“Il nome della rosa” di Annaud

“IL NOME DELLA ROSA”   di  J. J.  ANNAUD.   1986

Interpreti: Sean Connery, Murray Abraham, Claus Slater, Fedor Chaliapin.

Estratti da un fascicolo di 112 pagine, pubblicato nel maggio 1996, custodito nella biblioteca dell’Istituto Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre; gli studenti sono sedicenni.

Prefazione

Il film racconta le vicende accadute in un’abbazia benedettina nell’autunno del 1327. Il frate francescano Guglielmo da Baskerville è incaricato di indagare su una serie di disgrazie: un monaco precipitato da una torre, un altro affogato in una botte piena di sangue di maiale, mentre –negli stessi momenti- si sta svolgendo un acceso dibattito sulla povertà nella Chiesa tra una delegazione di fraticelli francescani e i rappresentanti del papa. Guglielmo scopre che si tratta di delitti e non di diavolerie come vuole far intendere l’Inquisizione, omicidi dettati dalla volontà di tenere segreto un codice della “Poetica” di Aristotele, il volume sull’”Arte comica”, ritenuto sovversivo dal filone più intollerante della cultura abbaziale.

In questo nostro terzo quaderno di analisi –per sequenze- di un testo cinematografico affrontiamo un tema di storia e cultura del cattolicesimo medievale europeo. Gli studenti –nelle loro minuziosità interpretative- sono stati, come al solito, acuti indagatori e, più del solito, originali osservatori. La mia impressione è che siano riusciti a calarsi, mirabilmente a volte, nel chiuso di un’abbazia trecentesca: abbiano udito l’eco, il mormorio delle preghiere corali e del pettegolezzo fratesco; abbiano ascoltato le parole senza voce che parlavano dentro il cuore dei protagonisti senza che essi stessi potessero rispondere compiutamente; abbiano assistito, senza mediazioni, agli incontri diretti delle anime con Dio e con Satana; si siano identificati, con passionalità ingenua, nelle emozioni –anche intellettuali- del giovane novizio Adso. Hanno percepito, pur tra intuizioni confuse, che il film narrava di monaci che contemplavano i libri con occhi visionari; li leggevano con gli sguardi, li ruminavano a bassa voce, li rigiravano in bocca con un ronzio incessante di ape, così da assimilarli meglio; poi li mangiavano, li masticavano, ne gustavano il sapore ora di miele, ora di pane, ora di vino, ora di arsenico. Impegnavano tutti i loro sensi, vedevano gli oggetti rappresentati, odoravano le fibre della cartapecora, ne palpavano il profumo ideologico e –come per Adelmo e Venanzio e poi gli altri- si estasiavano e morivano.

Per una guida, seppure sommaria, alla stesura del fascicolo ho sottolineato alcuni dati sul tempo, lo spazio, i protagonisti, i processi storici.

La temporalità. A differenza del romanzo di Eco –che scandisce le vicende in sette giorni, intitolando a ognuno un capitolo, “sul finire dell’anno di Dio 1327”– il film non attribuisce centralità e particolari significati allo scorrere del tempo. Siamo in un tardo autunno, ci sono già freddo e neve; l’alternarsi del giorno e della notte segna l’intreccio dei fatti in sole 96 ore.

La spazialità. Penso sia interessante richiamare l’attenzione sui tre spazi topici del racconto.

A- lo spazio labirintico della biblioteca-scriptorium, con gli amanuensi (pregi, vizi, misteri, personalità), i tavoli da lavoro, i codici miniati (conservati ma inaccessibili, da non leggere).

B- lo spazio mistico della chiesa-preghiera, con i riti religiosi, i canti salmodianti, le facce, le sculture, i simboli del sacro e del demoniaco.

C- gli spazi del mondo materiale: il refettorio, le cucine, i magazzini, l’erboristeria-laboratorio, i saloni del dibattito e del processo.

Sintomatici sono anche il rapporto “interno-esterno”, con l’abbazia vista nella sua bellezza, imponenza e monumentalità e con lo squallore degli esterni, incolti e miserabili; e il gioco semiotico “alto-basso” e “verticale-orizzontale” nel racconto e nelle inquadrature, dalla torre ai bastioni fino al dirupo. Da notare, infine, come esempio di contaminazione culturale, che i luoghi dell’abbazia ricordano –insieme- l’antica pianta del monastero di San Gallo, il portale della cattedrale di Moissac, il timpano della chiesa di Vezelay, lo schema del distrutto labirinto pavimentale della cattedrale di Reims, la struttura di Castel del Monte in Puglia.

I Protagonisti. Schematizzando procedo per categorie oppositive poiché il film –rispetto al romanzo- semplifica, banalizza, falsifica ma anche sintetizza efficacemente. Ecclesiastici e laici. Il racconto è dominato da figure religiose. Guglielmo (frate razionalista, spregiudicato, intellettuale problematico e inquieto, che s’immagina in rapporti con Marsilio da Padova, Ruggero Bacone, Guglielmo d’Occam) è opposto a Bernardo Gui (Inquisitore potente, dogmatico, intollerante). L’Abate (incerto, timoroso, untuoso a volte) è speculare al vecchio monaco Jorge (figura complessa e paurosamente affascinante con le sue esigenze fanatiche di Assoluto) e a Jorge fa anche da contraltare Guglielmo, infaticabile ricercatore di testi. Poi ci sono le varie tipologie dei frati. I poveri fraticelli francescani opposti ai ricchi cardinali di Curia, macchiette appena sbozzate. I laici praticamente non esistono, ci sono solo figure di contadini e di artigiani inselvatichiti. Si presenta un medioevo cupamente monacale e integralisticamente religioso, anche perché è del tutto assente la città della cultura laica e mercantile. E’ un mondo questo in cui la campagna-chiesa è tutto. Maestri e discepoli. E’ interessante il rapporto tra Guglielmo e Adso e non solo da un punto di vista pedagogico-culturale; non privo di suggestione è anche il legame tra il cellario Remigio e Salvatore. Dotti intolleranti contro dotti problematici. E’ uno scontro culturale in cui spicca, isolata nella sua modernità, la figura di fra Guglielmo, l’unico a interrogarsi con l’aiuto della ragione e senza mai ricorrere all’autorità della tradizione, del potere, della stessa verità divina. Si può dire che un assunto del film sia la riproposizione, nel 1327, del contrasto tra cultura medievale e cultura pre-umanistica, di cui rispettivamente Jorge e Guglielmo sono rappresentanti. I processi storici. Sono citati: lo scontro interno alla Chiesa tra fautori del pauperismo e difensori della ricchezza; la lotta politica tra papa e imperatore, e –sullo sfondo- l’autonomia dei Comuni; l’Inquisizione contro gli eretici; la non tanto dissimulata rivalità tra benedettini e ordini mendicanti. E’ da rimarcare la caricatura storica dei contadini che attorniano il monastero: sono straccioni che vivacchiano sotto le mura aspettando i rifiuti dei monaci mentre si sa che le abbazie gestivano una possente e ordinata attività economica, con efficienti sistemi di produzione e di carità.

