Giacomo Leopardi, “Il passero solitario”. Una lettura

Giacomo Leopardi (1798-1837), “Il passero solitario” (1831-1835)

Questo è un lavoro scritto nel dicembre 1987 da una studentessa del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Ist. Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di acute osservazioni e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, anche se vagliate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica), inevitabilmente ricavate dai manuali scolastici e da alcune pagine saggistiche studiate in precedenza. Mi ha interessato, invece, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture, il non rinunciare al piacere delle idee e dei pensieri pazienti e curiosi. A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero.

Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. E credo anche che la scuola dovrebbe essere un vivaio di menti indagatrici, quelle persone curiose che Francesco Bacone, nel ‘500, definiva “mercanti di luce”. Con il tempo ho imparato che l’apprendere è una grande fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla.

Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

D’in su la vetta della torre antica,

passero solitario, alla campagna

cantando vai finché non more il giorno;

ed erra l’armonia per questa valle.

Primavera dintorno                                                                                                      5

brilla nell’aria, e per li campi esulta,

sì ch’a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

gli altri augelli contenti, a gara insieme

per lo libero ciel fan mille giri,                                                                                  10

pur festeggiando il lor tempo migliore:

tu pensoso in disparte il tutto miri;

non compagni, non voli,

non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;

canti, e così trapassi                                                                                          15

dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia

al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

della novella età dolce famiglia,

e te german di giovinezza, amore,                                                              20

sospiro acerbo de’ provetti giorni,

non curo, io non so come; anzi da loro

quasi fuggo lontano;

quasi romito, e strano

al mio loco natio,                                                                                               25

passo del viver mio la primavera.

Questo giorno ch’omai cede alla sera,

festeggiar si costuma al nostro borgo.

Odi per lo sereno un suon di squilla,

odi spesso un tonar di ferree canne,                                                            30

che rimbomba lontan di villa in villa.

Tutta vestita a festa

la gioventù del loco

lascia le case, e per le vie si spande;

e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.                                                                     35

Io solitario in questa

rimota parte alla campagna uscendo,

ogni diletto e gioco

indugio in altro tempo: e intanto il guardo

steso nell’aria aprica                                                                                        40

mi fere il Sol che tra lontani monti,

dopo il giorno sereno,

cadendo si dilegua, e par che dica

che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera                                                              45

del viver che daranno a te le stelle,

certo del tuo costume

non ti dorrai; che di natura è frutto

ogni vostra vaghezza.

A me, se di vecchiezza                                                                                       50

la detestata soglia

evitar non impetro,

quando muti quest’occhi all’altrui core,

e lor fia vòto il mondo, e il dì futuro

del dì presente più noioso e tetro,                                                                55

che parrà di tal voglia?

Che di quest’anni miei? che di me stesso?

Ahi pentirommi, e spesso,

ma sconsolato, volgerommi indietro.

Metro: canzone libera formata da tre strofe di diversa lunghezza, con endecasillabi e settenari alternati e con rime libere.

Ho costruito questa sequenza interpretativa:

versi  1-4        Il canto del passero solitario.

   “       5-7         Il tripudio e la luce della primavera

   “       8-11      La festa degli altri uccelli

   “       12-16    Il passero vuole stare solo

   “       17-26    Anche il poeta non cura risate e amore

   “       27-35    La festa dei giovani di Recanati

   “       36-44     La solitudine di Giacomo

   “       45-49     La fine ineluttabile e non dolorosa del passero

   “       50-57     La condizione disperata del poeta

   “       58-59     Il pentimento ormai impossibile

Versi  1-4  Il canto del passero solitario.

Dall’alto della cima del vecchio campanile (della chiesa di S. Agostino fuori Recanati), o passero solitario, canti continuamente rivolto verso i campi che circondano il borgo fino al tramonto; e si diffonde la dolcezza dei tuoi accordi per tutta questa valle.

Leopardi aveva sicuramente letto –nella biblioteca paterna- il trattato settecentesco “Histoire des oiseaux” (“Storia degli uccelli”) del naturalista francese Georges Buffon ma qui lo spunto per la metafora del passero=solitudine gli è dato dalla tradizione letteraria: si cita il salmo biblico 102 (“Io veglio, e sono come il passero solitario sul tetto”) e due versi di Petrarca (“Passer mai solitario in alcun tetto / non fu quant’io…”, Canzoniere, CCXXVI, vv. 1-2). L’attacco è costruito, in modo disteso, su quattro endecasillabi e l’uso delle consonanti doppie (vetta, torre, passero, erra, valle), allungando il suono complessivo dei versi, ne rallenta il ritmo. La prima notazione sensoriale è uditiva (il canto del passero) ma il poeta ha cura di intrecciarla con lo spazio indeterminato della campagna e la visione del tramonto. Inoltre il suono festoso di campana dell’inizio (“D’in”) sembra introdurre un’espressione di abbandono felice e spensierato. La presenza di molte vocali in “a”, soprattutto toniche (antica, passero, solitario, campagna, cantando, valle), accompagnate da consonanti nasali, liquide o vibranti, allarga l’impressione di vastità del canto del passero che si diffonde nello spazio. E c’è anche la novità del poeta che si rivolge direttamente all’animale: “cantando vai”.

