Europa e migranti: l’ultima frontiera

Europa e migranti: l’ultima frontiera.

E’ in libreria “Vergogna ed esclusione. L’Europa di fronte alla sfida dell’emigrazione”, di autori vari e curato da Umberto Curi, editore Castelvecchi, Roma. Analizzare il fenomeno dell’emigrazione in termini realistici, studiare i dati oggettivi in cui esso si traduce, inquadrare la questione dei flussi migratori nel contesto della distribuzione delle risorse a livello planetario, descrivere lo scenario economico, demografico e sociologico che ci attende nei prossimi decenni: è questo il progetto alla base del libro.

Qui si anticipa la sintesi dei saggi di Umberto Curi e Stefano Allievi, tratta da una pagina de “Il Corriere del Veneto”, supplemento de “Il Corriere della Sera” di domenica 12 febbraio 2017.

 

Le nuove famiglie che cambiano il mercato del lavoro

La storia è storia di migrazioni. E comincia da lontano: nella preistoria. Quando in seguito a profonde mutazioni climatiche e ambientali, che causarono la scomparsa di specie vegetali e lo spostamento di alcune specie animali, nel Pleistocene, iniziarono i primi significativi movimenti migratori dei nostri antenati. Un processo che, da allora, non si è più interrotto.

Ha cambiato spesso caratteristiche, dimensioni, entità, scopo, ma, come fenomeno, ha accompagnato la storia e l’evoluzione dell’umanità: l’uomo è un essere che cammina –homo viator- in molti sensi (se facciamo pari a 24 ore la storia dell’uomo sulla terra, ha vissuto qualcosa come 23 ore e 55 minuti come nomade, in tribù cacciatrici e raccoglitrici, e solo 5 minuti da sedentarizzato). Oggi viviamo una fase di aumentata mobilità (di merci, denaro, informazioni, ma anche persone), al punto che essa è diventata un valore, anche monetizzabile: non a caso è caratteristica più delle élite che dei ceti popolari (i più ricchi del mondo si muovono assai più dei più poveri), ed è divenuta fattore vincente sul mercato del lavoro (nel mondo ricco prima ancora che altrove), e persino invidiato status symbol.

Ma quelli che ci colpiscono di più sono ovviamente gli spostamenti di manodopera. Antichi, certo. Solo che prima andavano dall’Europa ad altri luoghi di dinamismo che avevano bisogno di manodopera: non solo sviluppati, ma da sviluppare. Oggi vengono verso l’Europa: ma vanno anche un po’ in tutte le direzioni, in maniera segmentata. Entrano alcuni tipi di persone e categorie di lavoratori, e ne escono altre. Secondo lo sviluppo di nuove domande e di nuovi bisogni. Creando nuovi problemi. E, in prospettiva, nuove soluzioni ai medesimi. Che in parte dobbiamo ancora, faticosamente, trovare. E non sarà facile.

Perché l’immigrazione non è solo un fatto quantitativo. Anzi, è soprattutto e in primo luogo un fatto qualitativo. E’ per questo che è così controverso, che suscita reazioni così viscerali, istintive. Tocca interessi e problemi economici. Ma soprattutto implica trasformazioni sociali e culturali rilevanti, che nella letteratura specializzata hanno molti nomi e svariate sfumature: socializzazione, integrazione, assorbimento, assimilazione, inclusione, co-inclusione –e d’altro canto rifiuto, intolleranza, rigetto. Non tocca solo il mondo del lavoro, da non intendersi solo nell’accezione ristretta di “mercato” del lavoro, ma include il mondo della cultura, delle relazioni, delle emozioni.

Come notava Max Frisch a proposito degli italiani in Svizzera: “aspettavamo braccia, sono venuti uomini” –le persone a cui la manodopera è dopo tutto attaccata. E con essa il suo modo di vivere, di pensare, di mangiare, di pregare, di amare. E, con gli uomini (spesso, ma non sempre, dopo gli uomini) anche le donne, le famiglie, i figli, nuove culture che si incontrano, si scontrano, si mischiano, si trasformano. Creando una situazione inedita: per molti versi ancora tutta da analizzare, nei suoi costi e nei suoi benefici.