Maggio  1996                                                           prof.  Gennaro Cucciniello

L’abbazia, maestosa bellezza terrena

Un tocco di campanelli e, in lontananza, un suono teso; nessuna immagine, lo schermo è nero, poi all’improvviso dal nulla una voce. Un senso di inquietudine e turbamento afferra lo spettatore come se in quella voce, in quelle prime parole si celasse qualcosa di oscuro, enigmatico. Subito dopo appare il titolo, anch’esso sulle prime poco comprensibile, “Il nome della rosa”. Ed ecco che inizia il film: due personaggi a dorso d’asino vanno attraversando con andamento misurato e lento un’enorme distesa di monti e, in un susseguirsi d’immensità fra cielo e terra, i due ormai si apprestano all’abbazia loro meta (di cui il narratore terrà segreto il nome). Inerpicandosi per un sentiero scosceso e tortuoso che si snoda intorno ad uno dei monti, avvolto in un paesaggio che oscura i colori della terra della campagna della strada, spenti e qua e là coperti da un lieve strato di neve fresca, ecco emergere, fra gli alberi ridotti a scheletri nudi, l’abbazia.

Maestosa, compatta e salda sul terreno con imponenza e irremovibilità, l’abbazia si protende verso il cielo quasi a volerlo toccare. E mentre i due personaggi “si appressano a quelle mura, la pietra e le torri massicce sembrano descrivere indubitabili presagi”. Ecco un rumore aspro e forzato. La porta si apre e la storia ha inizio. In tutto il film i rumori, il paesaggio, i personaggi, insomma tutto l’ambiente che avvolge le scene in cui hanno luogo le vicende oscure che coinvolgono l’intero convento, svolgono un ruolo fondamentale nel creare suspence e smarrimento. Il paesaggio è autunnale, freddo, nel quale molte volte il fumo di qualche fuoco acceso dai monaci viene a confondersi e a unirsi con la nebbia. Pure l’ambiente interno dell’abbazia si rivela oscuro, misterioso e poco illuminato. Infatti le varie celle dei monaci, la sala dove sono soliti mangiare, i corridoi, lo scriptorium, la biblioteca, la chiesa… sono tutti luoghi illuminati solo dalla debole luce delle candele. Anche la scultura sui portali si presenta strana e complessa. Bellezze terrene e maestosi segnali soprannaturali si contrappongono ad una natura minacciosa di animali infernali che si contorcono e si dilaniano.

Tutto questo scenario assume maggiore rilevanza quando all’immagine si accostano i rumori. In tutta l’abbazia predomina il silenzio. Ma il “silenzio dominatore” viene qua e là spezzato spesso da passi cadenzati, tavole di legno che scricchiolano, dal vento che soffia impetuoso, dal gracchiare dei corvi, dalle urla dei monaci, dai maiali che vengono uccisi e squartati, dai canti e dalle preghiere dette in latino… e infine, soprattutto, dai dialoghi dei protagonisti. Anche i monaci che si presentano ad accogliere i due nuovi arrivati sono personaggi insoliti. Già il loro aspetto fisico è particolare: occhi strabici, nasi e bocche deformi, il capo pelato con fronti sporgenti e bitorzolute, tutti avvolti dalle loro tuniche scure. Guglielmo da Baskerville –frate francescano- e Adso da Melk, suo discepolo, entrambi “attenti osservatori”, riescono a scorgere nell’aria un respiro inquieto ed agitato, come se l’abbazia volesse parlare, estrapolare dalle sue pietre la verità.

 

                                                                                  Giada  T.

 

L’arrivo all’abbazia

“Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno 1327. Che Dio mi conceda di essere testimone trasparente e cronista fedele di quanto allora avvenne, in un luogo remoto a nord della penisola italiana, di cui è pietoso e saggio tacere il nome”. Queste sono le parole di Adso che, ormai vecchio, richiama alla memoria e cerca di rivivere quei brutti e insieme piacevoli ricordi incancellabili: le parole si sovrappongono a una colonna sonora che preannuncia le terribili vicende dell’abbazia. Iniziano le immagini: colline erbose che man mano vengono inquadrate con un campo lunghissimo (la macchina da presa infatti indietreggia). Si vedono così due pali eretti e bruciati, ancora fumanti, spaventoso presagio di morte. Un po’ più lontano si intravedono due persone su due asini, l’inquadratura diventa campo medio e prima dal davanti e poi da dietro sono inquadrati Adso e Guglielmo. I due poi si fermano, c’è un rincorrersi di primi piani, l’espressione del più giovane è stupita. In sottofondo si sente un suono di campane, si scorge in lontananza un’abbazia. Cambia la scena, i due hanno raggiunto un boschetto di conifere e si trovano ad una curva. Il paesaggio è imbiancato dalla neve, il sentiero su cui procedono è in salita, si sente lo scroscio dell’acqua di un torrente. La macchina da presa si alza e comincia a delinearsi l’abbazia. Del fumo la copre leggermente, si sente un canto gregoriano e ad esso si aggiungono poi delle voci: sono quelle dei poveri che vivono ai piedi del monastero. Essi parlano del freddo e della difficoltà di trovare della legna asciutta dopo l’abbondante nevicata.

