Estasi. Desiderio di Dio. “Santa Teresa” del Bernini nell’interpretazione di Silvia Ronchey

Estasi. Il desiderio di Dio.

Gian Lorenzo Bernini, “Estasi di santa Teresa”, Roma

 

Teresa è tornata. E noi possiamo finalmente tornare a trovarla, emergere dal traffico romano di largo Santa Susanna, tra piazza Barberini e la Stazione Termini, e immergerci nella luce instabile, visionaria che il lungo restauro della Cappella Cornaro, nel transetto sinistro della chiesa di Santa Maria della Vittoria, ha ripristinato com’era stata concepita a metà del Seicento dal Bernini, quando ultimò quella che considerò la sua opera migliore. Un’opera estrema, poiché estrasse dalla materia della pietra l’uscita stessa dal mondo materiale: l’estasi.

Ek-stasis, in greco “fuoriuscita”. Per Teresa de Ahumada, mistica, scrittrice, dottore della Chiesa cattolica, nata ad Avila da una nobile e colta famiglia della gran Spagna cinquecentesca, tutto cominciava con una specie di urlo alle orecchie. Poteva durare pochi minuti o tutto un giorno e l’anima, scrive Teresa, si comportava come un ubriaco, ma non tanto da perdere i sensi. Era un rapimento, spiega, non uno svenimento. Una sospensione in cui si dispiegavano inspiegabili visioni. Lo splendore della visione era come luce infusa, come quella che avrebbe il sole se fosse schermato da tessuti olandesi. Il rapimento, o estasi, riferisce Teresa, toglie il fiato, le mani e il corpo si raffreddano, alcune volte non si sa neppure più se si respiri. Si esce dal corpo, ma la persona non muore. Con la velocità con cui il proiettile esce dall’archibugio quando gli si dà fuoco, si alza un volo interiore, che pur non producendo rumore provoca un movimento così evidente da non poter essere scambiato per illusione. Quando l’anima è in questo stato, racconta Teresa nella sua autobiografia, e brucia in se stessa, accade spesso che le arrivi, non si sa come né da dove, un colpo simile a una saetta di fuoco. Non dico sia proprio una saetta, si corregge, ma qualunque cosa sia non viene chiaramente dalla nostra natura.

In questo stato, spiega la santa, la persona avverte una solitudine particolare. Si sente come a mezz’aria, non può salire né scendere. Può sembrare veramente morta e questo non deve meravigliare, perché il pericolo di morte è reale. Il fenomeno, anche quando dura poco, lascia tutto il corpo slogato e i polsi completamente rilasciati. Ormai non si tratta più di morire una volta sola, ma di vivere stando sempre in punto di morte.

Così appare, nella cappella di San Francesco a Ripa, la Beata Ludovica Albertoni, seconda estasi berniniana; così la Maddalena in estasi di Caravaggio. E così, semidistesa sulla nuvola della sua levitazione, né morta né viva tra le pieghe contorte e vorticose (Gombrich) di una veste che ricade senz’ordine, quasi avvolgesse un vuoto, sotto la dura pioggia di raggi dorati appare Teresa nella cappella di Federico Cornaro. E’ lì lì per essere transverberata dall’Eros divino, che con la sua lancia di fuoco –come pure si legge in uno dei passi della sua autobiografia- la penetrerà infliggendole un dolore così bruciante e insieme così appagante da non volerne essere liberata. Una petite mort, si direbbe – una piccola morte in senso tecnico. Lo stesso senso in cui gli antichi chiamavano mikre epilepsia, una piccola epilessia, l’orgasmo sessuale. E il dubbio di una componente epilettica, di un ruolo del morbo sacro nel prodursi delle condizioni di ekstasis che pervadono non solo il mondo delle sante mistiche occidentali, di Teresa e Caterina e delle tante loro compagne, ma già ben prima il mondo greco classico –l’estasi dionisiaca- è dato dalla posizione del collo. Guardate la Menade di Skopas o il Satiro danzante di Mazara del Vallo. O pensate al collo piegato di lato dei dervisci rotanti immersi nell’estasi sufi.

E’ lunga la storia dell’estasi, quanto quella dell’umanità, sperimentata nei più diversi tempi e luoghi, ma le descrizioni del modo di raggiungerla, e le raffigurazioni dell’atteggiamento che il corpo assume quando l’essere umano è in questa condizione, sono sorprendentemente simili. Che si tratti delle testimonianze sulla Pizia o sulla Sibilla –la cui migliore rappresentazione è forse la “Santa Cecilia in estasi” di Raffaello- o della dettagliata trattazione di Plotino- sulle cui orma invano cercò l’estasi Agostino- o di quel fondersi del microcosmo umano col macrocosmo perseguito dalle discipline di meditazione orientali –buddhiste e non solo- o della routine della accademie platoniche tardo antiche e bizantine, prolungate in quelle del Rinascimento, dove l’insegnamento esoterico dell’estasi era specificamente impartito come annullamento di sé e identificazione con l’anima mundi; che sia un’estasi raggiunta in visibile trance, alla maniera antica, o un’uscita da sé più intima, più agostiniana, come quella che produce in noi ogni atto di ascolto, di contemplazione, di sospensione –qualunque la nostra estasi sia, Teresa è lì a ricordarci- se emergiamo dal traffico di largo Santa Susanna, se ci fermiamo a trovarla- che è una condizione umana e possibile.

