E Gian Lorenzo Bernini scherzava con i potenti

E Gian Lorenzo Bernini scherzava coi potenti

Il grande architetto e scultore coltivava una passione per le caricature, che non risparmiarono neppure i papi. Un libro le raccoglie mostrandoci i vizietti di un’epoca.

 

Cesare De Seta pubblica un articolo nel “Venerdì di Repubblica” dell’8 gennaio 2016 , alle pp. 96-99, che sviluppa una fenomenologia dell’umorismo da sacrestia. Alcuni arditi interpreti del clericalismo si spingono a sostenere che, se pensata e descritta con un po’ di goliardia, l’istituzione clericale sarebbe percepita decisamente meno peggio di come appare. E infatti, uno dei grandi santi della “riforma cattolica” post-tridentina, San Filippo Neri, con le barzellette faceva catechismo, predicava e diceva pure Messa. Sostiene taluno che “dal VI secolo a tutto il 1300 (anzi, in alcune nazioni fino al 1911, quando la Frankfurter Allgemeine Zeitung ne stigmatizzava ancora la pratica in alcune parrocchie della Stiria, tra Austria e Slovenia) il culmine della settimana santa era il “risus paschalis”, momento in cui il parroco saliva sul pulpito e raccontava barzellette per nulla edificanti”. Anche a Firenze c’erano di queste usanze e ne fa cenno Dante nel XXIX canto del Paradiso: “… or si va con motti e con iscede / a predicare, e pur che ben si rida,/ gonfia il cappuccio e più non si richiede”; “sì che le pecorelle, che non sanno,/ tornan del pasco pasciute di vento,/ e non le scusa non veder lo danno”. Sta parlando Beatrice e sta attaccando i preti e i frati: “Ora invece i predicatori vanno in giro a distribuire battute e spiritosaggini, e purché gli ascoltatori ridano, il loro cappuccio si gonfia di vanità, e a loro –a questi comici ambulanti- non si chiede altro”; “così che il gregge dei cristiani, che non sa la verità, torna dal pascolo dello spirito riempito di vento, e il fatto che ignori l’inganno non lo salva dalla condanna”, vv. 115-117, 106-107. In fondo, il lungo cammino della secolarizzazione dell’Occidente inizia agli albori del 1900 quando il “ridere” rapidamente e irreversibilmente si laicizza.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Ci sono artisti nati sotto il segno di Saturno e non c’è dubbio che Giovan Lorenzo Bernini è tra i dominatori del Seicento, del secolo d’oro: fu un enfant prodige, e a soli dieci anni ebbe l’occasione di incontrare papa Paolo V Borghese che ne aveva sentito dir meraviglie. Questi ordinò di disegnare una testa: il ragazzo prontamente chiese se volesse un uomo o una donna, giovane o vecchio, se l’espressione doveva esser mesta o allegra, “sdegnosa o piacevole”: il papa gli chiese un San Paolo. Il ragazzo, nello scrittoio dinanzi al papa, fece il suo compito in men che non si dica, e Paolo V, rivolto ai cardinali presenti, ammirato disse: “Questo fanciullo sarà il Michel’Angelo del suo tempo”. Fu buon profeta: perché Bernini, sotto la guida del padre Pietro, scultore, esordì nella scultura, poi passò all’architettura e si dedicò alla pittura con autoritratti di grande perizia. E’ un bel giovane dal temperamento tanto focoso da far sfregiare l’amante Costanza Bonarelli, bellissima e infedele. Nella sua lunga vita servì nove papi e con le sue prodigiose mani modellò pietra, marmo, bronzo; persino l’acqua divenne materia delle sue composizioni come attestano le fontane disseminate per Roma. Non a caso Filippo Baldinucci (1682) scrisse: “E’ concetto molto universale, ch’egli sia stato il primo che abbia tentato di unire l’Architettura, con la Scultura, e Pittura in tal modo, che di tutto si facesse un bel composto”: all’ammirazione del biografo si perdona di aver dimenticato Michelangelo. Ma dal tempo di Cennino Cennini il disegno è fondamento di ogni arte: i biografi –da Baldinucci a Paul Fréart de Chantelou al figlio Domenico- sottolineano la destrezza del suo disegnare. Domenico aggiunge un dettaglio: non si deve trascurare –scrive nella biografia (1713)- che operò “in quella sorta di Disegno che comunemente chiamasi col nome di Caricatura”.

