Ezio Mauro interroga i protagonisti del 1917 russo.

Un cronista a caccia di “Ottobre rosso”

L’inquietante Rasputin, l’infelice zar Nicola II, il “diabolico” Trotzkij… I protagonisti del fatidico 1917 nel racconto di Ezio Mauro: “Per me la Russia è amore e tormento”.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 13 ottobre 2017, alle pp. 126-129, Antonio Gnoli intervista Ezio Mauro, autore del saggio “L’anno del ferro e del fuoco”, Feltrinelli.

 

Il più grande fraintendimento della rivoluzione del 1917 si produsse, quasi in tempo reale, nei destini di quegli intellettuali e scrittori che vi presero parte. La fulgida ascesa della rivoluzione si spense minacciosa nelle loro ombre. Passarono dall’euforia alla depressione, dall’entusiasmo alla delusione, dalle camere del popolo a quelle della morte. Almeno in certi casi. Altri finirono nei gulag. Qualcuno si suicidò. Qualcuno si normalizzò. Non è tutto quello che ricavo dalla lettura di “L’anno del ferro e del fuoco” (Feltrinelli), ma il termometro spirituale appare interessante per registrare la febbre rivoluzionaria che divampò come un fuoco di paglia tra le fila dell’intellighenzia russa: “Sono stati i libri di Akhmatova, Cvetaeva, Blok, Belyj, Berberova, Nabokov, Pasternak, Majakovskij, Rozanov e naturalmente Bulgakov” –dice Ezio Mauro- “la vera mappa di questo mio viaggio nella Russia di un secolo fa”.

Dallo scaffale del suo studio Mauro estrae alcuni libri. Li mostra a riprova di un impegno durato più di un anno, ma che alle spalle ha una lunga consuetudine con quel paese. Scorrono davanti ai miei occhi le copertine di vecchie e a volte preziose edizioni: “Rasputin” di Fulop-Miller, Kerenskij sulla rivoluzione russa e un altro sul massacro dei Romanov, due rare edizioni in lingua russa rispettivamente di Aleksandr Blok e Andrej Belyj. Sono attratto da una biografia di Lenin, dentro c’è un ritratto di lui fanciullo. Sembra un irriconoscibile bamboccio con appiccicata sulla testa una parrucca svolazzante. Non sembra esserci traccia del suo futuro. “E’ vero, ma anni dopo per sfuggire alla caccia che gli davano gli avversari, tra cui Kerenskij, Lenin si travestì proprio con una parrucca”, dice un po’ divertito Mauro.

In fondo anche tu per l’occasione hai usato il “travestimento” da cronista per indagare nella storia di quel grande evento.

Ma sai, è il mio mestiere. Se mi fossi proposto da puro storico con il ditino alzato, tra citazioni e rimandi in nota, sarebbe stato come offrire al lettore qualcosa che non mi apparteneva.

Sei riuscito nell’operazione singolarissima di tenere insieme il distante e il vicino. La storia di un secolo fa come se scorresse sotto il nostro naso.

Ho visitato i luoghi simbolo di quella rivoluzione, cercando di indagare su qualcosa che ancora resisteva all’usura del tempo: la testimonianza di una traccia o la voce di un racconto ormai remoto. In quei luoghi, di esaltazione e tragedia, di speranze vissute e tradite, ho provato a fare il cronista. Ho misurato, certo, la distanza da quel mondo, ma al tempo stesso ho colto l’impronta di quell’anno che ha custodito nomi, fatti, episodi trasfigurati a volte in leggenda.

Cosa ti ha guidato nel viaggio?

Anzitutto la scelta o meglio la riproposizione di un metodo di lavoro. A cominciare dallo studio della lingua russa. Inoltre, mi ha aiutato l’esperienza degli anni trascorsi come corrispondente a Mosca per Repubblica; infine il materiale raccolto e schedato –spesso pensieri e letture frutto di una fascinazione improvvisa e maturata nel tempo- ha costituito lo sfondo del lavoro.

Nei tuoi anni trascorsi a Mosca immaginavi di scrivere un libro così?

Avvertivo solamente che stava accadendo qualcosa cui non ero ancora in grado di dare una forma. Sensazioni contrastanti, prive di un’effettiva direzione. Poi, quando ho intrapreso il viaggio in quei luoghi, molte cose si sono risvegliate e quel tormento che, nel ricordo della Russia, mi aveva spesso accompagnato, come d’incanto si è placato.

Tormento è una parola impegnativa.

Non più di quanto possa essere l’innamoramento che del tormento è l’anticamera. Mi ero innamorato di un Paese che avrebbe cambiato il volto del ‘900 e che richiedeva lo sforzo di essere nuovamente guardato in faccia. Per questo sono tornato lì, consapevole che la Russia dice no a molte delle cose che vuoi sapere ma poi, generosamente, spalanca le sue porte.

Tu andasti via dall’Unione Sovietica poco prima della sua caduta.

Sì e per tutto il tempo che ne sono stato lontano ho avvertito il mistero delle cose incompiute.

Di una storia interrotta’

Diciamo non finita e da completare: con tutto quello che sapevo, e tutto quello che c’era ancora da apprendere. La sola cosa certa è che sarei dovuto tornare alle origini di quella storia: al 1917.

Hai scandito i mesi di quell’anno affidandoli ogni volta a un personaggio. Perché hai scelto come prima figura Rasputin?