                                                                           Silvia Ronchey

 

L’articolo è stato pubblicato nella “Repubblica” di venerdì 24 dicembre 2021, a pag. 27.

 

Sin qui la bella e meditata riflessione di Silvia Ronchey. Io vorrei aggiungere qualche dettaglio per spiegare la bellissima scultura del Bernini.

Lo scultore rappresenta la santa, al centro di un’ancona-palcoscenico, riversa nell’estasi mentre un angelo adolescente le trafigge il cuore con un dardo d’oro, simbolo dell’amore divino. Il gruppo è concepito come un grandioso altorilievo, sospeso nell’aria e nella luce che, spiovendo dall’alto attraverso una fonte nascosta, si materializza in raggi dorati. Il candore del marmo e l’intensità della luce esaltano il valore spirituale dell’esperienza mistica e il turbamento dei sensi, proponendo una formula sensuale ed emotiva di grande effetto. Ai lati, al fine di rivelare il gioco teatrale dell’intera composizione, sono ricavati due palchetti prospettici dai quali si affacciano i ritratti dei committenti, la famiglia Corner, enfatizzati dalla ricchezza policroma dei materiali impiegati. Nessun dubbio, questo è teatro. Bernini ne è cosciente, non solo non lo nasconde ma lo enuncia con tale chiarezza che pone il gruppo in una rientranza sopraelevata come un palcoscenico e, sui due lati, scolpisce in rilievo i membri della famiglia Corner, entro logge in prospettiva, affacciati e sporgenti da parapetti, come se assistessero e commentassero uno spettacolo da palchetti teatrali. Nel ‘600 tutta la realtà è vista come rappresentazione; non a caso negli stessi anni Calderòn intitola una delle sue opere Il gran teatro del mondo; noi non sappiamo mai se ciò che vediamo è realtà o immaginazione; “in questa vita tutto è verità e tutto è menzogna, la vita non è che un’illusione, una finzione, un’ombra, tutta la vita è sogno”. Il grande autore teatrale ci convince che ciò che dice è vero e il grande attore rende credibili le sue parole, anzi può addirittura farci partecipare al dramma fino a farci commuovere intensamente; ma, anche in quello stesso momento, noi siamo perfettamente coscienti della finzione scenica. Questo è il significato di questa recita berniniana: finzione e realtà, realtà e finzione si scambiano continuamente in un gioco intellettuale del quale anche lo spettatore è chiamato a far parte.

Come può l’attore rendere visibile in modo chiaro, davanti agli occhi di tutti, ciò che è invisibile, l’amore divino, se non con gli atteggiamenti del suo corpo, che è reale fisico, e che quindi non può non richiamare all’amore carnale? Del resto questa mescolanza di spiritualità e sensualità è tipica del misticismo teresiano. Rileggiamo alcune frasi scritte da lei: ”Certi slanci d’amore segreti ma infuocati mi dicono chiaramente che è il mio Dio che mi dà vita… sento vivissimamente tali trasporti amorosi… Dio fa scaturire in copia il latte delle celesti consolazioni, che infonde nuova vita, non solo nelle potenze dell’anima ma anche nei sensi del corpo”. Bernini doveva conoscere questi scritti e soprattutto un passo di una lettera inviata da Teresa al suo padre spirituale: “l’anima mia si riempiva tutta d’una gran luce, mentre un angelo sorridente mi feriva con pungente strale d’amore”. Proprio così l’ha rappresentata lo scultore: caduta in deliquio, le vesti scomposte, le palpebre abbassate, la bocca dischiusa, tutta palpitante d’amore, mentre un angelo, col sorriso sulle labbra, quasi un eros alato, sta per frecciare il suo cuore.

Ma il gruppo non può essere estrapolato dalla cappella di cui costituisce il fulcro: all’evento soprannaturale che si svolge sull’altare, la cui incorniciatura architettonica si apre come un boccascena, assistono i Corner dai palchetti laterali in cui Bernini ha trasformato le tradizionali tombe gentilizie. I Corner sembrano veri e vivi spettatori.  Sotto il pavimento c’è la tomba di famiglia e sulla copertura della volta due scheletri, eseguiti a intarsio marmoreo, sembrano gesticolare stupiti dall’evento miracoloso. In quella visione paradisiaca verso la quale ansiosamente tendono anche gli scheletri dei morti, figurati come risorgenti nei tondi di marmi del pavimento. Lungo le pareti laterali, sopra le porte, compaiono otto membri della famiglia Corner dietro a inginocchiatoi simili a palchi di teatro: come abbiamo già scritto, finzione e realtà si sovrappongono e i destinatari dell’opera insieme ai devoti spettatori sono testimoni di un fatto sovrumano che conferma l’esistenza divina e l’intercessione della santa per la salvezza dell’anima dei defunti. L’idea dei personaggi defunti da tempo, che assistono come viventi all’estasi della santa, esalta il carattere di epifania devozionale dell’intero complesso.

                                                                  Gennaro  Cucciniello