In un’antologia ho letto che “ogni sillaba concorre a slargare l’immagine, finché essa non coincide con l’intero orizzonte ed è inondata tutta dal canto. Si noti il procedere delle immagini: prima la torre, con un moto che dal basso pare salire sino alla vetta più alta, poi la figura del passero, quindi il suo canto, infine quell’armonia che riempie tutta la valle, e par quasi tradursi in un distendersi panoramico. E’ una sintassi lirica che richiama quella del cinema”. L’aggettivo antica non va inteso in particolare come determinazione realistica ma per quanto evoca di lontano e indefinito. Leopardi nello “Zibaldone” aveva annotato: “Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perché destano idee vaste ed indefinite e non determinabili e confuse”, (25 settembre 1821, p. 1789, e 20 dicembre 1821, p. 2263). E anche la torre che si innalza nel cielo evoca un’idea di infinito (“Una fabbrica una torre ecc. veduta in modo che ella paia innalzarsi sola sopra l’orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito”, (ib, 1 agosto 1821). La critica, su questo tema, è inesauribile: “Giovanni Getto ha osservato che sul canto del passero dalla torre antica di Recanati si sovrappone il ricordo dell’Erminia tassesca che, da una torre di Gerusalemme, osserva solitaria lo spazio intorno fino a sera: “Nel palagio regal sublime sorge / antica torre assai presso a le mura, / da la cui sommità tutta si scorge / l’oste cristiana, ‘l monte e la pianura./ Quivi, da che il suo lume il sol ne porge / in sin che poi la notte il mondo oscura,/ s’asside, e gli occhi verso il campo gira / e co’ pensieri suoi parla e sospira” (“Gerusalemme liberata, c. VI, ottava 62). Il Tasso era ritenuto da Giacomo uno spirito fraterno (cfr. il “Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare” nelle “Operette morali”). Però non è da sottovalutare un’altra possibile suggestione, segnalata da G. Bronzini: è uno strambotto marchigiano che nella versione maceratese comincia: “Passero solitario, ben tornato / mi ritrovi a cantare al luogo antico”.

Versi  5-7  Il tripudio e la luce della primavera.

Nei dintorni la primavera splende nell’aria e trionfa nei campi, tanto che il cuore si commuove a quella vista meravigliosa.

Questa prima strofa è dedicata alla descrizione delle abitudini del passero collocate in una natura splendida e luminosa, aria trasparente, quasi in un tripudio di gioia. Qui il linguaggio poetico esalta l’unicità e il primato della vista, spiegata e assecondata da tante parole centrate sulle “r” (primavera, dintorno, brilla, aria, per, mirarla, intenerisce, core). La critica, concorde, cita una memoria di Dante: “Era già l’ora che volge il desio / ai naviganti e intenerisce il core” e –qualche verso dopo- “che paia il giorno pianger che si more” (“Purgatorio, VIII, 1-2, 6).

Versi  8-11  La festa degli altri uccelli.

Si sentono i belati delle greggi e i muggiti delle mandrie di buoi; gli altri uccelli, contenti, gareggiano fra loro e volteggiano vorticosamente nel cielo sgombro da nubi, intenti solamente e continuamente a festeggiare il loro tempo più bello, la primavera e la giovinezza.

Ora è ripreso con forza il motivo del suono, le voci degli uccelli, delle pecore, delle vacche: in unione con una forte presenza della vocale timbrica “i” (brilla, li campi, mirarla intenerisce il, odi greggi armenti, gli altri augelli contenti), quasi una disseminazione della vocale “i” per tutta la prima sequenza. Una nota dello Zibaldone, datata 21 settembre 1827, è illuminante: “Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o echeggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze” (4293). Vista e udito descrivono bene il mondo naturale pieno di suoni e di movimento, i voli che esprimono libertà, felicità, divertimento. Si noti il chiasmo nel v. 8, “greggi belar, muggire armenti”, figura retorica che rende bene la vivace natura quotidiana, accompagnata da un’assonanza che si estende anche ad augelli contenti; ed anche qui la fonte letteraria è rintracciabile: la traduzione dell’Eneide di Annibal Caro, VIII, 553 (udian greggi belar, muggire armenti) ma anche Ariosto, Orlando Furioso, XXVIII, 115, 7 (sente cani abbaiar, muggiare armento). Il tema è quindi, in questi primi versi, -lo ripeto- quello della giovinezza, della gioia, della festa, della primavera.

