Hitler nello specchio di Stalin

Hitler nello specchio di Stalin

Un’inchiesta voluta dal dittatore sovietico sul suo (ammirato) nemico divenne una singolare biografia del Fuhrer. Piena di veleni, ma anche di dettagli inediti. Ora è riproposta in italiano.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 22 settembre 2017, alle pp. 110-115, è pubblicato questo articolo del giornalista Marco Cicala.

 

L’incubo che Adolf Hitler non sia morto suicida nel bunker sotto la Cancelleria di Berlino il 30 aprile del 1945 non è una trovata letteraria da thrillerone fantapolitico. All’epoca, il timore che l’avesse fatta franca ghermì perfino Stalin. Uomo già di suo gravemente incline al sospetto, Iosif Vissarionovic giudicava troppo lacunosi, contraddittori e dunque per niente rassicuranti i rapporti sulla fine del Fuhrer che gli giungevano da Berlino. D’altronde, nel caos della Germania “anno zero” era tutto un rincorrersi di fake news sul ritrovamento del cadavere eccellente. Per vederci più chiaro il signore del Cremlino incaricò la polizia segreta di indagare sugli ultimi giorni di Hitler. L’inchiesta si meritò un nome corrusco: Operazione Mito.

Per tre anni gli agenti dell’Nkvd passarono a setaccio documenti, individuarono testimoni tra i prigionieri di guerra e li sottoposero a terzo grado, tortura, rigido isolamento affinché non fornissero versioni concordate dei fatti. Il 29 dicembre del 1949 le conclusioni di quel lavoro atterrarono sulla scrivania di Stalin. Gli zelanti detective si erano spinti ben oltre il mandato iniziale: il Dossier Hitler erano 413 pagine dattiloscritte nelle quali non si investigava soltanto sulla morte del dittatore, ma –con profusione di dettagli inediti- se ne ripercorrevano gesta e vita privata a partire dal fatidico 1933, anno della presa del potere. Il fascicolo 462°, come venne siglato, si trova ancora nell’archivio personale del presidente della Russia, inaccessibile ai ricercatori. Nei primi anni ’90 tuttavia gli storici stranieri poterono consultarne una copia identica conservata negli archivi del Partito, appena aperti. Curata dagli studiosi Henrik Eberle e Matthias Uhl, l’edizione tedesca del Dossier uscì nel 2005, pochi anni dopo apparve la traduzione italiana, ma senza suscitare eccessiva attenzione. Ora è riproposta da Utet.

Documento di notevole interesse, seppur viziato da distorsioni (tutte rettificate in nota dai curatori), la “Biografia segreta del Fuhrer ordinata da Stalin” era il frutto di numerose deposizioni, ma le fonti primarie furono essenzialmente due. Rispondevano ai nomi di Otto Gunsche e Heinz Linge. Non proprio dei nazisti qualunque. Il primo era l’aiutante personale di Hitler, il secondo il suo attendente capo. A loro il Fuhrer affidò l’alto compito di bruciare il proprio corpo dopo il suicidio e quello della moglie Eva Braun, impalmata in extremis nel bunker, da giorni sotto il fuoco dell’Armata Rossa.

Stando al “Dossier”, Hitler venne trovato sul divano del suo studio con sulla tempia un foro di proiettile “grande quanto una moneta da un Pfenning”. Indossava la divisa militare grigia. Ai suoi piedi giacevano due pistole e si allargava una pozza di sangue. Eva Braun era seduta accanto a lui “con le gambe ripiegate sotto il corpo”. “Le sue scarpe chiare con i tacchi alti erano sul pavimento. Le labbra erano strette con forza. Si era avvelenata con il cianuro”. Un gruppo di sette uomini –tra i quali Gunsche, Linge e il “delfino” del Fuhrer Martin Borman- avvolse i corpi dentro coperte e li depositò all’ingresso del bunker. Per darli alle fiamme erano pronti duecento litri di benzina.

Non ci sono discrepanze sostanziali tra questa versione della fine di Hitler e le ricostruzioni che trovate nei libri dei più autorevoli tra i suoi biografi, da Joachim Fest a Ian Kershaw. La singolarità del “Dossier” non sta nell’epilogo quanto in tutto ciò che lo precede. A cominciare dall’incipit: “Estate 1933. Il sole brilla sulla Wilhelmplatz di Berlino. Là sorge la Cancelleria del Reich… Dietro le tende di una finestra del primo piano sta in piedi un uomo di media statura; unaciocca di capelli gli ricade sulla fronte”. La biografia sovietica di Hitler non ha nulla del resoconto burocratico o del rapporto di polizia: sebbene privo di ambizioni e qualità letterarie, è a tutti gli effetti un testo narrativo, scritto in modo godibile, essendo destinato a compiacere il voyeurismo di Stalin, e in fondo di qualsiasi lettore. Dentro c’è il Fuhrer politico e stratega, ma si scava soprattutto nel leader privato: abitudini e debolezze alimentari, salute, tic, quel poco di sesso.

