I libri sono i nostri fratelli maggiori

I libri sono i nostri fratelli maggiori.

La prima volta che visitai una vera biblioteca avevo nove anni. Eravamo a Ravenna e ci accompagnava il grande filologo e grecista Manara Valgimigli. Quel giorno cominciai a pensare che…

 

Questo è un articolo scritto da Claudio Magris e pubblicato nel “Corriere della Sera” di domenica 4 dicembre 2016, alla pagina 35.

 

“Tra i libri della mia biblioteca ce n’è qualcuno che non aprirò più”, scrive Borges. Quei libri che non saranno più presi in mano e aperti fanno parte delle cose che la morte, vicina o lontana –“la morte mi logora, incessante”- ha già escluso dall’esistenza, come le strade che non si avrà più modo di ripercorrere.

Tra queste cose già morte per chi è ancora vivo alcune assumono per Borges un’intensità particolare. Forse perché, per lui, sono particolarmente amate e il distacco da esse è più doloroso. Il libro, per Borges, ha un forte legame con la morte; esso contiene tanta vita, forse la vita in sé, ma come una tomba racchiude una persona amata. La scrittura stessa sembra talora una lapide funeraria. Nell’Auto da fé di Canetti i dorsi pesanti dei volumi amati dal dottor Kien più di ogni altra cosa sono grevi di morte, corazze di un esercito che blocca il povero fremito della vita, fragile spora schiacciata dai tomi pesanti. Nel mito platonico il dio Toth che inventa la scrittura irrigidisce la vita e il libero fluire delle parole, farfalle trafitte nella bacheca.

La passione erotica e funebre per il libro nasce da un particolare rapporto con la morte stessa e con il logorio che la sua ombra, anche quando è ancora lontana, getta sulla vita. Ma non tutti gli amori sono eguali e non è detto che la Biblioteca debba essere quella borgesiana di Babele o quella digitale, utilissima ma che non si lascia accarezzare e anzi scoraggia il sensuale contatto fisico, perché basta sfiorarla per far sparire la pagina, fantasma erotico che si dissolve quando lo si tocca. La prima volta in cui ho visto una vera Biblioteca è stata un’impressione inappellabile. La Biblioteca Classense di Ravenna, nel 1948. Avevo nove anni e con i miei genitori eravamo andati a trovare mio zio Virgilio, fratello di mio padre e allora Prefetto di Ravenna (che non aveva autorizzato un comizio elettorale di mio padre, repubblicano, perché non voleva che lo stesso cognome accomunasse il rappresentante dello Stato a un uomo di parte).

A farci da guida nella Biblioteca Classense era Manara Valgimigli, il grande filologo, traduttore e studioso della grecità che aveva coperto cattedre prestigiose ma la cui passione più profonda erano i libri, la Biblioteca. Illustrati dalla sua sanguigna e bonaria sapienza di romagnolo –cui la familiarità con Persefone e le tragedie greche da lui mirabilmente tradotte non toglieva il gusto di vivere e l’amabilità, consapevole ma non succube del nulla- quei libri, quegli scaffali, quei meandri non mi sembrarono un’inquietante ossessiva muraglia ma piuttosto una foresta grande e, anche nella sua ombra, protettrice. Forse già allora intuii sia pur vagamente che si potevano amare i libri senza diventarne, come Raskol’nikov in Delitto e castigo, vittima. I libri potevano essere fratelli, sebbene maggiori e tanto più ricchi d’esperienza e d’intelligenza, e non necessariamente padri o profeti tirannici.

Anni dopo avrei letto Valgimigli, le sue traduzioni di Platone, di Saffo, dell’Antologia Palatina, i suoi studi sulla trilogia di Prometeo o sulla Poetica di Aristotele. Ma prima di arrivare a quei testi fondamentali, avevo letto i suoi scritti brevi e minori raccolti nel Mantello di Cebete e nella Mula di don Abbondio, analisi, ricordi e divagazioni che spaziano dall’antichità classica alla letteratura italiana (Leopardi, Manzoni, Carducci, Pascoli), dall’acuta critica letteraria alla curiosità culturale, con un’arguzia e un’ironia che rendono lievi pure la tragedia e la morte.

Valgimigli ha interpretato la terribile tragicità greca –desiderio di non essere mai nati e di tornare al più presto nel nulla da cui si proviene- e ha amato pure la provinciale Italia carducciana e garibaldina. Il suo umanesimo è esperto di tragedia, ma non sopraffatto da essa; lo sguardo pietrificante della Medusa non spegne il sorriso affettuosamente canzonatorio col quale Valgimigli, leggendo le lettere di Byron alla sua amante Teresa Guiccioli -conservate alla Classense-, prende garbatamente in giro quello e tanti altri famosi epistolari d’amore, che gli sembrano ricopiati da un segretario galante, e depreca che non siano finiti nel fuoco, rogo antico o termosifone moderno.

Valgimigli è un persuaso, come avrebbe voluto esserlo Michelstaedter; quando va in montagna col suo amico Concetto Marchesi, grandissimo e geniale latinista, quest’ultimo non vuol fermarsi mai, vuole sempre arrivare, essere già arrivato, mentre lui ama la sosta, il presente e non il futuro da raggiungere in fretta, il cammino e non la meta e la smania di arrivarvi. Ama la vita, non il suo traguardo, la morte.

Valgimigli sa, come Borges, che ci sono molti libri amati che non aprirà più e molti amati sentieri di montagna su cui non salirà più, ma questo pensiero non lo logora, come non lo logora la domanda se si romperà prima la sua tazzina di caffè o se cadrà prima la sua mano che ama portarla alle labbra. Sa che anche gli alberi, che gli sono amici quanto i libri, sono mortali. Quando si accorge che il suo grande frondoso albero preferito, alto e diritto come Ettore e Achille e come essi vulnerabile, si avvia alla morte perché le sue vene non gli recano più i succhi della terra, lo sente compagno di un comune destino.

La civiltà greca ha espresso il tragico più insostenibile e lacerante, ma anche il personaggio tragico distrutto dall’orrore è un eroe, come Ettore e Achille sul cocchio; annienta e viene annientato, ma non rimpicciolito. La biblioteca borgesiana di Babele è l’infinito infinitamente ripetibile della morte –prolissità della morte, dice la teologia- e il suo bibliotecario, che ammira il coraggio ma sa di essere pauroso, si aggira fra i milioni di volumi come un’immagine immateriale creata da un proiettore nascosto. Socrate, prima di morire, invece si lava per risparmiare questo lavoro a chi poco dopo si occuperà del suo cadavere e non parla troppo della morte. Forse perché non amava tanto i libri –forse non sapeva neanche scrivere, comunque preferiva chiacchierare con gli amici sotto un platano…

 

                                                                  Claudio  Magris