Cambia l’inquadratura: un portone scuro si apre (se ne sente il cigolio), man mano che la porta si spalanca c’è un contrasto con la luce che arriva dal cortile interno: si vede la grata, che blocca l’uscita, alzata. Nel cortile diversi uomini camminano affaccendati. Guglielmo ed Adso entrano, sono ricevuti da alcuni monaci che danno loro il benvenuto: non hanno facce molto rassicuranti. Si sentono le parole di Adso: “Possa la mia mano non tremare mentre mi accingo a rivivere quegli eventi e a ricordare l’inquietudine sottile che opprimeva l’animo mio, mentre mi appressavo a quelle mura, perché oggi so che stavo lentamente interpretando indubitabili presagi scritti in quella pietra”. Il novizio è attonito per lo spettacolo della grandezza dell’abbazia e si guarda intorno; il portone viene chiuso, i due sono definitivamente entrati in questo “luogo abbandonato da Dio”. Anche Guglielmo si guarda attorno; si vede un monaco chinato che guarda gli ospiti, accompagnati da Remigio, il cellario; in sottofondo si sente sempre il canto gregoriano, si sentono e si vedono i fabbri che lavorano. Si ascoltano anche il vento e altri rumori, un altro monaco pulisce dei gradini coperti da foglie. La ripresa adesso è effettuata dall’alto: i tre che camminano sono infatti osservati dai piani superiori. L’abate Abbone li sta guardando da una finestra posta molto in alto ed è in compagnia di Malachia, il bibliotecario. Nella stessa stanza c’è Jorge, seduto; l’espressione di Abbone è preoccupata ed è accentuata dallo scuro cappuccio che gli copre la testa. C’è uno scambio di battute: l’abate chiede a Malachia se ne devono parlare con Guglielmo ma il bibliotecario risponde di no, poiché potrebbe guardare nei posti sbagliati. Abbone continua, dice che il francescano potrebbe scoprirlo da solo ma Malachia questa volta ribatte che sopravvaluta “i talenti” dell’uomo. Qui ci si riferisce alla strana morte di un monaco molto giovane, avvenuta qualche giorno prima, ma –visto che non la si riesce a spiegare- si pensa a un intervento diabolico. Tutta l’abbazia è inquieta e per questo si temono scoperte preoccupanti. Malachia accenna nella sua risposta a “posti sbagliati” con riferimento alla preziosa biblioteca, posto segreto e nascondiglio di verità, a volte pericolose; secondo lui solamente la Santa Inquisizione può indagare su quei fatti. Abbone fa una smorfia e con una mano tocca il prezioso crocifisso che porta al collo, sopra il saio. La macchina da presa sposta l’obiettivo e si vede Jorge; viene chiesta la sua opinione e il vecchio cieco risponde che preferisce “lasciare tali cose mondane a uomini più vigorosi di lui”. Per tutta la conversazione non c’è stata colonna sonora ma ogni tanto si sentivano degli scricchiolii del pavimento di legno.

Cambia lo spazio, adesso ci si trova nella cella assegnata a Guglielmo e Adso, si vede e si sente l’acqua che è versata in una ciotola, è poi inquadrato Adso. Il povero novizio ha qualche difficoltà nel trattenere i suoi bisogni corporali. Si sentono delle cornacchie gracchiare; Guglielmo si sta rinfrescando e, imperturbabile, dice ad Adso che “per dominare la natura prima bisogna imparare ad obbedirle”; ha capito l’urgente bisogno del ragazzo. Il frate poi, disturbato o forse insospettito dai versi degli animali, guarda dalla piccola finestra, dà poi le indicazioni per trovare il cesso. Adso si precipita verso la porta ma, dopo averla aperta, si ferma sorpreso: non capisce come il suo maestro possa sapere, visto che si trova qui per la prima volta, e chiede chiarimenti. Il francescano spiega che, arrivando, aveva visto un monaco recarsi in quella direzione molto velocemente e poi uscirne più calmo e più lentamente, da questo aveva dedotto le sue conclusioni. Guglielmo si rigira verso la finestra, si sentono di nuovo i versi dei corvi; quando Adso chiude la porta, cambia l’immagine. Quello che si vede è ciò che sta osservando Guglielmo dalla sua finestrella: un cimitero. C’è un particolare: mentre la neve copre tutti i cumuli di terra, uno solo è scoperto, è una tomba molto recente. Sopra la tomba c’è un corvo, è inquadrato il volto di Guglielmo, poi nuovamente il sepolcro, l’uomo chiude la finestra e comincia a disfare i propri bagagli; dalla sacca tira fuori un oggetto, un astrolabio, che tratta con cura e che appoggia sul letto; si sentono dei passi e arriva Abbone che si affaccia ad un’apertura della porta, ma prima Guglielmo ha coperto l’astrolabio con un panno. Abbone entra, Guglielmo congiunge le mani, l’abate gli dà il benvenuto e si scambiano un bacio. Tra i due c’è un piccolo dialogo, freddo e molto formale, con delle informazioni sull’arrivo dei delegati papali. D’improvviso il francescano si dice addolorato per la recente morte di un monaco; un primo piano evidenzia l’espressione sconvolta dell’abate, si sente uno scricchiolio. Abbone conferma e dice che il defunto era Adelmo da Otranto, Guglielmo resta colpito, conoscendo per fama il miniatore. Nuovamente si sentono i corvi: il frate chiede se sia stato un incidente e l’abate, con un po’ di esitazione, conferma ma non riesce a nascondere l’inquietante verità, chiude la porta e racconta l’accaduto, ansioso di farlo. L’uomo confessa a Guglielmo che il suo arrivo è anche l’esaudimento di una sua preghiera: aveva infatti chiesto l’arrivo di qualcuno che fosse a conoscenza sia dello spirito umano sia dell’astuzia del Maligno. A questa affermazione il volto di Guglielmo si fa più scuro. Abbone dice che questa morte ha portato inquietudine nell’abbazia. Si apre la porta e rientra Adso, che è presentato e saluta l’abate baciandogli l’anello. Nel frattempo il discorso continua e si racconta che dopo un violento uragano si è ritrovato il corpo orrendamente mutilato giù dalla rupe, sotto la finestra chiusa di un torrione: com’è accaduto il fatto? La finestra era chiusa dall’interno, e il vetro non era rotto, e non si può accedere al piano superiore: è opera di Satana. Abbone confida molto in Guglielmo, gli dice infatti che aveva proprio bisogno di una persona che fosse abile sia nello scoprire e poi eventualmente nel ricoprire, prima dell’arrivo dei delegati papali. Guglielmo ribatte che non si occupa più di questo; sottilmente però l’altro lo obbliga ad investigare; dice infatti che sarà costretto, per calmare la paura dei monaci, a chiamare l’Inquisizione. Ora Guglielmo è turbato: in passato era stato Inquisitore anche se poi aveva preferito lasciare l’incarico. Penso anche che sia importante la differenza tra Malachia e l’abate nel definire l’Inquisizione: per il bibliotecario è la Santa Inquisizione (dice “Santa” perché crede che possa scoprire la verità o perché sa che può nasconderla?) mentre per Abbone è semplicemente l’Inquisizione, parola che obbliga Guglielmo ad indagare.