Il genere al suo tempo ebbe rinnovata fortuna con Annibale Carracci e il cardinale Ludovisi nel 1632 ne aveva donato trentadue di Bernini ad un amico e furono date alle stampe nel 1646. La definizione di caricatura più efficace la dà il Baldinucci: “una sorta di disegno… di colpi caricati, deformando per ischerzo a mal modo l’Effigie altrui in quelle parti però, dove la natura aveva in qualche modo difettato, li rendeva sulle Carte simicissimi, e quali in sostanza essi erano benché se ne scorgesse notabilmente alterata, e caricata una parte”. Forse l’inclinazione all’ischerzo buffonesco l’ereditò dalla madre napoletana più che dal padre fiorentino.

Bernini, tra i tanti talenti, ebbe anche l’arguzia di alterare la fisionomia di papi, cardinali, principi, amici e nemici. La ricerca di quante caricature abbia disegnate è impresa disperata, ma un punto fermo lo pongono Manuela Gobbi e Barbara Jatta nel volume “I disegni di Bernini e della sua scuola nella Biblioteca Apostolica Vaticana”, premessa di Paolo Portoghesi, 2015: un’opera monumentale di grande formato e di 615 pagine che provo a sfiorare, privilegiando l’aspetto minore della caricatura, ma non meno significativo perché esalta la sagacia dell’occhio e l’efficacia del tratto rapidissimo. La Vaticana possiede 16 fogli, altri sono tra Roma, Lipsia e in collezioni sparse nel mondo. In essi il maestro mette alla berlina personaggi illustri o ignoti: l’autografia talvolta è incerta perché venivano replicate dai giovani di bottega. Il figlio ricorda che il padre donava queste caricature con liberalità e molte erano in casa quando morì. Ma non bisogna pensare che l’autore non desse rilevanza a questa mano, per così dir sinistra, ed è stata rimarcata l’autonomia estetica del disegno che raggiunge livelli alti come si vede nell’autoritratto senile di Windsor o in quelli del fondo Chigi in Vaticana.

Lo sberleffo e il lazzo diviene irriverente nella caricatura a penna di Innocenzo XI ammalato e ripreso in un lungo letto: il corpo è appoggiato a cuscini, con le gambe piegate, il volto sembra quello di un uccello e il capo gravato dalla tiara, la mano scheletrita. Bernini ha 78 anni, disegna con mano incerta il pontefice, ma la caricatura ha un’inequivocabile intenzionalità satirica: d’altronde Innocenzo XI fu quello che gli ordinò di demolire il campanile per San Pietro che procurò al maestro grande amarezza. Nel foglietto si vendica di un papa con il quale ebbe un rapporto conflittuale. Non potendo sfiorare lo “gliommero” –direbbe Gadda- dei fondi in Vaticano e dell’autografia di ogni foglio, segnalo quanto scrive il figlio Domenico: il padre aveva in gran conto le caricature perché esse erano invenzioni rare “non essendo giuoco da tutti, ricavare il bello dal deforme, e dalla sproporzione la simmetria”.

Sull’autografia di una delle due caricature del cardinale Scipione Borghese non ci sono dubbi: tanto è stringente la somiglianza con il busto in marmo (1632) quando Bernini lo scolpì. Ma nei pochi efficacissimi tratti non c’è malizia, quanto bonomia simpatetica con un amico che tanto ne apprezzò il genio da riempire la sua villa di suoi celeberrimi marmi. La caricatura di “Cantante e suonatore di violino” è davvero napoletana per quel burlesco che c’è nel piccolo violinista seduto e il cantante allampanato con il volto baffuto da maschera che allontana lo spartito essendo miope. Il tema alto-basso ritorna nella caricatura dei “Due prelati”: uno è magro come un’acciuga con una pretenziosa parrucca e le grosse mani inducono a un gesto che si direbbe di ammonimento rivolto al prelato grasso che troppo inclina ai piaceri della tavola. La caricatura di Francesco Barberini sembra alludere, nella sua magrezza, a una sensibilità ascetica. Ci sono volti di cavalieri, c’è il calvo e quello con i baffetti sorridente e compiaciuto di sé: quasi che Bernini voglia così costruire una sua personale commedia dell’arte.

 

                                                        Cesare De Seta