                                                        Stefano Allievi

 

La scelta sbagliata fra accoglienza e respingimento

 

Da qualche tempo, nel dibattito in corso sull’emigrazione, si è imposta una distinzione, sostanzialmente accolta senza rilevanti differenze. Da un lato vi sarebbero i “rifugiati” o i profughi, ai quali i trattati internazionali (già a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951) riconoscono il diritto di asilo. Dall’altro lato si collocano i cosiddetti “migranti economici”, esuli dai loro paesi perché spinti dal tentativo di migliorare il loro livello di vita. La dicotomia ora enunciata non fa che riprendere (senza peraltro approfondirne il significato originario) la cosiddetta push-pull theory, elaborata dal demografo di origini ungheresi Egon Kunz. Con una differenza fondamentale. Mentre lo schema proposto dallo studioso corrispondeva ad un puro intento classificatorio, la distinzione adottata dall’Unione Europea trasforma una polarità descrittiva in una valutazione prescrittiva. Suscitando un problema al quale finora non è stata riservata la dovuta attenzione e che può essere formulata nei termini seguenti. Per quale motivo, razionalmente definibile, una persona che cerca di fuggire dalla prospettiva statisticamente assai probabile di morire di fame deve essere considerata meno degna di aiuto rispetto a chi tenta di sottrarsi ai pericoli della guerra? Quale più stringente obbligo sul piano dell’accoglienza può derivare quando si è in presenza di comportamenti che obbediscono in ogni caso all’esigenza di tutelare la propria incolumità? Per dirla in termini più rozzi, ma anche più espliciti: perché chi rischia di morire per fame non merita lo stesso trattamento di chi rischia di morire a seguito di bombardamenti? Nel rispondere agli interrogativi ora formulati è bene tenere presente che la radicalizzazione delle differenze tra le due tipologie di migranti non ha condotto semplicemente a quella che si potrebbe chiamare una “graduatoria” fra coloro che abbandonano il loro paese, tale per cui i rifugiati sono soltanto favoriti, rispetto agli “economici”. Perché invece ciò che è accaduto è che ai primi viene riconosciuto un diritto, mentre i secondi giungono ad essere stigmatizzati come veri e propri delinquenti. Altro sarebbe, infatti, concedere ai richiedenti asilo una sorta di diritto di precedenza (per quanto anch’esso per molti aspetti discutibile); tutt’altra cosa è riservare agli uni l’accoglienza e agli altri il respingimento.

Tirando le somme del percorso fin qui abbozzato risultano alcune conclusioni per molti aspetti intuitive. Il tentativo in atto in molti paesi europei, in larga misura legittimato dalle direttive della UE, di governare il fenomeno migratorio applicando in forma prescrittiva lo schema binario push-pull come criterio di inclusione o esclusione, è in realtà privo di ogni giustificazione, non solo dal punto di vista etico, ma anche sotto il profilo scientifico e giuridico. Appurata l’inconsistenza della dicotomia assunta come sistema di riferimento concettuale, ciò che emerge è il tentativo di conferire legittimità a una molteplicità di prassi discrezionalmente stabilite e spesso arbitrariamente applicate. Più ancora: ciò che emerge è la miseria culturale di un’Europa incapace di reggere l’impatto del fenomeno migratorio dal punto di vista psicologico e intellettuale, prima ancora che sul piano strettamente politico e normativo. La distinzione fra profughi ed “economici” si manifesta insomma per quello che è: un maldestro e inconcludente tentativo di mascherare una radicale inadeguatezza, teorica e politica, trasformando in norma discriminante un banale schema classificatorio, inidoneo a conferire legittimità a scelte e comportamenti ondivaghi, dettati dalla necessità di far fronte a un’emergenza soverchiante.

                                                                  Umberto Curi