I libri preferiti di Karl Marx

I libri preferiti di Karl Marx

Quali titoli c’erano nella sua biblioteca? Chi erano i suoi romanzieri e poeti preferiti? I gusti del nostro filosofo.

 

Sulla collina di Highgate, a Londra, nel discorso pronunciato il 17 marzo del 1883 davanti alla fossa dell’amico di una vita, Friedrich Engels disse che lo scienziato Marx, cioè l’autore di “Das Kapital” (il cui primo volume era uscito sedici anni prima, nel 1867) non valeva neppure la metà di Karl Marx, perché Marx era innanzitutto un militante rivoluzionario, un agitatore, un giornalista e, tout court, un grande scrittore. Basterebbe d’altronde l’immagine che inaugura il suo capolavoro a dare il senso di uno sguardo panottico e di una vocazione da autore epico: “La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare”.

Proprio nella vasta architettura del Capitale si dispiega la gamma stilistica di un virtuoso capace di alternare e di armonizzare la scrittura saggistica e di reportage, la riflessione filosofica e l’oratoria politica, contando sulla conoscenza delle lingue antiche e moderne come su un repertorio di citazioni e di topoi da filologo che nelle cupe sere londinesi leggeva in originale alle figlie e alla moglie Jenny passi di Shakespeare, di Cervantes e di Goethe, persino di Dante, stelle fisse che nella sua costellazione affiancavano i materialisti antichi (Democrito, Epicuro, Lucrezio), gli illuministi, Diderot, e ovviamente Hegel (di cui, come è noto, si era dato il compito di rovesciarne la dialettica perché gli uomini finalmente la smettessero di camminare sulla testa).

Eschilo socialista. Da sempre dunque la letteratura riforniva Marx di immagini e metafore per fissare le dinamiche storico-sociali: ad esempio, nel mito di Prometeo, l’eroe di Eschilo, egli coglieva la radice del socialismo, il sogno di una liberazione e anzi di una redenzione, mentre nel Robinson Crusoe di Defoe poteva leggere al presente l’individualismo capitalista, il mito di una borghesia demiurgica. Quanto alle sue personali opzioni stilistiche, una pratica longeva del giornalismo lo aveva educato alla brevità pregnante, tagliente, alla concretezza, alla rapidità delle inversioni e delle antitesi, figure che gli studiosi di retorica dicono “di schema” e che qualunque lettore, tuttavia, riconosce nello stile del “Manifesto del Partito Comunista” (da lui steso integralmente nel 1848 sulla base di uno schema condiviso con Engels) e nella folgorante apertura del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”, dove tratta la mutazione della borghesia da rivoluzionaria a reazionaria nel cortocircuito fra Napoleone Bonaparte e Napoleone III detto il Piccolo: “Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa”.

In proposito non potrebbe essere più utile la lettura dello studio di Siegbert S. Prawer, “Karl Marx e la letteratura mondiale”, tradotto per le edizioni Bordeaux da Marco Papi e curato da Donatello Santarone, che firma anche un limpido saggio introduttivo. Datato 1976, il libro di Prawer (figlio di ebrei tedeschi scampati alla Shoah e allora docente a Oxford) era uscito in Italia da Garzanti nel 1978 ma con un titolo fuorviante, “La biblioteca di Marx”, ma passò inosservato: “una occasione mancata di incontro”, scrive Santarone, “tra italianistica, comparatistica, filosofia, storia, politica, economia, forse perché scritto da un riservato filologo oxoniense anglo-tedesco, estraneo ai clamori politico-culturali di quel tempo e per giunta neanche dichiaratamente marxista”. Il nuovo titolo viene direttamente da Goethe che conversando con Eckermann parla di Weltliteratur e perciò di una letteratura non più collocabile entro rigidi confini nazionali ma pensabile soltanto nell’ibridazione di lingue e culture diverse, nello scambio e nella pratica della traduzione. Chiaro nell’esporre, suffragato da una documentazione sempre di prima mano, Prawer procede per cronologia lineare e per ampi scorci analitici individuando l’interfaccia fra le predilezioni letterarie di Marx (i precedenti che un tempo si chiamavano fonti, oggi richiami intertestuali) e d’altro lato la sua personale produzione letteraria, il cui decorso è rilevabile, pari ad un sismografo, nel pluridecennale carteggio con Engels. Produzione che resta una delle massime imprese intellettuali dell’Ottocento: perché lì si alternano, di volta in volta, l’acredine polemica (come nella Ideologia tedesca o in Miseria della filosofia), la testimonianza del reporter (come nelle Lotte di classe in Francia), infine la teoria economica e filosofica che congiunge i Manoscritti del 1844 ai Grundrisse e alle pagine postume, un lascito ingente, del Capitale medesimo.