Nei primi capitoli Hitler è presentato come un tipo quasi giulivo. Sempre di ottimo umore, canticchia canzonette berlinesi: “Bello è ogni giorno che mi doni, Maria Luisa…”. Nel Berghof, il rifugio sulle Alpi salisburghesi che viene definito un “castello”, sembra vivere come l’ultimo dei sovrani ancien régime. Tra marmi, ori, velluti, tappeti persiani, gobelin, contempla i monti attraverso una finestra di 32 metri quadrati, praticamente un monolocale. Per il marxismo –quantomeno quello in salsa sovietica- il nazifascismo non è che una mostruosa enfiagione del capitalismo. Perciò il Fuhrer va dipinto come un plutocrate in festosa combutta con i grandi monopolisti; un forsennato del lusso che ha concepito il Partito come “una gigantesca impresa capitalistica” e ci si è arricchito.

L’Hitler cucinato per Stalin dorme fino a mezzogiorno, legge romanzi polizieschi o d’avventura, beve pochissimi alcolici e non eccede col cibo, eccezion fatta per le praline, di cui è golosissimo. “Fanno bene ai nervi”, sostiene. Per il cinquantesimo compleanno i magnati di Germania gli regalano modellini di carri armati, cannoni, aeroplani, navi da guerra e una riproduzione in miniatura della Linea Sigfrido “con illuminazione elettrica”. Lui “apprezzò molto e restò a baloccar visi per diverse ore”. Hitler ha in casa il busto di Wagner, ma al grammofono ascolta più volentieri Suppé o “La vedova allegra” di Lehàr. Esulta: “Come sono felice che la Provvidenza abbia inviato me come salvatore dello sventurato popolo tedesco!”. A passo di operetta, il Fuhrer della biografia staliniana trotta pericolosamente verso la formidabile parodia che ne fece Chaplin nel “Grande dittatore”.

Prima degli infiammati discorsi alle moltitudini, Adolf prova le facce giuste allo specchio. L’oratoria è per lui uno sport estremo, uno “stato di trance” che lo lascia stremato e dal quale si riprende con bagni caldi e tranquillanti. Ha un pessimo rapporto con il telefono. Anche perché le comunicazioni subiscono spesso interferenze. Che lo mandano in bestia. Una volta durante una conversazione un intruso gli chiede l’ora esatta. Un’altra volta, dopo essersi presentato, si sente rispondere dall’altro capo del filo: “Tu hai bevuto troppo!”. Evidentemente il centralinista ha sbagliato numero. Ma, come sottolineano i curatori, intenzione profonda dei propagandisti sovietici è mostrare attraverso la parabola hitleriana la decadenza di tutto un mondo (capitalismo, civiltà borghese, vecchia Europa…) votato all’autoannientamento. Quindi a partire dai primi rovesci della catastrofica invasione dell’Urss, vediamo il Fuhrer precipitare lentamente in una disgregazione psicofisica che rispecchia lo sfacelo del Reich. Adolf ascolta “musica triste”, si fa sempre più pallido, suscettibile, malfermo sulle gambe, “un vecchio”. Somatizza di brutto: oltre al tremito a una mano –di cui non si è mai capito se fosse avvisaglia del Parkinson- accusa violenti pruriti e si gratta la nuca fino a scarnificarsela. Sviluppa anche una speciale fobia nei confronti degli insetti. Si faceva di tutto affinché “nelle sue vicinanze non volassero mosche, farfalle o zanzare… Ogni mattina il personale andava in giro con l’acchiappamosche… Sui tavoli c’erano bicchieri colmi di miele, dal soffitto pendeva la carta moschicida” e “vennero collocate lampade blu ad alta tensione”.

Insonne, Hitler lavora a letto come Proust. Si tiene su con iniezioni ricostituenti e cura la congiuntivite con collirio alla cocaina. Gli scatti d’ira, ai quali è stato sempre propenso, si fanno più frequenti. Dopo aver cazziato il generale Kurt Zeitzler, lo vede accasciarsi fulminato da un colpo apoplettico. Solo l’adorata cagna Blondi riesce ancora a strappargli qualche sorriso: “Trovava divertente come si sollevava sulle zampe posteriori… Le ordinava: “Avanti Blondi, fammi la lepre!”. La bestia –ovviamente un pastore tedesco- viene fatta accoppiare con il cane di Alfred Rosenberg, ideologo del partito e teorico della razza; darà alla luce otto lupacchiotti, ma alla disfatta morirà avvelenata, come un vero gerarca.