Versi  12-16  Il passero vuole stare solo.

Tu osservi, contempli questo spettacolo in disparte e sembri pensoso, con un fare quasi umano; non ti importa di avere compagni, di intrecciare con loro voli nel cielo, di manifestare allegria, eviti i divertimenti; ti contenti di cantare in solitudine e così fai passare le stagioni migliori della vita degli uccelli.

Così si chiude la prima strofa: il poeta interloquisce di nuovo col passero collocando in forte rilievo, all’inizio del v. 12, un diretto pronome personale, Tu pensoso, che esprime benissimo il processo di umanizzazione che nella sua lirica investe animali e cose (la luna, le stelle, le stagioni). Qualche critico, sottolineando l’inusuale pensoso, riferito al passero, vuole richiamare una nota polemica del nostro poeta: mentre la natura è rinnovata dalla primavera, per l’uomo non c’è scampo. E’ la dialettica fra il tempo lunghissimo (l’eternità della natura) e il tempo brevissimo (la vita umana) segnato dall’infelicità. Un critico richiama ancora una forte impronta del Tasso, “Così trapassa al trapassar d’un giorno / della vita mortale il fiore e il verde” (Gerusalemme liberata, XVI, 15). E’ strano: non c’è una nota di mestizia in questo passero, che pure dovrebbe essere il simbolo di un’esistenza dolorosa. Esso è solo e canta, la primavera tutta brilla ed esulta come un coro intorno alla sua solitudine.

Rime e assonanze, poche ma interessanti, costellano il periodo (compagni, canti, spassi, trapassi). L’uso frequente dei modi verbali del gerundio (cantando, v. 3; festeggiando, v. 11) e dell’infinito (mirarla, v. 7; belar, muggire, v. 8) –che conferiscono all’azione il senso della durata- danno ai versi un tono pacato e riflessivo. Infine voglio attirare la vostra attenzione sull’uso, per il passero, del verbo “cantare”, cantando, v. 3, canti, v. 15; nella seconda strofa, simmetrica –come vedremo- alla prima, non ci sarà corrispondenza –nella giovinezza di Giacomo- di canti, il giovane non canterà, ma non si può non pensare ai “Canti”, alla sua poesia, una poesia che nasce dal silenzio e dalla solitudine.

Versi  17-26  Anche il poeta non cura risate e amore.

Ohimè, quanto somiglia al tuo il mio modo di vivere! Io non ricerco –non so come questo avvenga- divertimenti, piaceri e  allegria che rappresentano la dolce compagnia della giovinezza, né mi curo di te, amore, fratello stesso della giovinezza, amaro rimpianto – vano desiderio nell’età matura, un’età che non conosce più illusioni; anzi fuggo da tutti questi svaghi, quasi isolato dal mondo e straniero nel mio paese, passo la primavera della mia vita, la giovinezza.

Come la prima strofa è dedicata al passero, questa seconda è centrata sul nostro poeta. L’inversione sintattica (prima il complemento oggetto, sollazzo e riso e amore, poi il soggetto e il verbo, io non curo) contribuisce a dare un fortissimo rilievo a quel “non curo”, isolato all’inizio del v. 22, ripreso poi –in simmetria anche di contenuto- con il “passo del viver mio” del v. 26, in analogia con il “cantando vai” (v. 3) e “canti” (v. 15) del passero. La forte avversativa anzi (nel v. 22) ci spiega una sua precisa presa di distanza dalle passioni della giovinezza, sembra quasi esprimere una vera e propria scelta di vita. Ora inizia lo sfogo del poeta che conduce, anche lui, una vita appartata e priva della spensieratezza giovanile. Però il paragone regge solo esteriormente: l’uccello è inconsapevole, obbedisce istintivamente a una legge di natura, non avrà una vecchiaia irrigata di rimpianti. Leopardi è cosciente invece di rinserrarsi nella solitudine, una condizione alla quale –pur desiderandolo forse- non sa sottrarsi (quel io non so come); questo ci è rivelato dai vv. 23-24: la ripetizione del quasi a inizio verso e la rima baciata lontano-strano. L’insistenza sul presente indicativo, non curo, io non so come, quasi fuggo, quasi … passo colloca l’azione nel presente, nella giovinezza di entrambi i protagonisti ma questo uso del tempo verbale è una finzione: accertata la datazione tarda del canto (progettato forse nel 1819-20 ma sicuramente scritto dopo il 1831), il presente delle prime due strofe si riferisce a un’esperienza lontana. Rievoca perciò la poeticità dei ricordi anche quando si tratta di una condizione di dolore: vale la nota dello Zibaldone, “E son piacevoli per la loro vivezza anche la ricordanza d’immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose, o spaventose ec. E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando bene la cagion del dolore non sia passata”, 25 ottobre 1821, 1987.