Abbasso i romantici. Poliglotta (a Londra nei suoi anni tardi imparerà a scrivere in inglese), nell’immaginario di Marx si contendono l’egemonia i capolavori di Cervantes e di Shakespeare, specialmente Il mercante di Venezia e Timone di Atene: la tragedia del denaro quale anima dei rapporti umani ispira fra l’altro la sua analisi della forma-merce e del cosiddetto accumulo primario. Riguardo ai contemporanei, oltre a diffidare della letteratura di propaganda come cosa inerte e retorica, Marx detesta in particolare il Romanticismo, ai suoi occhi rugiadoso e filisteo, ritenendolo la produzione organica alla borghesia nella sua fase più retriva, dove il bersaglio prediletto è Chateaubriand quale portavoce untuoso e mellifluo di una schiera di trasformisti passati indenni dalla Rivoluzione alla Restaurazione. Un altro è Schiller, soprattutto per gli abusi stentorei degli schilleriani cui riserva infatti gli strali velenosi che gli presta un amico e poeta invece prediletto nonostante la parabola politica non sempre inattaccabile, Heinrich Heine. Qui va detto che, via Marx, di matrice heiniana è lo stile di Gramsci, giovane redattore dell’Avanti e dell’Ordine Nuovo, quello che nei Quaderni del carcere chiamerà lo stile del “sarcasmo appassionato”; ma qui va aggiunto anche, per inciso, che tale non sarà lo stile tipico dei comunisti italiani, segnato viceversa dalla prosa rotonda e crociana di Palmiro Togliatti, che pure fu a suo tempo un eccellente traduttore del Manifesto.

Merito ulteriore di Prawer è chiarire una volta per tutte, e con dovizia di apporti, come Marx non abbia mai formulato una estetica organica ma, semmai, abbia preteso dalla letteratura come dall’arte in generale la rappresentazione di quella totalità umana (onnivalente, alla lettera) che i singoli individui non riescono a vivere a causa della divisione del lavoro e della conseguente alienazione. Santarone, non per caso, richiama nel titolo del proprio saggio l’espressione marxiana del “tutto artistico”, che vale infatti sia per la struttura polifonica del Capitale sia per la valutazione critica della letteratura. Sulla categoria di totalità si fonderanno sia l’estetica di Lukàcs sia quella teorizzata a contrasto dai Francofortesi, Adorno, Benjamin, ma anche il Marcuse che scrive “La dimensione estetica”.

Progetto Balzac. E’ nota anche che tra i progetti di Marx ce n’è uno concernente Honoré de Balzac, il cui nome nel carteggio con Engels spiega il paradosso della convivenza nello stesso individuo del legittimista nostalgico dell’Antico Regime con lo scrittore epico della borghesia in ascesa, l’autore della “Comédie Humaine”: tale paradosso proprio Lukàcs lo tradurrà in “trionfo del realismo”, concetto che segnala il prevalere di una forma artistica compiuta sui limiti ideologici di chi l’ha realizzata. Franz Mehring nella sua primordiale e tuttora insuperata “Vita di Marx” (la versione italiana di Mario Alighiero Manacorda e Fausto Codino è nel catalogo di Shake, 2012) ne ricava una divisa intellettuale e morale: “Nei suoi giudizi letterari Marx era libero da ogni pregiudizio politico, come dimostra già la sua predilezione per Shakespeare e Walter Scott, ma non accettava neppure quella pura estetica che spesso e volentieri va unita all’indifferenza politica. Anche in questo era appunto un uomo intero”. E ciò significa che per lui “totalità” non era altro che il sinonimo della umana verità.

 

Massimo Raffaeli

 

L’articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 21 maggio 2021, alle pp. 102-105.