Fernand Braudel lo giudicava un bellissimo romanzo picaresco del ‘600

Nella Spagna del ‘600 c’è solo un Capitano!

Si chiamava Alonso de Contreras: fu soldato, pirata, frate, assassino, governatore. Ha scritto un bellissimo romanzo picaresco, secondo il giudizio di Fernand Braudel.

Undici giorni per raccontare una vita. Fu in quegli undici giorni dell’ottobre del 1630 che, chiuso in una locanda romana, il capitano Alonso Guillén de Contreras cominciò a mettere per iscritto i suoi quasi cinquant’anni di concitate avventure. Anni trascorsi per lo più al servizio del Re Cattolico spagnolo, da levantino, cioè da soldato, ma anche da frate eremita, governatore di paesi e città del Regno di Napoli, cavaliere dell’Ordine di Malta, corsaro, razziatore, puttaniere, assassino, giocatore, in lungo e in largo soprattutto per un Mediterraneo che, allora come adesso, era, nelle parole di Arturo Pérez-Reverte, “frontiera mobile di avventure, orrori e prosperità, cortile interno di Oriente e Occidente dove tutti si conoscevano, recinto delle potenze costiere che vi regolavano i conti in un miscuglio di corpi, spade, sangue e idiomi, rinnegando, negoziando e allo stesso tempo combattendosi con la tenacia consapevole, meticcia, crudele delle antiche genti”.

In quella locanda romana, in quei giorni di tregua nella vorticosa ridda delle sue peripezie, il capitano de Contreras non si impegna a scrivere la propria vita alla ricerca di allori letterari postumi o contemporanei. Butta giù quelle memorie con uno stile sobrio, velocissimo e privo di fronzoli, come uno dei tanti resoconti di veterani di guerra in cerca di vantaggi o benefici che si accumulavano negli uffici reali. E tuttavia, nonostante qualche inevitabile goffaggine, proprio lo stile disadorno con cui Contreras racconta scontri, abbordaggi, duelli, spedizioni, intrighi di corte e avventure amorose, ne rende piacevolissima la lettura; e tuttavia, ci dicono gli storici, quasi (quasi) tutto ciò che racconta è sostanzialmente vero, privo di spacconate o di omissioni.

Insomma, le “Avventure del capitano de Contreras” sono un vero e proprio tesoro per noi lettori del XXI secolo. Fernand Braudel lo ha descritto come il più bello dei romanzi picareschi, anche perché vissuto in prima persona; e quelle memorie hanno affascinato Leonardo Sciascia, Ernst Junger, Benedetto Croce, Javier Marias… Ma non saremmo qui a parlarne se, all’inizio del ‘900, un erudito spagnolo non avesse ritrovato quel manoscritto perduto e non lo avesse pubblicato sul bollettino della Real Academia de Historia, e se José Ortega y Gasset non lo avesse riproposto nel 1943 sulla “Revista de Occidente”, accompagnandolo con un importante saggio. Adesso lo ripubblica Longanesi (pp. 256, traduzione di Ettore de Zuani) con una prefazione, appunto, di Arturo Pérez-Reverte (che proprio a Contreras si è ispirato per creare il suo capitano Diego Alatriste, protagonista di una fortunatissima saga) e un’introduzione di Marco Cicala.

All’inizio del libro, Contreras dice di essere un uomo di famiglia povera, ma di “cristiani antichi”. Famiglia lungimirante se, a quei tempi, ha la preoccupazione di farlo studiare. “E sapeva già leggere e scrivere” ci dice Sciascia, “quando ammazza a colpi di coltello, come per giuoco, un compagno di scuola”. A tredici anni, con il padre morto, la madre che deve badare da sola a otto fratelli di cui lui è il maggiore, Alonso si arruola nelle truppe destinate alle Fiandre. All’alba del 7 settembre 1595 lascia Madrid, e da quel momento la sua vita sarà quasi sempre quella del soldato, dell’uomo d’azione, che –scrive Pérez-Reverte-, “in cambio di insidie e spargimenti di sangue” può lasciarsi alle spalle “una Spagna tenebrosa e triste, asfissiata da re, nobili e preti, per tentare la sorte in mari azzurri, sotto cieli luminosi, giocandosi la pelle sul tavolo della fortuna. Nella speranza di guadagnarsi una posizione, salire nella scala sociale, ottenere bottini e rispetto”.

In quel gioco duro Contreras, comunque non privo di un rigido senso dell’onore, è bravissimo: seppur con qualche rovescio di fortuna che sembra preso da un feuilleton ottocentesco e che lo porterà anche per qualche tempo in carcere, Alonso scalerà le gerarchie militari, otterrà bottini, soldi e riconoscimenti spaziando dal Mediterraneo orientale (del quale redigerà un precisissimo portolano, conservato alla Biblioteca nazionale di Madrid) a Malta, da Pantelleria alle coste berbere, dalla Spagna alle Fiandre, da Napoli a Palermo, dove racconterà in tre asciuttissime righe di aver ucciso la moglie e l’amante sorpresi a letto insieme.

Ma ugualmente essenziali e vertiginosi sono i suoi racconti sulle battaglie vinte o perdute, sulle false accuse di aver partecipato alla sollevazione dei Moriscos, sulla parentesi ascetica che lo porta al romitaggio, sulle sue incursioni nelle Indie occidentali, dove si scontrerà nientedimeno che con la flotta corsara di sir Walter Raleigh, sulle sue avventure al ritorno in Spagna come capitano di fanteria o come governatore di Pantelleria. Passato al servizio del Conte di Monterrey, viceré di Napoli, Contreras verra mandato a governare Nola, ed è da lì che ci fornirà una testimonianza di prima mano sulla rovinosa eruzione del Vesuvio del 1631. Si sposterà poi a Capua e all’Aquila, dove si scontrerà con i benestanti locali… Eccetera, eccetera, eccetera.

Da queste memorie si potrebbero ricavare diversi film in technicolor” scriveva divertito Ortega y Gasset nel 1943. E magari, diremmo oggi, una serie tv di infinite puntate, tutte mozzafiato. Perché in quelle 200 pagine è racchiusa tanta vita e tanta avventura da comprimere, come scrive Marco Cicala, “i limiti dello spazio-tempo fino a polverizzarli”. Una virtù, certamente; ma a volte ci sarebbe piaciuto che Contreras si fosse soffermato un po’ più a lungo su certi episodi. Come quello del suo incontro con Lope de Vega, il grande drammaturgo del Siglo de Oro. Sappiamo soltanto che i due si piacquero subito, forse perché anche Lope aveva trascorsi da soldato, da donnaiolo, da canaglia. Lope ospitò Contreras a casa sua per otto mesi e gli dedicò perfino la commedia “Il re senza regno”. E probabilmente fu proprio quella frequentazione a spingere Alonso a mettere mano alla penna, a riversare sulla carta le sue virtù da affabulatore, la sua lingua meticcia, la sua vita turbolenta e orgogliosa. Che, per fortuna, hanno attraversato i secoli per arrivare fino a noi.

Bruno Arpaia

Articolo pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 25 maggio 2018, alle pp. 98-99.