Ritorna più volte (per i colori chiari e quelli scuri) il contrasto cromatico tra la candida neve e la terra scura, sia nel boschetto prima dell’arrivo all’abbazia, sia nell’osservazione del piccolo cimitero. Anche i sai dei monaci contrastano tra loro. Altro gioco semiotico è quello di luce-buio e anche questo ritorna più volte. La prima parte della sequenza si svolge fuori, alla luce, mentre la seconda all’interno, dove la luce è filtrata e limitata dalle finestre. L’abbazia è presentata in tutta la sua imponenza, scenario di innumerevoli misteri inquietanti.

 

                                                                       Francesca  F.

 

 

 

Notte di affascinante inquietudine  

La sequenza inizia con i monaci riuniti in mensa per il pasto serale; l’abate esprime la sua ansia per la morte del miniatore Adelmo e presenta frate Guglielmo alla comunità; essa si conclude nella cella di Adso e Guglielmo, dove il ragazzo, in preda ad orribili incubi, si aggrappa al braccio del suo maestro che, quasi con “tenerezza”, rimane accanto a lui.

Sviluppo degli avvenimenti. E’ la prima notte dei nuovi arrivati all’interno dell’abbazia. Dopo la misteriosa morte di Adelmo l’atmosfera è molto tesa e tutti i monaci, riuniti a mensa, sentono un’aria di morte gravare sulle loro spalle. Il mistero è irrisolto e pare irrisolvibile, tanto che per darvi una soluzione plausibile si ricorre subito al Maligno. Solo le parole bibliche del lettore spezzano freddamente il silenzio denso di presagio e, invece di rendere forti gli animi dei frati, contribuiscono ad aumentare la loro paura: “Che il monaco non rida, perché solo lo sciocco solleva la sua voce nel riso”. Ogni suono martella nella mente dei monaci come il bastone di Jorge sul pavimento.

Ora è buio e la pace della vallata è solo apparente. Adso è sconvolto dopo una giornata così agitata e non riesce nemmeno a capire perché Guglielmo eviti le sue domande. Jorge si rifugia nelle sacre letture alla ricerca della sicurezza che solo Dio, non di certo la ragione, può dare. Nella torre-fortezza della biblioteca qualcuno sta leggendo il proibito: un monaco giovane ed avvenente, proprio come lo era Adelmo, sta ridendo. Nella semioscurità di un’altra cella c’è chi sta punendo il proprio peccato a colpi di frusta.

Temi evidenziati. Questo frammento di film si presenta strutturalmente come l’insieme e l’intreccio di diverse ideologie e stati d’animo, in opposizione tra loro. Ciò viene rappresentato fisicamente, concretamente nella scena iniziale: i monaci sono riuniti in mensa, attorno alla stessa lunga tavolata, ma ognuno di loro sta contemporaneamente pensando alla stessa situazione in maniera totalmente differente dagli altri. Jorge è l’espressione della cieca obbedienza a Dio, che non ammette vie di mezzo; la fede richiede sofferenza ed esclude il divertimento. Guglielmo, pur essendo in ottimo rapporto con la sua fede, punta molto sulla ragione per raggiungere la verità. In Adso, giovane ragazzo inesperto, ha molto valore il fattore emotivo che lo rende insicuro, timoroso e non in grado di agire lucidamente. Ma l’arrivo della notte separa i vari personaggi, scatenandone le vere essenze, nel segreto del silenzio e dell’oscurità.

“Nella grande saggezza sta il grande dolore, chi incrementa il proprio sapere aumenta anche il proprio dolore”. Il vecchio cieco si abbandona all’ascolto dei testi sacri per estrapolarne i giusti consigli che lo sollevino dalla sua agitazione interiore; infatti la sua incondizionata assoluta fede in Dio non lo rende, come lui cerca di far credere agli altri e a se stesso, immune alla paura. Anche Guglielmo, che risponde alla stretta del povero Adso immerso nei suoi incubi, lascia trasparire negli occhi la sua inquietudine, che nemmeno la sicurezza della sapienza sa sconfiggere. Né Jorge, né Guglielmo, né Dio, né la ragione hanno il sopravvento sull’uomo; l’uomo coi suoi sentimenti, con le sue debolezze, l’uomo mai perfetto che cerca e vuole conoscere la sua rosa, pur sapendo che mai riuscirà ad averla. Ed è ugualmente l’uomo che non riesce a resistere alla tentazione delle cose provate; anche questo secondo tema è imperniato sulla fragilità dello spirito che si lascia trascinare nel peccato, nonostante la consapevolezza dell’errore. Infatti: Venanzio, compagno di Adelmo, nello scriptorium appena illuminato gode leggendo opere di filosofi antichi. Lo fa con trasporto ma nello stesso tempo con palpitazione: ha paura perché è nel male, sta trasgredendo alle regole ma non si oppone a questo fascino. Vestito solo di buio, nella sua cella Berengario si punisce, punisce la sua carne per il peccato commesso; anch’egli è cosciente dei propri sbagli ma non solo ora… lo era anche prima di commetterli. La trasgressione è sempre più forte, è più comodo pentirsi che prevenire. Il buio e l’oscuro sono quindi più rivelatori che la luce del giorno. Nelle ore illuminate dal sole la vita dell’abbazia è finzione ed è quando compaiono la luna e le stelle che la realtà ha inizio. Che poi la realtà segua la strada sbagliata non ha importanza, l’importante è che la verità s’intrecci e si snodi durante la notte dove tutti sanno tutto e nessuno sa niente.

