Giovanni Pascoli, “Novembre”, da “Myricae”. Un tentativo di lettura.

Giovanni Pascoli, “Novembre”, da “Myricae”. Un tentativo di lettura.

 

Questo è un lavoro scritto in classe il 13 gennaio 1993 da una studentessa del quinto anno del Liceo Linguistico “L. Stefanini” di Venezia-Mestre e continuato poi a casa. L’esercitazione dimostra che ragazze di diciotto anni possono essere capaci di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta di “Myricae”, naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture.

A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla. Non voglio, perciò, che questi micro-testi siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi. Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

Gèmmea l’aria, il sole così chiaro

che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,

e del prunalbo l’odorino amaro

senti nel cuore…                                                                     4

 

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante

di nere trame segnano il sereno,

e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante

sembra il terreno.                                                                   8

 

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,

odi lontano, da giardini ed orti,

di foglie un cader fràgile. E’ l’estate,

fredda, dei morti.                                                                   12

 

L’aria è  splendente, trasparente, luminosa e fredda come una gemma, il sole è tanto limpido da far pensare agli albicocchi in fiore e far sentire con il sentimento e l’immaginazione l’odore sottile, acuto del fior di biancospino (vedo colori, sento odori che voglio vedere e che desidero fiutare) ma è soltanto una sensazione… Tutto cambia, l’illusione svanisce, perché il pruno è secco, come le piante che con i rami nudi tracciano  -con l’intrico dei rami spogli- un disegno nero su uno sfondo limpido, attraversano il cielo chiaro che così sembra vuoto, privo di voli, come è risonante sotto i passi il terreno cavo, reso dal gelo duro e compatto. L’ambiente è muto ed è solo il vento, passando attraverso giardini ed orti, a far frusciare le foglie che cadono con un rumore lieve e lontano. Può quasi sembrare estate, nei giorni freddi che gli uomini dedicano ai morti.

 

Schema metrico: Numero dei versi: 12. Numero delle strofe: tre quartine polimetre (ovvero formate da versi di lunghezza disuguale). Misura dei versi: primi tre versi di ogni strofe: endecasillabi, l’ultimo: quinario; quindi, in totale, nove endecasillabi e tre quinari. Sono perciò strofe saffiche. Schema delle rime, alternate: AB-Ab, CD-Cd, EF-Ef. Le tre strofe segnano la scansione di tre momenti; non solo, c’è la ripetizione –simmetrica- delle pause, forti, entro il primo endecasillabo di ogni strofa.

La poesia uscì nella rivista fiorentina “Vita nuova” nel febbraio 1891; poi nella prima edizione di “Myricae”.

 

L’azione, o meglio la contemplazione, si svolge in uno spazio aperto, probabilmente nella campagna vicino ad un paese. Lontano ci sono orti, giardini… Siamo in autunno, in una bella giornata di novembre, da poco forse si è festeggiato il giorno del ricordo dei defunti. La limpidezza e la luminosità sono straordinarie, tanto che per un istante fanno pensare a una primavera improvvisa e inattesa. Non esistono veri e propri personaggi; ad animare la scena c’è lo sfondo del paesaggio e, soprattutto, l’occhio attento dell’uomo che guarda e che filtra, attraverso i suoi sentimenti, la realtà che lo circonda. C’è, quindi, una continua interazione tra il vedere (l’aria, il sole, le piante) e il sentire (i profumi, il silenzio, il cadere delle foglie). Le immagini sono nitide e vivide, quasi geometriche; è un quadretto naturalistico ma è vissuto con notazioni sensuali, visive e olfattive. All’impressione di un’improvvisa primavera (prima strofa) subentra un drastico ribaltamento (nella seconda strofa) intessuto da una trama ricca di parole-chiave che introducono un’idea di morte, definita compiutamente nella terza strofa.

