Gennaio 1921: la dannata scissione della Sinistra italiana.

Gennaio 1921: la scissione della Sinistra italiana

Lo strappo coi socialisti cento anni fa ha segnato per sempre il PCI e poi la Sinistra. Una “dannazione” dice Ezio Mauro. Che in un libro racconta un pezzo della nostra storia. E anche della sua.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 20 novembre 2020 Simonetta Fiori intervista Ezio Mauro in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro, “La dannazione”, Feltrinelli, pp. 192, euro 18.

 

Il grande romanzo della sinistra italiana comincia da un peccato originale che Ezio Mauro nel suo ultimo libro ha chiamato “dannazione”. E’ un sortilegio, una coazione a dividersi, che cent’anni fa –il 21 gennaio del 1921- trovò la sua culla simbolica nel Congresso di Livorno, con la scissione dei socialisti e la nascita del Partito Comunista d’Italia. La sua storia è consegnata a un’ampia bibliografia, me nessuno l’ha raccontata con lo sguardo di un grande giornalista che torna nei luoghi, conta i passi che dividono il Teatro Goldoni dal vecchio Teatro San Marco, cerca nei palchi a sinistra, nascosto nell’ombra, il busto di Gramsci e in platea, a destra, la barba lunga di Turati. “E’ una lezione che arriva da Nabokov”, dice Mauro dal suo studio romano, alle spalle una parete di libri dedicata alla Russia. “Sono i dettagli a trasformare un materiale inerte in qualcosa che merita di essere letto: li definiva “note a piè di pagina nel volume della vita” che rappresentano “una forma suprema di consapevolezza”.

Alle giornate congressuali, ricostruite sotto una luce inedita grazie a un’aggiornata ricerca archivistica, fa da controcanto la tumultuosa storia del socialismo italiano, all’ombra del pericolo fascista che avanza. Una vicenda drammatica che, nell’eterno conflitto tra radicalità e riformismo, avrebbe segnato l’intero Novecento. E dove le ragioni della storia faticano a trovare quelle della politica. A questa epopea della sinistra non è estraneo l’autore, direttore prima della Stampa e poi per vent’anni di Repubblica, di cui è oggi editorialista. “Posso dire di aver sempre cercato la sinistra. L’ho cercata soprattutto attraverso il mio lavoro”.

Partiamo dalle convulse giornate di Livorno. Il congresso rappresentò una novità nella politica italiana.

Per la prima volta comparve una cinepresa a un congresso di partito. E, davanti al teatro Goldoni, i leader venivano immortalati dal fotografo ufficiale con i lampi di magnesio. Fu un grande spettacolo nazionale, ma soprattutto fu una pagina inedita della storia politica: non era mai accaduto che una rivoluzione venisse discussa in pubblico, sotto gli occhi di migliaia di carabinieri,  soldati e guardie regie che presidiavano il campo.

Nel libro riveli che c’erano molti agenti segreti in azione. E’ un aspetto che non è mai stato raccontato.

Ci fu un intenso lavorìo tra prefettura, questura e ministero degli Interni per intercettare le conversazioni telefoniche dei congressisti accorsi a Livorno. Dovettero dirottare il controllo sulla centrale di Pisa perché nella sede telefonica di Livorno la maggior parte dei lavoratori era iscritta “ai partiti estremi”. Questo fa capire come il potere liberale considerasse i socialisti degli eversori. E d’altra parte, indipendentemente dalle correnti –riformista, massimalista e comunista- non c’era nessuno che non si considerasse rivoluzionario.

La rivoluzione russa era arrivata con una forza irresistibile.

Era stata una formidabile spallata ai tempi della storia, come se improvvisamente si fosse accorciato l’orizzonte socialista e la rivoluzione fosse a portata di mano. Anche Filippo Turati non aveva saputo resistere al fascino rivoluzionario di Kerenskij, come dimostrano le lettere scambiate tra il 1917 e il 1918 con la compagna Anna Kuliscioff. Poi entrambi avrebbero preso le distanze dalla fase bolscevica.

Fu Lenin a chiedere l’espulsione della corrente riformista. La scissione nasce da questo.