Analisi linguistico-stilistica. Come ho appena fatto notare, il film alterna in modo evidente i giorni e le notti. Ho preso in considerazione una sequenza che comprende l’arco di un’intera nottata. Naturalmente le azioni si svolgono pressoché totalmente in uno sfondo buio o scarsamente illuminato. In questo caso la luce e l’oscurità hanno ruoli invertiti: il buio è testimone della verità e racchiude in sé gli avvenimenti “reali” (si noti che, in seguito, le scoperte più importanti di Guglielmo per la risoluzione del mistero avverranno di notte o comunque in luoghi bui ed impenetrabili come la biblioteca); la luce, al contrario, porta i monaci a conservare e nascondere i propri segreti e, inoltre, la particolare illuminazione in queste scene (candele in mensa e nello scriptorium) contribuisce a rendere l’atmosfera ancora più grottesca, alterando i lineamenti dei personaggi. Il ritmo alternato viene sfruttato anche scenicamente: la sequenza cioè è propriamente costituita da flash di diverse situazioni che avvengono contemporaneamente in luoghi distinti. Ogni micro-sequenza è il riflesso di un diverso pensiero, di un diverso punto di vista sull’enigma, di un diverso coinvolgimento nel mistero. Ecco, quindi, che in cinque minuti vengono dati elementi, forse un po’ ambigui, che possono sciogliere o aggrovigliare ulteriormente il corso della vicenda. Infine il regista dedica molta cura anche ai primi piani dei personaggi, probabilmente per poter scavare a fondo il loro animo. E’ rivelatore, infatti, lo sguardo di passione e piacere che nel refettorio Berengario rivolge a Venanzio, ed è ugualmente significativa l’espressione ardente, di trasporto e paura insieme, che leggiamo sul volto di Venanzio stesso, intento nella lettura.

 

                                                                       Elena  P.

 

 

Notte affascinante e irrequieta  

 

Nel refettorio. “Lodiamo Dio Onnipotente poiché non ci sono motivi per sospettare la presenza di uno spirito maligno tra di noi, sia di questo mondo che di un altro”. Così si apre la prima scena di questa sequenza densa di mistero, di paura, di indizi in codice cifrato: è l’abate che tenta di riportare la calma, la tranquillità, la serenità all’interno della sua abbazia, sconvolta dalla morte del giovane frate Adelmo. E sono proprio le oscure circostanze di questa scomparsa a inquietare gli animi dei benedettini, che ricercano nella presenza del Maligno la causa prima del tragico evento. Ma, come prima guida spirituale, l’abate deve placare gli animi irrequieti dei suoi confratelli e le sue parole sembrano mirare a questo. E’ reso bene dalla macchina da presa questo tentativo: il primo piano dell’abate ci mostra un viso illuminato dalla luce calda delle candele, un viso preoccupato ma che non fa trasparire troppo l’ansietà e la trepidazione, in evidenza solo una trifora alle sue spalle. Il cappuccio alzato sul capo e il resto della veste scura si perdono nel buio dell’inquadratura. Si può notare un’antitesi semantica tra le parole appena pronunciate e quelle che concludevano la sequenza precedente: infatti Adso aveva domandato al suo maestro: “suicidio?” –riferendosi all’indagine appena svolta, secondo cui Adelmo si sarebbe ucciso- “Voi pensate che questo sia un luogo abbandonato da Dio?”; e Guglielmo con un sottile velo di ironia: Hai mai conosciuto un luogo dove Dio si possa trovare a suo agio?”. Ecco allora il gioco antitetico tra la non-presenza dello spirito maligno dichiarata dall’abate e la presenza di Dio, se pur non a suo agio. Lo stesso contrasto cromatico dell’ambiente sottolinea queste diverse posizioni: Guglielmo ed Adso sono avvolti da gelide tonalità azzurre e grigie mentre l’abate, e il refettorio stesso, sono immersi nel calore della luce giallo-rossastra delle candele.

“Lodiamo il Signore perché il dibattito che siamo tanto onorati di ospitare possa ora procedere senza la minima ombra di paura. Lodiamo inoltre il Signore per aver inviato a noi il fratello Guglielmo da Baskerville la cui esperienza accumulata in precedenti uffici, per quanto gravosi per lui, ci è stata qui di grande beneficio. Possano la serenità e la pace spirituale regnare di nuovo nei nostri cuori” continua l’abate. La “camera” allarga il proprio campo di ripresa includendo, a sinistra, frate Guglielmo e, a destra, il venerabile Jorge. Anche qui sembra che la spazialità voglia rendere concreto il significato delle parole appena espresse: si parla di un dibattito, quello che qualche giorno dopo avrà luogo tra fautori della povertà evangelica nella Chiesa e sostenitori della ricchezza, e la disposizione dei personaggi concretizza questa rivalità. Si hanno infatti Guglielmo e Jorge in opposizione: l’uno rappresentante della povertà di Francesco d’Assisi e dell’amore per la cultura e la sapienza, l’altro sostenitore del dolore provocato dall’apprendere. Forse è un fatto insignificante ma mi ha colpito la contemporaneità tra il risuonare della parola “dibattito” e la completa ripresa del terzetto, accompagnata dalla scelta di frapporre fra i tre due fiammelle. Poi il refettorio è ripreso dall’alto, quasi a rendere il senso della totalità, dell’insieme che è coinvolto sia in questo dibattito sia nel clima di terrore provocato da una morte inquietante. Alla parola “paura”, la”camera” ritorna sul volto dell’abate quasi a sottolineare, nuovamente, il contrasto tra la reale atmosfera e il tentativo di riportare stabilità e pace nel monastero. L’inquadratura dall’alto, che bene visualizza la molteplicità dei monaci irrequieti e intimoriti, contrasta (proprio dal punto di vista visivo) col primo piano dell’abate, emblema dell’autorità monastica portatrice di equilibrio. Dal punto di vista sonoro l’effetto singolo-molteplice è reso dal vocio diffuso che percorre la mensa.