Versi  27-35  La festa dei giovani di Recanati.

In questo giorno (è il 15 giugno, festa di San Vito) che ormai tramonta e lascia il posto alla sera è abitudine fare festa nel nostro borgo. Si sente nel cielo sereno il suono di una campana, spesso si ascoltano spari di fucili, di armi da fuoco a salve, che rimbombano in lontananza da una borgata all’altra nella campagna. La gioventù del paese col vestito della festa esce di casa e va per strada; ragazzi e ragazze si scambiano sguardi e gioiscono di questo gioco amoroso.

Il raggruppamento dei temi è identico a quello della prima stanza: giovinezza-gioia-festa-primavera, se mai con una simmetria rovesciata nella disposizione dei temi. Ritornano le sensazioni vaghe e indefinite, “il suon di squilla per lo sereno”, il rimbombo lontano di villaggio in villaggio, costellate dall’anafora acustica (odi, odi) e dal raro uso di parole onomatopeiche. Una minuzia analitica mi porterebbe a far notare che mentre fino al v. 26 c’è stata una netta prevalenza di timbri chiusi, con una prevalenza di toni in “o” (fuggo lontano, romito e strano, mio loco natio), nei versi 27-31 si ripresentano timbri aperti in “a”, espressione coerente della gioia e della spensieratezza della gioventù festaiola. C’è l’eco di una precisa fonte ovidiana, “spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae”, “vengono per vedere, vengono per essere viste esse stesse” (Ars amandi, I, 99), ma con un tono più confidente e quasi campagnolo. Il mondo di Recanati è pieno di suoni e di movimento ma il passero e il poeta se ne tirano fuori, si auto-escludono. All’armonia che errava per la valle e che faceva da contesto ai voli spensierati degli altri uccelli corrispondono in questa seconda strofa la serena atmosfera del paese e i suoni che si spandono per l’aria, con quell’intreccio tra vista e udito a cui ci ha abituato Leopardi. In questi versi speranza e malinconia si fondono insieme.

Versi  36-44 La solitudine di Giacomo.

Io, solitario, uscendo verso la campagna, in questa zona isolata, rimando ogni gioia e ogni gioco a un altro momento: e intanto mi ferisce lo sguardo, che spazia nell’aria luminosa, il sole, che tramontando dopo un giorno sereno scompare tra i monti in lontananza e sembra che annunci cha anche la giovinezza che ci fa beati è destinata a finire.

Il fortissimo “io solitario” fa eco al “tu pensoso in disparte” del v. 12, sempre a inizio verso, e corona il parallelismo tra il poeta e l’uccellino: nell’animale è soltanto un dato istintivo della natura ma per Giacomo? Cosa lo spinge a separarsi dai suoi simili? Cosa lo fa isolare in modo così amaro? Fin da giovanissimo ha intuito e capito l’infelicità della condizione umana, per lui l’età delle dolci speranze e delle illusioni è durata poco. Nello Zibaldone, alla data del 2 dicembre 1828, si legge: “Memorie della mia vita. Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole” (II, 1234).

La logica naturale spingerebbe un giovane alla socievolezza e alla ricerca del piacere; la lucida coscienza dell’infelicità umana rende il nostro poeta diverso dagli altri, estraneo alle loro consuetudini, a volte lo deprime e lo scoraggia (confronta nella “Sera del dì di festa” il “e qui per terra / mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate!”). Ma in questo passaggio cruciale non domina il linguaggio negativo della verità sconsolata, continua invece il linguaggio dell’immaginazione: idee vaghe e indefinite, parole poetiche (solitario, rimota, lontani, aprica), col suono ampio delle “a” seguite da consonanti nasali o vibranti, e concluse con un parallelismo definitivo (io, alla campagna uscendo, del v. 37; tu, alla campagna cantando, del v. 3). Ancora un’osservazione: i giovani di Recanati passeggiano allegramente per le strade, incrociano sguardi di curiosità e di invito amoroso; il poeta, tutto solo, guarda il sole ma lo sguardo è impossibile, la natura lo nega, se non per annunciare l’avvicinarsi della morte, che per il sole è apparente e momentanea ma per Leopardi, e quindi per tutti gli uomini, sarà definitiva. Il sole si dilegua tra i monti e in quel suo cadere pare indicare la fine stessa e irreparabile della giovinezza. Il tempo ciclico e lunghissimo della natura è contrapposto al tempo brevissimo della gioventù e dell’esistenza umana.