In larga maggioranza il partito votò contro l’ultimatum di Mosca e la frazione comunista abbandonò il teatro Goldoni per andare a fondare il nuovo partito nel vicino teatro San Marco. La cosa sorprendente è che il congresso sembra ipnotizzato da se stesso, incapace di capire ciò che accade nel Paese: lo squadrismo fascista è già molto attivo ed è singolare che rimbalzi pochissimo dentro il teatro. Nel profluvio di parole, che i congressisti si scagliano addosso, il concetto di libertà non appare quasi mai. In pochi avvertono il pericolo fascista che avanza.

Quasi tutti pensavano che fosse un fuoco di paglia destinato a spegnersi. Solo due anni dopo, in una lettera a Togliatti, Gramsci definirà la scissione di Livorno “il trionfo della reazione”.

Lo dice anche Giacinto Menotti Serrati in una lettera inedita a Jacques Mesnil che ho trovato negli archivi della Fondazione Feltrinelli: “Ci divoreremo tra di noi e la borghesia finirà per avere qualche poco di pace”. Non sappiamo se la storia avrebbe cambiato il suo corso, ma certo le divisioni all’interno del movimento operaio favorirono l’ascesa del fascismo. Nel 1919 Mussolini aveva avuto un risultato elettorale molto deludente.

A Livorno viene sancito un destino permanente della sinistra italiana che è la condanna a dividersi. Un sortilegio che si ripeterà nel tempo.

In realtà la dannazione si era presentata fin dal principio: già nel 1892 a Genova, nel congresso che dà origine al Partito dei lavoratori, Turati e Prampolini avevano invitato gli anarchici ad andarsene. E ancora nel 1912 c’era stata un’altra scissione con la cacciata dei gradualisti tra cui Bissolati e Bonomi.

Il conflitto tra riformismo e radicalità è una costante della sinistra. Vittorio Foa tendeva a rappresentarla con la sua consueta ironia: tra riformisti e rivoluzionari non c’è alcuna differenza perché i riformisti non fanno le riforme e i rivoluzionari non fanno la rivoluzione.

Foa è stato uno dei miei punti di riferimento. Ma ora mi viene in mente la battuta di un dirigente locale: “Il socialismo è quello che il suo tempo lo fa”. E’ la storia che di volta in volta privilegia la componente riformista o quella “intransigente”. Se uno reinterpreta quegli accadimenti con il senno di poi –ma è troppo facile!- le ragioni della storia sono dalla parte di Turati, del suo gradualismo riformista. Il problema è che il leader socialista non riesce a tradurle in una pratica politica. E queste ragioni non gli vengono riconosciute nel momento in cui vive.

E’ evidente la tua simpatia per Turati.

Sì. Ma sono affascinato anche da una figura per molti aspetti agli antipodi che è Antonio Gramsci. Entrambi non sono solo dei militanti, ma provano a mettere in campo una teoria politica. Quella gramsciana dei Consigli di fabbrica incontrò molte diffidenze nel partito e nel sindacato. Fu messo sotto accusa per il fallimento della stagione rivoluzionaria con l’occupazione delle fabbriche a Torino. Ed è anche per queste critiche che Gramsci non parlò al congresso. Nonostante il suo nome sia stato invocato più volte dalla platea, preferì non sporgersi dal palco.

A proposito della dannazione, tu scrivi che è come se la dinamica dei corpi sociali fosse indipendente dalla teoria. I socialisti predicano fratellanza e solidarietà, ma non riescono a praticarla, dividendosi costantemente in fazioni.

Lo facevano anche nel cristianesimo. Il socialismo è stato un’infaticabile fabbrica di teorie e di modelli sociali, ma ha finito per prevalere il settarismo: ogni corrente ha ritenuto che il proprio modello ideale fosse migliore di quello degli altri. Da qui deriva la tragedia della sinistra italiana: gli avversari dentro lo stesso campo politico diventano i principali nemici. Ed è un destino che ha colpito anche la mia generazione.

Nel libro racconti come nasce la scintilla socialista. Ma in te quando è scoccata la fiammella della sinistra?

Il primo a parlarmi di politica è stato uno zio che abitava accanto a casa mia a Dronero. Era anticlericale come mio padre e lo ricordo seduto in poltrona immerso nella lettura dell’”Espresso” formato lenzuolo.

Un liberale di sinistra?

No, decisamente un uomo di sinistra. Poi sono andato avanti confusamente per conto mio. Con un vantaggio enorme rispetto alla leva precedente: la mia generazione è arrivata alla politica adulta con il ’68 e l’invasione della Cecoslovacchia per cui non ha dovuto sciogliere il nodo del sovietismo. Ci siamo tutti battezzati alla politica diventando contemporaneamente di sinistra e antisovietici.