Nel secondo momento del discorso dell’abate viene introdotta la figura di Guglielmo: l’occhio dello spettatore scruta ora, nel primo piano di questo personaggio, la magia, la sapienza, il fascino della figura del francescano. Ed è la luce calda delle candele a illuminargli il viso calmo, impassibile, facendone risaltare la maturità, l’esperienza di una vita vissuta alla ricerca della sapienza, della giustizia (quanto contano l’interpretazione e il fascino di Sean Connery!). Nell’accennare a quella sua incombenza in precedenti uffici, per quanto a lui gravosi, l’abate suscita in Adso la curiosità, la sorpresa per il passato del maestro di cui, si intuisce, egli ignora tutto; la macchina da presa rende brillantemente il gioco di sguardi che intercorre tra i due. Il ragazzo cerca un cenno di consenso per un’eventuale successiva confessione, per un chiarimento, per una confidenza che porterebbe tra i due all’instaurarsi di un rapporto nuovo. In quello sguardo stupito, meravigliato, anche intimorito, Adso denota il desiderio di andare al di là di questo suo semplice essere novizio, la volontà di ritrovare in Guglielmo la figura paterna. Ma spostandosi in primo piano sullo stesso maestro, la “camera” sottolinea il dissenso proprio di quest’ultimo che placa, zittisce con un’occhiata la speranza del novellino. Tre primi piani si susseguono quindi a sottolineare questo incrocio di sguardi, scambio di pensieri, manifestazioni di sentimenti e sensazioni. Il battere delle mani dell’abate chiude questa prima micro-sequenza: la “camera” riprende in ordine, da sinistra, Guglielmo l’abate e Jorge. In questa disposizione spaziale si può notare la contrapposizione, indicata dalla presenza delle due candele rispettivamente di fronte ai protagonisti di questa antiteticità: il francescano Guglielmo e il benedettino Jorge. Illuminati da luci di natura diversa, l’uno dall’amore per la sapienza, l’altro da una fede totalizzante, coesistono all’interno dello stesso ambiente, rendendo emblematico il dibattito sulla conoscenza, sulla fede, su Dio. Quasi a rendere questa totalità, nuovamente lo sguardo dello spettatore è condotto in alto, ad osservare l’insieme dei fratelli, partecipi, anche se indirettamente, di questo confronto.

Ancora nel refettorio. Una pittoresca immagine dell’esterno dell’abbazia, sul fare della sera: il campo lungo trasmette a noi spettatori un senso di maestosità, di rara bellezza, data dalla semplicità dei colori freddi (prevalentemente celeste, grigio) e dalla timida presenza della luce fievole del sole che ormai sta per tramontare. Con debolezza, la facciata della chiesa –luogo sacro dove Dio incontra gli uomini anche in queste circostanze oscure che sembrano minacciare la quiete del monastero- è illuminata. Azzardando un’ipotesi su questo nascosto, ma non invisibile “effetto luminoso”, potrei dire quasi che il sole stia a significare la presenza di Dio nonostante tutto, sebbene proprio questo “esserci” sia talmente debole da far presagire, invece, il dominio del Maligno. Si rientra, ora, all’interno del refettorio dove, con voce solenne, un monaco legge, in latino, le sacre scritture: “Che il monaco controlli la propria lingua e non parli finché non sia stato interrogato”. La macchina da presa inquadra il lettore di lato nel momento iniziale, poi -alla fine- dall’alto verso il basso. La sua voce si diffonde in ogni angolo della vasta sala e giunge all’orecchio di ogni commensale anche se è ben riconoscibile un mormorio di fondo: ma il messaggio dato è di gran valore e il tono del recitante sembra rendere bene questa solennità. Scorre una fila di monaci, nessun volto scoperto se non quello di Berengario che si sporge con il busto per guardare Adso, anch’egli proteso in avanti sul piatto, che non si accorge però dell’attenzione ambigua rivoltagli dal confratello: il monaco grasso ne ammira la freschezza, la giovinezza, l’innocenza. Ed è proprio questo soddisfare i propri sensi a farci indugiare, sospettare sul passato di questo monaco dal colorito pallido e dallo sguardo languido. Ma la voce divina delle sacre scritture è udibile ancora e proprio questo ascolto collettivo è reso dalla ripresa dall’alto dell’ambiente, quasi anche a sottintendere una provenienza divina della lettura.

“Che egli non rida poiché solo lo sciocco solleva la sua voce nel riso”, continua il lettore. Ora ad evidenziare il rilievo delle parole lette è il vecchio Jorge (di cui si ha un primo piano) che, battendo una mano sulla tavola, cerca di richiamare l’attenzione dei commensali, di scandire il peso delle parole. E il venerabile sente così vicino a sé e alla situazione attuale ciò che è stato appena pronunciato che assume quasi un’espressione di sofferenza, di dolore nel percepire la leggerezza con cui viene ascoltato. Per la prima volta, in questa sequenza, fa la sua comparsa la musica: mentre la “camera” si sposta dal primo piano del vecchio cieco a quello del giovane Venanzio una melodia di violini rende l’atmosfera intrisa di segreto, di occulto, di enigmaticità. E lo scrutare proprio dello stesso Venanzio è scrigno di un mistero che ci riconduce a quello strano gesto dello scandire di Jorge: sul volto del giovane monaco di origini orientali si dipinge la conoscenza di qualcosa che deve rimanere sconosciuta… nessuno deve sapere. Solo Guglielmo cattura questo indizio. A livello sonoro è individuabile quello che in musica si dice un contrappunto, cioè una combinazione, un intreccio di più melodie impostate su temi diversi. In questo caso “le melodie” sono individuabili nella voce del lettore, nella musica, nel battere ripetuto di Jorge. E quindi, individuati tre momenti, si possono ordinare i tre motivi secondo l’intensità e l’importanza assunte: il battere ripetuto di Jorge, la voce del lettore; la musica, la voce del lettore, il battere ripetuto di Jorge; il battere ripetuto di Jorge, la voce del lettore.