Per la Germania le cose si mettono male, però alla corte di Hitler si gioca ancora a inventare nomi per nuovi cocktail o a indovinare quanto pesi un uovo di gallina. Si organizzano spettacoli di illusionismo (“Già che c’è, perché non mi fa sparire pure l’Armata rossa?” scherza Adolf col mago). Nel corso di un banchetto vengono servite bombe al gelato dalle quali emergono statuette vestite come damine del ‘700. Il kitsch germanico è sempre stato l’apoteosi di ogni kitsch e i vertici del Reich al crepuscolo se ne lasciano inghiottire con voluttà, danzando tanghi o foxtrot.

Nel bunker l’atmosfera giocoforza si incupisce. Da eccitante, l’alcol diventa anestetico per sedare i morsi della débacle. Eva Braun consuma parecchio cognac. Era incinta come si favoleggiò? Stando al “Dossier”, no. I rapporti con Hitler sono affettuosi, ma esangui di passione. Il libro accredita invece il gossip secondo cui il Fuhrer avrebbe avuto una precedente, incestuosa relazione con la nipote Angelika (nel testo erroneamente chiamata Nicki), morta suicida nel 1931. Uno schok che lo avrebbe segnato sentimentalmente per il resto della vita. Sul fronte del sesso, nient’altro da segnalare. Ormai Hitler è uno straccio, fiuta complotto ovunque e qualche volta ci azzecca: prima il tradimento di Goring –che già si candida come suo successore-, poi quello di Himmler –che conduce trattative di pace separata con gli angloamericani- induriscono le paranoie, la sindrome da accerchiamento: “Mi ingannate tutti!”. Depressione nera. All’ora del tè, con Eva sfogliano abulici vecchie riviste, conversano sui modi migliori per suicidarsi: pistola? Cianuro? Polsi recisi?

Nelle ultime pagine Adolf Hitler è in preda a una fifa matta: “Era troppo vile anche soltanto per guardare fuori dal bunker… Non aveva né la forza né il coraggio per morire di quella morte da soldato che fino agli ultimi giorni aveva preteso dagli ufficiali e dai soldati tedeschi e perfino dalle donne e dai bambini… Dietro spesse mura, si sforzava miseramente di rinviare il più possibile il verdetto del destino”, assicurano gli scribi di Stalin. Ma più che la morte il Fuhrer sembra temere la cattura. Sua orribile fantasia ricorrente “è venir trascinato sopra una carretta sulla Piazza Rossa ed essere linciato da una folla furibonda”.

Nei quindici capitoli del “Dossier” viene omesso tutto ciò che potrebbe riuscire sgradito al committente del Cremlino. Non c’è traccia del patto germano-sovietico che nel ’39 aveva traumatizzato l’intero movimento comunista internazionale. Ma soprattutto, salvo accenni indiretti, manca la Shoah. In Urss, già da prima della guerra, le persecuzioni antiebraiche erano scattate con un certo entusiasmo, e sull’argomento era forse meglio glissare.

Per quanto talvolta deformate in senso caricaturale dagli estensori del testo, tutte le informazioni verificabili fornite dai detenuti Gunsche e Linge ai loro inquisitori si sarebbero rivelate fondamentalmente esatte. Dai sovietici i due vennero ringraziati con una condanna a 25 anni di lavori forzati ciascuno. Dopo averne scontata una parte, ripararono rispettivamente in Germania Ovest ed Est. Il primo è morto nel 2003, l’altro nel 1980.

Grande ammiratore del suo nemico, Stalin sospettò sulle prime che Hitler fosse riuscito a fuggire, che fosse  stato arrestato e che gli Alleati lo tenessero nascosto da qualche parte per continuare la guerra contro l’Urss. Se è vero però che i resti del Fuhrer furono identificati dall’Armata rossa e fatti sparire, il mancato ritrovamento del cadavere potrebbe essere stata una montatura architettata dai sovietici per mantenere vivo quel sospetto infamante.

Un giallo inesauribile. Un mistero che continua ad alimentare i già giunonici cospirazionismi della Modernità. Nella fine di Hitler, “di cui nessuno può dire con certezza se sia morto o se si sia salvato”, il genio di Adorno coglieva sin dal ’45 la manifestazione di un’epoca dove vero e falso si confondono senza rimedio non essendo più categorie della conoscenza, ma pura plastilina tra le mani del Potere. Forse era l’aurora di quello che oggi chiameremmo il “Tempo della post-verità”. Ormai ci siamo immersi fino al collo. Buona notte e buona fortuna.

 

                                                        Marco Cicala