Versi  45-49  La fine ineluttabile e non dolorosa del passero.

Tu, uccellino solitario, quando arriverai alla fine della vita che ti concederà il destino, certo non ti pentirai del tuo modo di vivere, perché ogni vostro desiderio e comportamento derivano da un istinto naturale.

La terza strofa, più breve delle altre, riprende il confronto tra i due protagonisti ponendo a contrasto la vecchiaia di entrambi. Ancora, a inizio di verso, il pronome personale, Tu, che apre lo squarcio sulla fine indolore del passero. La sua vita segue la natura della sua specie. La vecchiezza, dice la critica in modo unanime, è l’età del “vero” ma questo non vale per l’animale. Il passero non è solo pietra di paragone dell’autocoscienza di Leopardi, un Giacomo che parla a se stesso, ma mi sembra anche un suo piccolo fratello, un fratello di dolore, come lo sarà il solitario e indomabile fiore de “La Ginestra”.

Versi  50-57  La condizione disperata del poeta.

Quanto a me, se non otterrò di evitare di oltrepassare l’odiato confine della vecchiaia, quando questi miei occhi non sapranno più parlare ai sentimenti degli altri e il mondo avrà perduto per loro ogni attrattiva, e il futuro apparirà più noioso e ripugnante del presente (quando non ci saranno più le speranze), come giudicherò un tale desiderio di solitudine? Come valuterò questi miei anni? Che giudizio darò di me stesso?

Questa volta, a inizio del verso, c’è il “me”, quasi piantato per accentuare il contrasto e che sarà ripetuto nel v. 56, (a me) che parrà di tal voglia? La vita del poeta: il suo desiderio di solitudine, la sua autoesclusione dai riti collettivi dei suoi simili, non sono naturali per un giovane che dovrebbe essere istintivamente portato alla gioia e all’amore. Il linguaggio del “vero” qui si accampa con forza, la sintassi è più ampia e complessa, tramata da interrogazioni, esclamazioni, anafore (che… che… che), il campo semantico è invaso da parole negative (vecchiezza, detestata, muti, vòto, noioso, tetro). L’interrogazione, ripetuta per ben tre volte, sottolinea una tristezza quasi smarrita. E’ nello Zibaldone che ancora una volta possiamo leggere e capire: “è ben trista quell’età nella quale l’uomo sente di non ispirar più nulla” (p. 4284). E nei “Pensieri” (LXI): “uscendo della gioventù, l’uomo resta privato della proprietà di comunicare e, per dir così, d’ispirare colla presenza sé agli altri”. Per Leopardi l’età delle dolci speranze e delle illusioni è durata molto poco, forse non oltre il termine dell’adolescenza. Poi è sopravvenuta la coscienza del dolore universale, la condizione disperata del’esistenza umana. E la consapevolezza che il linguaggio, la poesia restano l’unica forma di vita possibile, “poiché esaltano la presenza nel mondo del poeta, anche nel momento stesso in cui questi deve confessare la sua completa sconfitta esistenziale”. Il parallelismo, che nelle prime due strofe saldava in armonia i destini del passero e del poeta in un rispecchiamento fraterno di solitudine e di poesia, ora li oppone drammaticamente e sancisce per l’animale la salvezza, per Giacomo la disperazione lucida e consapevole.

Versi  58-59  Il pentimento ormai impossibile.

Ahi, mi pentirò, e spesso, senza possibilità alcuna di consolazione perché la rinuncia sarà ormai irrevocabile, mi volterò a guardare il mio passato.

Se sarò vecchio non guarderò al passato con la consolazione di chi almeno ha goduto la sua vita in giovinezza. E quello “spesso ma sconsolato” è il centro di tutto, anche del gioco doloroso in rima “pentiròmmi-volgeròmmi”. La pesantezza polisillabica dei due versi finali (con ben tre quadrisillabi) è coerente con una scelta di verbi che in quest’ultima parte del canto sono lontani dal dinamismo e dalla vitalità che ricordava la primavera-giovinezza; al contrario essi sono spenti e addolorati e sottolineano lo stile di vita del poeta e il suo tardivo rimpianto.

Marzia   P.