Le domande di Adso. Anche questa micro-sequenza è annunciata da due immagini di sfavillante bellezza ma, insieme, di grande inquietudine: la notte è ormai calata all’interno dell’abbazia e la luce della luna illumina lo spazio scrutato dalla “camera”. Predominano i colori freddi, il pallore della luce lunare, il blu scuro del cielo e il tetro grigiore degli edifici circondati dalle mura perimetrali, il tutto vestito da un grande silenzio. La prima delle due fotografa l’ampio spazio antistante la biblioteca e quindi anche lo scriptorium; in sottofondo si odono lamenti di animali, mi sembra il miagolio di un gatto, l’abbaiare di un cane o l’ululato di un lupo. Ma a questi, ben presto, si sostituisce una melodia che annuncia un nuovo susseguirsi di emozioni, parole, segni, presagi. Alla biblioteca subentra il refettorio, inquadrato frontalmente. Entrambe le immagini sono anticipatrici poiché conducono lo spettatore nei luoghi nei quali avverranno le prossime rivelazioni. “Maestro, vi posso chiedere di quali gravosi uffici stava parlando l’abate? Non siete stato sempre un frate?”, indugia il giovane a curiosare nel passato del proprio maestro. Siamo all’interno di una cella: l’ambiente è illuminato dalla luce lunare proveniente dalla finestrella semiaperta (esterno) e da una lucerna accesa (interno). Guglielmo sta osservando, col suo astrolabio, il cielo e le sue costellazioni: nel primo piano, dopo la timida domanda del novizio, il suo volto è specchio di saggezza, di conoscenza, ma anche di freddezza nei confronti di quell’approccio. E’ la luce della sapienza che ora lo illumina, non quella del cuore (sapienza-luce proveniente dall’esterno: la sua reazione sarà quindi estranea alla sfera dei sentimenti, del cuore, del coinvolgimento personale). Il viso di Adso, invece, è ravvivato dal lume della candela; il giovane, rimossa ogni esitazione, vuole diventare un confidente, un amico per il proprio educatore. “Anche i frati hanno un passato. Ora cerca di dormire…” risponde con un velo di ironia Guglielmo. La “camera” inquadra entrambi in campo medio per evidenziare la lontananza tra i due, il distacco che li separa. “Io volevo solo… sì, maestro” e Adso si arrende. Si noti come durante tutta la sua richiesta di “confessione” Adso, per la vergogna per il timore di suscitare in Guglielmo una reazione d’ira, parli non guardando direttamente il suo interlocutore ma girando il capo dalla parte opposta. Al termine di questo breve scambio di battute il novizio lascia che la stanchezza lo sopraffaccia, mentre il frate lo guarda, stupito dalla curiosità del suo allievo.

Nello scriptorium qualcuno legge. “Nella grande saggezza c’è grande dolore e chi incrementa il proprio sapere aumenta anche il proprio dolore”, risuonano queste parole. Un libro viene inquadrato, in primo piano, illuminato dalla luce di una candela. Una voce dall’accento straniero recita, in latino, il pericolo del sapere come fonte di dolore dovuto all’apprendere. Ritorna il motivo musicale che aveva accompagnato, nel refettorio, l’inquietante scandire del vecchio Jorge e la reazione del giovane Venanzio: le note accompagnano la lettura in sottofondo, creano un alone di mistero attorno a questa nuova scena. La “camera” si guarda bene dal renderci nota l’identità del lettore e si sposta sul viso sofferente e provato di Jorge che recita a memoria ciò che ode: è come un rituale che si manifesta regolarmente. Anche nell’udire, durante la cena, il giudizio sul riso come segno di stoltezza, il venerabile aveva sentito la pesantezza delle parole, la gravità del messaggio e avvertito la leggerezza con cui tutto ciò veniva quasi ignorato. Ma in quell’abbazia la seduzione del sapere era grande e, di conseguenza, il dolore doveva essere presente tra i fratelli. Esplicativo il gioco luminoso di cui azzardo l’interpretazione: solo il volto del vecchio monaco è bagnato dalla luce impedendo così il riconoscimento del viso di colui che legge e del libro stesso. Forse che solo Jorge creda all’accrescimento del proprio sapere come un inevitabile dolore? Sembra debba essere così.

Cambia la scena e il nostro sguardo si sposta su Venanzio che, nello scriptorium, ride compiaciuto, un po’ divertito da ciò che legge in un codice che, con molta probabilità, è precluso ai più. E’ lo stesso personaggio che Guglielmo aveva colto, durante la cena, in strani atteggiamenti verso il vecchio, quasi a rivelare un rapporto già esistente tra i due, un contrasto che forse celava un segreto. La luce ora gli illumina il viso, ne sottolinea la sorpresa, la compiacenza, l’ilarità: i suoi occhi sono avidi di continuare a leggere quel brano non usuale. Si lecca il dito per girare la pagina e intanto ride in silenzio. Ancora le parole si intrecciano alla musica. C’è un intreccio rapido di inquadrature: prima il libro che Venanzio sta leggendo, poi per due volte il volto ispirato e allucinato di Jorge, poi di nuovo Venanzio che laicamente sorride. Improvvisamente uno strano rumore interrompe la tranquillità della lettura e sul suo viso si dipinge la paura, paura che qualcuno sia entrato: la “camera” si sposta ad inquadrare dall’alto lo scriptorium dove la fonte di luce è una sola candela. Si vede un piccolo topo che corre. Venanzio, tranquillizzatosi, si riimmerge nella lettura. Melodia di violini.

Incubi e dolore. Entriamo nella cella di Berengario che si punisce percuotendosi la schiena con una frusta: solo la luce della luna ci permette di distinguere il personaggio dall’ambiente che lo circonda. Predominano i colori scuri e freddi, a rimarcare l’atmosfera cupa di dolore. Le urla del monaco, che espia i propri peccati, si accompagnano alla melodia dei violini. Ma di quali peccati l’inquietante Berengario si è macchiato? Cambio di spazio: ora ci muoviamo nella cella che ospita Adso e Guglielmo. Il primo sta dormendo mentre il secondo, messo in allarme da quelle urla di sofferenza, prende la candela e si avvia a controllare la situazione. Prima di dirigersi verso la porta accarezza affettuosamente il capo del giovane che nel sonno sembra essere agitato, tormentato dagli avvenimenti ai quali ha assistito durante la sua prima giornata nell’abbazia. Adso ora è in preda agli incubi: “Miracolo, miracolo… sangue!!”, e afferra il braccio del frate. La luce illumina il viso di Guglielmo che, per la prima volta, abbandona il suo ruolo di educatore e si atteggia come un padre premuroso; gli tiene la mano e si appoggia al muro in piedi. I due sono inquadrati in campo lungo e, se pur a debita distanza, si riesce a intravedere un clima di sereno affetto. Infine si ritorna all’esterno del monastero: si sentono chiaramente i lamenti degli animali. Salvatore e Remigio aprono lo scarico dei rifiuti e lentamente si avviano verso la chiesa per le prime preghiere del giorno. Il buio va attenuandosi e il sole sta per levarsi sui monti innevati, mentre l’abbazia si sta per risvegliare.

 

                                                                       Silvia  I.