v. 1: Si inizia di colpo con un chiasmo (gèmmea l’aria, aggettivo + sostantivo; sole chiaro, sostantivo + aggettivo) che ci introduce nel tono dominante della poesia, la luminosità fredda, che poi – a sua volta- è un ossimoro: siamo così subito messi di fronte alla tecnica molto usata dal nostro poeta, la “densità di significazioni allusive” (spiega la nostra antologia), accentuata dalla metafora “gèmmea l’aria”. Il poeta paragona l’aria ad una gemma, la vede trasparente e risplendente proprio come un diamante. C’è però un particolare che ci incuriosisce: l’aria è un elemento che tocca e sfiora o accarezza la nostra pelle e il nostro viso; la gemma, invece, è un minerale che si vede e si tocca: forse questa è anche una sinestesia nascosta, non facile da individuare. Pascoli adotta in tutto il testo il procedimento mentale per cui i fanciulli interpretano la natura mediante metafore e analogie, animazioni e personificazioni (“il fanciullo considera come vive e coscienti le cose che a noi sembrano inerti e assolutamente inanimate. Egli attribuisce non solo un corpo, ma un’anima al vento che soffia e che urla nella notte” (da J. Sully, “Etudes sur l’enfance”, Parigi, Alcan, 1898; una traduzione francese letta dal nostro poeta).

v. 2: Per un istante si dimentica la stagione e con un enjambement si viene trasportati in un tempo irreale, alla primavera passata, in un luogo fantasticato, pieno di vita e di colori (interessante l’assonanza sole-fiore che poi si completerà, pienamente, con la rima fiore-cuore). Gli endecasillabi sono frantumati ma nello stesso tempo saltano il verso con gli enjambement (1-2, 3-4, 5-6,7-8): pause e scollinamenti insieme.

vv. 3-4: Al campo semantico dei primi due versi, tutto centrato sulla vista, ora si intreccia, in apparenza, l’odorato (l’odorino amaro) ma il gioco è ambiguo: non si sente materialmente il profumo sottile del biancospino, perché a novembre la pianta è sfiorita –come si dirà dopo-, ma se ne avverte un’impressione in fondo all’animo, e tu respiri profondamente per coglierne tutto il sentore pungente, quasi una precisa sfumatura amarognola.

vv. 5-6: C’è un netto mutamento di tono, alla primavera illusoria subentra l’autunno reale: l’attacco fortemente avversativo realizzato col ma dell’inizio del verso si conclude con la perentoria concisione dell’emistichio: secco è il pruno.  La sequenza degli aggettivi in rilievo, secco (riferito al pruno) e stecchite (lo sguardo si allarga alle piante intorno), onomatopeici, danno la sensazione di un qualcosa che schiocca, come di rami secchi che si spezzano. Il prunalbo è diventato pruno, non emana profumo ma è secco. Le piante non sono fiorite, gli alberi sono spogli e i loro rami neri s’intrecciano e costruiscono disegni sullo sfondo del cielo sereno e senza nuvole: sembrano quasi degli schizzi d’inchiostro sullo sfondo del cielo pulito. Le allitterazioni (secco, stecchite, segnano, sereno) evidenziano una sensazione di freddo, di desolazione, di squallore. Ritornano immagini fortemente visive ma anche questo quadro di natura non è realistico, dietro il paesaggio si disegna l’immagine della morte. Scrive un critico che “la luce che pareva anticipare il risveglio primaverile non è in realtà che la gelida aria annunciatrice dell’inverno incipiente. Dai simboli della vita, la chiarezza del sole e la luminosità dell’aria, si è giunti a un estremo opposto, dove la freddezza autunnale diventa un emblema della morte, che risolve l’esistenza di ogni uomo nella sua negazione”.

