termini criptici: la reclusione non dipende “dal carattere o da qualche colpa” dell’Infante. “A causa dei miei peccati, è stato volere di Dio che questo principe avesse così gravi difetti, in parte mentali, in parte dovuti alla sua costituzione fisica, dando prova lampante di essere privo delle doti necessarie per governare. Ho scorto i gravi rischi che si sarebbero presentati se avesse dovuto succedere e i palesi pericoli che ne sarebbero derivati”. Ok, Carlos è inidoneo al comando della Spagna –Unfit to lead Spain, scriverebbe l’Economist– ma che cosa ha fatto per meritarsi il 41 bis dell’epoca?

Fonti diplomatiche alludono a missive nelle quali il principe si lagnava del padre con alti rappresentanti della corona in Italia e Paesi Bassi, sbandierando crudi dissensi all’interno della Corte. Era l’abbozzo di una sedizione contro il monarca? Per quale motivo Carlos aveva preso in prestito duecentomila ducati? Solo per sputtanarseli al gioco o meditava una fuga? E perché si era fatto dipingere quindici ritratti, tra i quali quelli magnifici realizzati da Alonso Sànchez Coello e dalla cremonese Sofonisba Anguissola? Aveva intenzione di spedirli insieme a prebende ai potenti che voleva ingraziarsi? Nulla prova che il principe avesse preso contatti con i separatisti olandesi candidandosi a guidarne la causa. E la favoleggiata passione galeotta per la regina? Invenzione romanzesca. Certo, Carlos e Elisabetta erano coetanei e tra loro c’era simpatia, ma “sembra altamente improbabile che una qualsiasi condotta inappropriata abbia potuto aver luogo in un palazzo dove la famiglia reale era costantemente circondata di cortigiani” ricorda il biografo Parker. Don Carlos muore il 24luglio del 1568 dopo sei mesi di internamento. Si uccide rifiutando il cibo. Durante la detenzione l’hanno visto spalmarsi di neve, ingurgitare compulsivamente acqua gelata, ha anche provato a farsi fuori inghiottendo un grosso anello con diamante. Comincia a circolare la voce che sia stato assassinato. Sotto Filippo II l’omicidio politico è uno sport praticato assai.

Ma sono soltanto sussurri: la vera bomba scoppia nel 1580 quando a Leida viene stampata l’Apologia di Guglielmo d’Orange, leader della rivolta olandese. Nel pamphlet Filippo è dipinto come una belva sanguinaria e accusato di aver eliminato tanto il figlio quanto Elisabetta, moglie infedele. Don Carlos diventa l’eroe della Leyenda negra, cioè della più colossale operazione di propaganda mai orchestrata nella storia. Non diversamente dagli Stati Uniti in tempi più recenti, la superpotenza spagnola è tacciata d’ogni nequizia. L’inquisizione, gli autodafé, le atrocità sugli indios, le razzie dei famigerati Tercios –le truppe più temibili del mondo… Si confeziona il cliché ispanofobico di un popolo fanatico e feroce. In misura e con intenti diversi, alla Leggenda nera si abbevera tutta la letteratura su Don Carlos. Dall’abate francese Saint-Réal che nel 1672 ne fa l’eroe del primo “romanzo storico” all’inglese Thomas Otway che nel 1676 gli dedica un dramma di successo. Fino ad Alfieri e Schiller al quale nel 1865 si ispirano i librettisti di Verdi Joseph Méry e Camille du Locle. Anche quando la polemica antispagnola si spegne Don Carlos resta emblema della libertà contro l’assolutismo dogmatico e bigotto. Ma la realtà fu tutt’altra. Scriveva il consigliere Ruy Gòmez: “Il cervello del principe era più deformato del suo corpo”. In famiglia c’erano già stati casi di follia, il più celebre quello della bisnonna di Carlos, Giovanna la pazza, anche lei allontanata dal potere e reclusa.

Ci hanno venduto Don Carlos come una specie di Amleto spagnolo, ma fisicamente ricordava di più Riccardo III. Era il risultato di una sfilza di matrimoni endogamici. Con un coefficiente di consanguineità di 0,211 –hanno calcolato pure questo- era quasi come se fosse nato da un’unione tra fratello e sorella. Nel melodramma verdiano il principe è un fan del nonno, l’augusto Carlo V, contrapposto al “plumbeo” Filippo. Ed è vero che Don Carlos mitizzava l’Imperatore. Ignorava che, dopo averlo visto per la prima volta ragazzino deforme, Carlo V aveva commentato: “questo fatelo vedere in giro il meno possibile”.

       Marco Cicala