Tu facevi politica?

No, non direttamente. La facevo attraverso i giornali che inventavo ovunque io fossi: prima in collegio, poi al liceo, e nel mio paese, dove ancora escono regolarmente alcune di quelle testate. La prima volta fu in terza media: ero compagno di classe del figlio del tipografo di Dronero che aveva un ciclostile. Ma la preside mise fine bruscamente all’avventura.

Cosa voleva dire essere di sinistra?

Nella parte d’Italia dove vivevo, nel basso Piemonte al confine con la Francia, significava stare all’opposizione rispetto al potere politico: era una zona fortemente democristiana che in questi ultimi decenni ho visto mutare dai toni felpati della DC all’urlo leghista. Allora lo scudocrociato era il nostro avversario. Con i miei amici passavamo ore a sfigurare i loro volantini in sostegno di questo o quel sindaco: al posto del “sì” incollavamo un “no” e poi facevamo volantinaggio nel segno del rovesciamento.

Un incontro che ti ha segnato?

Norberto Bobbio, professore di Filosofia del Diritto: è stato il primo corso che ho seguito alla facoltà di Legge, a Torino. Una volta entrò in aula buttando la cartella sul tavolo: erano appena accaduti i fatti di Avola e Battipaglia, le rivolte contadine soffocate dalla polizia nel sangue. Ha cominciato a camminare su e giù davanti alla cattedra e con uno dei suoi scatti nervosi si è rivolto a noi: ma insomma, alla vostra età e con quel che è successo, non avete niente di meglio da chiedermi che farvi lezione? Fece una dissertazione sulla violenza.

Poi hai approfondito l’amicizia grazie al lavoro.

Mi ricordo la lunga lettera che gli scrissi nel 1990 durante il volo da Mosca a Torino. Ritornavo alla “Stampa” come condirettore accanto a Paolo Mieli, dopo tre anni di corrispondenza in Urss per “Repubblica”. Sentivo il bisogno di raccogliere i vari pezzi della mia esperienza giornalistica –cronista del terrorismo, giornalista parlamentare, il lavoro in Russa durante la perestrojka- per impostare la fase nuova che mi aspettava. La “Stampa” rappresentava un potere forte, la Fiat. Ed era radicata nel quotidiano la linea culturale dell’Azionismo. A me interessava l’autonomia del giornale dalla politica, e l’autonomia della politica dai poteri forti.  Avvertivo l’urgenza di dialogare su questo con Bobbio. Si può dire che ho sempre cercato la sinistra. Anche attraverso il mio lavoro.

Sulla Stampa, sotto la tua direzione, le voci dell’Azionismo erano molto presenti in prima pagina.

Era giusto che trovassero libera espressione. E anche “Repubblica” è stato il tentativo di unire la cultura liberalsocialista agli altri pezzi della sinistra italiana. In questi lunghi anni è capitato che qualcuno per insultarmi mi abbia detto: azionista! Io tra me e me rispondevo: magari…

Nel libro racconti la Torino del primo Dopoguerra dove avviene l’incontro tra Gramsci e Gobetti, tra la matrice comunista e la cultura liberale che si apre al socialismo. Quanto ha contato la memoria storica di Torino nella tua formazione?

Moltissimo. E’ qui che è cominciato il mio lavoro di cronista. La “Gazzetta del Popolo” è stato un grande amore dove ho fatto anche il sindacato: chiuso nel 1974, il giornale continuò a uscire grazie a una cooperativa di giornalisti e poligrafici. Lavoravamo di giorno e di notte occupavamo la redazione, con grandi avventure, grandi amori, grandi amicizie. Quello che ho imparato politicamente lo devo al mestiere. Soprattutto negli anni del terrorismo, che è stata la guerra della mia generazione.

In che modo ne è uscita fortificata la tua coscienza di sinistra?

Nell’ottobre del 1977 le Br gambizzarono Antonio Cocozzello, un consigliere comunale democristiano che era stato protagonista delle lotte contadine in Basilicata. Aveva studiato grazie al sindacato. Arrivai quando i soccorritori gli stavano tagliando i pantaloni: lo vidi a terra, dolorante, le mutande da mercato che poteva avere mio nonno. Mi indicò una cartellina di plastica marrone: per favore, portala alla Cisl, dentro ci sono le pratiche di due pensionati. Tornato al giornale, lessi il comunicato dei terroristi che lo indicava come “servo delle multinazionali”. Il giornalismo mi ha messo sempre davanti i fatti, aiutandomi a capire come stanno veramente le cose.