vv. 7-8: I polisindeti si fanno incalzanti, la sintassi si frantuma e si inverte, lo stile è tutto nominale. Nel cielo non volano uccelli. Qualcuno cammina, il poeta (?), e sotto il piede sente il terreno vuoto e profondo, come se fosse scavato. Un critico suggerisce che “è come un vuoto di tomba”. Il terreno non è ricco di semi e di succhi fecondi ma sterile e morto, ridotto quasi a una consistenza mineralizzata.

vv. 9-11: La virgola introduce una pausa di grande effetto e ripete, nella terza quartina, un procedimento già adottato nelle quartine precedenti. Il periodo, molto breve, è rotto al suo interno da ben sei segni di interpunzione; il primo verso, “Silenzio, intorno: solo, alle ventate“, poi, è spezzato da tre pause e si frantuma in parole singole, staccate. “Odi lontano, da giardini ed orti”: è un’eco di suggestioni leopardiane. Fragile si collega al verbo sostantivato  cader invece che alle foglie secche e perciò fragili; la figura retorica è chiamata “ipallage” ma ha dentro di sé anche una forma di sinestesia, perché la lieve sensazione uditiva delle foglie secche che cadono a terra evoca anche una sensazione tattile. La sinestesia è cara alla poesia decadente perché sottolinea un tessuto di corrispondenze segrete permesse dalla fusione nascosta di io e mondo, soggetto e oggetto. Sottolinea la critica che in un primo abbozzo era comparsa l’espressione “stridìo fragile”. Non si dimentichi, poi, che fragile allude anche alla precarietà di ogni essere vivente, alla labilità della sua vita, e si inserisce così nella trama delle ultime immagini di morte. Precarietà delle stagioni, precarietà della vita, fruscio lieve del silenzio. La strofa comincia e si conclude con due sostantivi, silenzio (v. 9) e morti (v. 12), che ne fissano il significato conclusivo e risolutore: silenzio, arriva la morte.

vv. 11-12: E’ l’estate, fredda, dei morti. Questo ossimoro è il nucleo profondo della poesia. La vita naturale è apparente, essa nasconde la presenza della morte. E questo senso onnipresente della morte, reale, si contrappone al campo semantico, di vita e di gioia, puramente illusorio dei versi iniziali. Infine, l’aggettivo fredda, che ha il valore chiave di indicare l’ambigua presenza della morte dietro la vita, è isolato dal contesto sia dalle due virgole che dall’enjambement. In quest’ultima quartina tutti i versi sono spezzati, serrati da una punteggiatura fittissima: è la constatazione di una fredda legge di morte come unica e vera realtà che rimane dopo la temporanea, effimera illusione di colori e profumi primaverili, le ingannevoli speranze della giovinezza. Afferma il Baldi che “questa frantumazione, impedendo la facile scorrevolezza del discorso, rivela il tormento conflittuale che è nascosto al fondo dell’anima pascoliana”.

Conclusione. L’iniziale suggestivo paesaggio primaverile è solo un’illusione; il reale non è quello che appare, gli albicocchi in fiore, il profumo dei biancospini non sono veramente percepiti coi sensi ma sono creati dall’immaginazione. Si dice che la realtà sensibile sfumi nell’immaginario. Così ha buon gioco la critica nel definire la poesia pascoliana “evocativa, suggestiva, illusionistica, abile nel giocare sull’indefinito, che parte sì dal dato fisico, oggettivo, ma che rimanda sempre a un di là dalle cose”. La precisione delle denominazioni permette di andare oltre la superficie solita e banale degli oggetti, di coglierne il mistero primitivo, ancora fresco e intatto, “di giungere d’un tratto, senza scendere ad uno ad uno i gradini del pensiero, nell’abisso della verità”. Questo naturalismo linguistico è al servizio d’una poesia intesa come illuminazione e rivelazione, analogica ed evocativa, suggestione simbolica. E disegna bene la predilezione del nostro autore per le realtà ambigue e sfuggenti: le forme del reale che si tramutano le une nelle altre, suggerendo visioni angosciate e stravolte.

 

                                                        Carla B.