Potrei risponderti per lo stesso motivo per cui chiudo il libro con il massacro dei Romanov. C’è un filo che si tende tra questi due capitoli che racchiudono l’esaltazione e la drammaticità di quell’anno. La morte di Rasputin avviene il 30 dicembre del 1916.

Cosa rappresenta ai tuoi occhi quella fine violenta?

Si tratta del vero inizio simbolico della rivoluzione. Mi affascinava la coincidenza dei tempi: lui –il monaco lussurioso, l’uomo di Dio ma anche il peccatore, il contadino siberiano semianalfabeta che strega la zarina- sulla porta del nuovo anno che non fa in tempo a vivere. Sembrava davvero che qualcuno avesse voluto scrivere una sceneggiatura sorprendente, dove i destini di uomini dall’immenso potere finirono nella polvere, per far posto ai nuovi.

Tra i personaggi che racconti, lo zar Nicola II è quello che ti suscita forse più compassione.

E’ una figura strana che mi ha sorpreso per certe sue punte di infelice modernità. Vorrebbe essere protagonista della sua storia e invece è costretto al ruolo di comprimario. Fino alla fine, quando insieme alla famiglia verrà travolto da un’esecuzione sommaria, non capisce cosa gli stia accadendo. Gli è più facile perdere la corona che l’autocrazia. Non è stato educato a governare un mondo, è stato educato a fare lo zar.

Conosce l’intimità del suo cuore ma non quella del suo Paese?

In questo è diverso dalle ambizioni della zarina, sospesa tra il senso di colpa di aver dato alla luce un figlio malato e l’ambizione di voler essere la nuova Caterina II. Ma gli sposi regali, nonostante tutto, si amano profondamente. Ci sono le centinaia di lettere che si scambiano a provarlo.

Tra i protagonisti della rivoluzione chi ti ha colpito di più?

Probabilmente Trotzkij, l’intellettuale che si lascia afferrare dal demone della storia. Lui è il vero stratega, l’orologiaio della rivoluzione che dà i tempi dell’insurrezione, che studia la logistica, che censisce le armi, valuta le forze in campo, assegna i compiti agli uomini, disegna la mappa dei punti nevralgici evitando lo scontro diretto.

Ma è anche quello che non sa leggere il futuro di quella rivoluzione.

Non poteva, credo, immaginare che il terrore di Stalin in pochi anni avrebbe divorato tutto, perfino la sua vita. Ma in qualche modo ne ha il presentimento quando, pensando a Lenin, si rammenta della frase di Plekhanov: “di questa pasta sono fatti i Robespierre della storia”.

La più delusa è l’intellighenzia russa.

Si sente tradita perché è stata educata nel culto del popolo a ribellarsi al potere. Sono anni eccezionali dal punto di vista della fioritura artistica.

Quello che racconti in poche pagine è un “fermo immagine” di alcuni protagonisti della vita culturale.

Mi interessava coglierli, quasi fisicamente, nel momento della rivoluzione in corso. Che cosa fanno? Come reagiscono? Cosa amano? Da dove fuggono? Nabokov, ad esempio, scappa perché ha più da perdere che da guadagnare: suo padre è stato segretario del governo provvisorio. A Nina Berberova improvvisamente si rovescia la vita: passerà in poche settimane dall’agiatezza borghese alla povertà assoluta. Alla Achmatova arrestano e condannano alla fucilazione l’ex marito, il poeta Gumelev. Majakovskij si suiciderà nel 1930. Mandel’stam morirà in un gulag nel 1938, dopo aver scritto: “Mio secolo, mia belva, chi saprà guardare nelle tue pupille?”.

Forse pochi avevano saputo leggere nella brutalità di quegli occhi.

Se ne resero conto dopo l’iniziale infatuazione. Bisogna sfogliare i “Taccuini” di Aleksandr Blok per capire, al riparo dall’ufficialità, il senso di una delusione radicale; l’avvicinarsi di una morte per denutrizione e soffocamento.

In fondo hai anche scritto un libro sui libri.

Ho provato a farli parlare, come ho cercato di far parlare certi luoghi. Sono stato sopra la collina di Kiev sulle tracce degli idoli distrutti; sono stato fuori Pietrogrado, nel bosco dove hanno bruciato i resti di Rasputin; ho ritrovato il punto esatto, proprio fuori della stazione di Pskov, dove si fermò il treno dello zar; sono stato nelle case dei protagonisti della rivoluzione e in quelle degli scrittori; ho visitato infine i posti intorno a Ekaterinburg dove fu trucidata la famiglia Romanov. Non era una forma morbosa di turismo, ma un bisogno di capire.

Capire cosa?

Che nessun altro Paese al mondo ha trafficato così intensamente tra la vita e la morte. Nessun regime, come quello che è crollato dopo 70 anni, ha speso un tale impegno per rimuovere il passato per vederlo poi rinascere, quasi involontariamente, sul proprio corpo. I nuovi potenti cercarono di abolire ogni culto delle reliquie, ma ci riuscirono talmente bene da farle rivivere nei loro simulacri. Guardando le mura del Cremlino, si ha l’impressione di stare nel più grande cimitero ideologico che la storia abbia prodotto.

Anche questo è sorprendente.

Tutto ci sorprende in questa enorme terra solo all’apparenza immobile. Ho cercato di attraversarla sapendo cosa avevo lasciato, ma non sapendo cosa avrei incontrato. In fondo, mi dicevo, le storie vanno raccontate se non vuoi che si perdano.

 

                                               Antonio Gnoli             Ezio Mauro