Hai sempre votato a sinistra?

Sì, ma ponendomi ogni volta una domanda: cosa serve al Paese che io faccia? E la risposta è sempre stata il voto a sinistra.

Hai avuto rapporti più stretti con qualcuno dei leader storici del Pci?

Ho incontrato molte volte Giancarlo Pajetta, sia a Torino che a Mosca. E ho avuto un buon rapporto con Enrico Berlinguer, anche se intorno a lui si formava sempre un semicerchio di rispetto: la sua estrema riservatezza ti obbligava a un passo di distanza. Ma alla fine di un’intervista, nella sua stanza di Botteghe Oscure, mi sorprese parlandomi di Juventus.

Chi speravi fosse il suo successore alla guida del partito?

A un certo punto ho sperato in Luciano Lama, un leader dalla personalità carismatica. Mi ricordo le lunghe chiacchierate davanti alla sua scrivania di ferro. Quando Lama morì, l’avvocato Agnelli mi raccontò di essere andato a trovarlo nei giorni della malattia e che lo fece sedere sul suo letto. “Oggi posso dire quello che disse mio nonno quando morì Bruno Buozzi: è morto un galantuomo”.

Quando hai visto cambiare i comunisti?

Il cambiamento era cominciato nel 1981, con lo strappo da Mosca. Ma purtroppo non li ho visti cambiare abbastanza. Berlinguer ha fatto il passo più importante, ma era tutto interno all’orizzonte comunista. E’ una questione che ho discusso con Gorbaciov a Mosca: anche il segretario del Pcus era riuscito a dare una spallata decisiva al sistema sovietico, ma ne è rimasto dentro. Non è stato capace di trovare l’apriscatole che lo proiettasse fuori.

Dalla Russia ti sei portato indietro amicizie comuniste?

L’unica fotografia che conservo è quella insieme a Sacharov, il fisico dissidente riabilitato da Gorbaciov nel 1986. Ci vedevamo spesso a casa sua, in cucina, insieme alla moglie Elena Bonner. Si sarebbe potuto accomodare nel ruolo dell’ex perseguitato omaggiato dal mondo, invece aveva a cuore il cambiamento radicale del sistema sovietico, con la battaglia per i diritti: immune da qualsiasi spirito vendicativo, guardava in avanti.

Oggi lamenti che la sinistra in Italia non abbia un nome e un’identità.

I due nomi che l’hanno definita nel secolo precedente sono durati uno troppo a lungo, il comunismo, finito solo dopo il crollo del Muro di Berlino, e l’altro troppo poco, il socialismo, suicidatosi in una pratica politica condannata da Tangentopoli. I socialisti avevano le ragioni della storia, ma non le hanno sapute tradurre nella politica. I comunisti hanno avuto la forza politica senza avere le ragioni della storia. E non sono stati capaci di fare il rendiconto conclusivo. Per anni ho sperato che socialisti e comunisti risolvessero la loro dannazione, ma così non è stato.

Che cosa significa per te essere di sinistra?

Credere nella possibilità di un cambiamento, mettendosi dalla parte di chi ha più bisogno. Ho gli stessi amici dai tempi del liceo e ogni volta ci diciamo: ci siamo tutti –più o meno- e siamo ancora intatti, nel senso che siamo rimasti fedeli a un’identità che è anche la cifra del nostro stare insieme.

A chi guardi per il futuro della sinistra italiana?

Tanti anni fa mi sono augurato un papa straniero. Oggi spero che una nuova figura venga da quella che Turati definiva la “borghesia del lavoro”: qualcuno che voglia spendere le sue esperienze di vita e le sue competenze nell’avventura della sinistra italiana. Il problema è che se questo potenziale leader vuole cercare la casa del partito della sinistra italiana fatica a trovarla. Probabilmente non c’è il campanello sul pianerottolo e, se bussa alla porta, nessuno va ad aprirgli. Ma io finisco il mio libro con una ragazza che cuce il simbolo sulla bandiera rossa. Forse è arrivata l’ora del grande rammendo allo strappo del 1921.

 

                            Simonetta Fiori                        Enzo Mauro