 

La morte di Venanzio

“L’uomo nel grugnire dei maiali e nel tuonare del temporale”

La sequenza comincia con una nuova giornata: il sole deve ancora sorgere (è Mattutino, sono circa le tre di notte). Nonostante sia ancora buio, si distingue chiaramente la sagoma dell’abbazia, avvolta nell’oscurità, che contrasta col colore blu scuro del cielo notturno. Il senso di mistero dopo una notte di turbamenti contrasta con un’improvvisa tranquillità: la notte ormai sta terminando e il sole sta per sorgere, forse nel cuore di tutti i monaci c’è un alito di speranza. La prima figura che compare è quella di un monaco che, tirando una corda, suona la campana. Tutti ora sono riuniti in chiesa, è l’ora della laudi: il suono lento e regolare della campana, accompagnato dalle lodi cantate in latino dai monaci, si diffonde prima all’interno della chiesa, poi verso l’esterno, nell’immenso panorama dei monti, attraverso un climax crescente: la macchina da presa prima si sofferma sui volti dei monaci, nei loro stalli (primi piani), poi inquadra la navata e infine “fugge” all’esterno in spazi che sembrano infiniti. Il suono della campana e le voci calde dei monaci sembrano invadere i monti ancora addormentati, che si risvegliano ora illuminati dall’avvicinarsi dell’alba che ha rischiarato anche il cielo. Una leggera nebbia è scesa sul cortile dell’abbazia; un nuovo giorno è cominciato e con questo si svelerà anche una nuova tragedia.

La “camera” ritorna ancora all’interno della chiesa e si sofferma sui primi piani di Guglielmo e di Adso, contrastanti con quello di Berengario: queste riprese evidenziano una sensazione di ambiguità e di mistero che si nasconde nel vice-bibliotecario. Remigio, invece, dorme (forse troppo stanco, dopo una notte probabilmente passata in bianco) e l’apparente tranquillità (“apparente” a causa della tensione negli occhi dei monaci) delle laudi e del riposo del cellario è interrotta bruscamente da una voce stridula e disperata di un monaco che grida: “Un’altra calamità ci ha afflitti!(…) Dal porcile!”. Un servo irrompe nella chiesa: è un porcaio. Si è trovato un secondo cadavere e la vita dell’abbazia è stata ancora una volta duramente segnata. L’abate, all’udire la terribile notizia, non mostra di essere scioccato o in qualche modo sorpreso, anzi appare rassegnato, come sapesse già che il dramma avrebbe dovuto compiersi. Tutti escono dalla chiesa: il monastero è ancora circondato da una leggera nebbia. I monaci arrivano al porcile. Qui il sottofondo musicale infonde tensione: inizialmente si sentono solo i grugniti dei porci (al buio), poi vi si sostituiscono le grida dei monaci angosciati e infine una nota che aumenta di volume mano a mano che cresce la tensione, e che culmina alla vista delle due gambe che escono dalla giara colma del sangue dei suini, come fossero due pali impiantati e divaricati. L’ambiente è buio e inizialmente sono messi in luce solo i visi dei monaci appena sopraggiunti. Lentamente però possono essere definiti alcuni elementi nell’oscurità, come se l’occhio –rimasto per molto tempo alla luce- piano piano si abitui a vedere nel buio. Si riprende la giara con un primo piano che parte dal basso e lentamente si alza verso i piedi del cadavere. L’uomo non può essersi suicidato. Guglielmo non appare sorpreso e non mostra stupore. Tutti gli altri invece sembrano sconcertati, sicuramente però ognuno di loro sapeva benissimo in che situazione fosse l’abbazia. Sembra che per sopravvivere in un luogo così si debba vivere nell’omertà. I monaci terrorizzati alla vista delle gambe del morto si fanno il segno della croce; il corpo viene tolto dalla giara e ripulito dal sangue con un secchio d’acqua gettato sul volto: si tratta del cadavere di Venanzio. Ora l’abate e Guglielmo parlano degli eventuali assassini. Il loro dialogo è interrotto dalle grida di Ubertino da Casale, fraticello francescano in odore di santità: egli è sicuro che le disgrazie siano i segni dell’Apocalisse che sta per avvicinarsi. Guglielmo, interrotto il suo colloquio con Abbone, volge il capo in direzione del confratello, poi ritorna a parlare senza dare alcun peso alle sue parole e alla sua presenza, come se Ubertino fosse un pazzo visionario. Secondo la profezia dell’Apocalisse con la seconda tromba il mare si trasformerà in sangue (e proprio nel sangue è stato trovato il corpo di Venanzio); con la terza tromba una stella ardente cadrà nei fiumi e nelle fonti. Secondo Ubertino mancano solo sette giorni alla fine, tutti si devono pentire prima della venuta di Cristo.

Il luogo della sequenza cambia, infatti Severino l’erborista è nel suo laboratorio con Adso e Guglielmo, dove sta pulendo e sezionando il corpo di Venanzio. Mentre i due frati anziani discutono delle proprietà di alcuni veleni (in particolare dell’arsenico), Adso fugge fuori dallo stanzone: è ancora troppo giovane e con poche esperienze per resistere alla visione di un cadavere dissezionato. Al contrario il suo maestro rimane impassibile e tranquillo, come se fosse abituato ad avere a che fare con corpi morti; dal suo sguardo non fa mai trasparire emozioni ma solo controllo e sicurezza. Chiede informazioni su Venanzio: questi era il miglior traduttore dal greco di tutta l’abbazia, conosceva quasi tutto Aristotele a memoria ed era amico, amico “in maniera fraterna” di Adelmo, il giovane miniatore morto in precedenza. Secondo Severino: “la carne può essere tentata secondo natura o contro natura, loro (Adelmo e Venanzio) rientrano nel primo caso”. La “camera” mostra il polpastrello diventato nero di Venanzio. I due sembrano non farci troppo caso ma il particolare è da ricordare. A questo punto la sequenza termina nello stesso modo in cui è iniziata, ovvero con l’inquadratura del paesaggio avvolto nella nebbia: segno che il caso non è stato risolto bensì l’abbazia è affogata ancora di più nel mistero omicida.

 

                                                                       Elisa  C.

 

La prima indagine  

Nel laboratorio-erboristeria. E’ stato appena scoperto il cadavere di Venanzio, immerso nel sangue dei maiali. La muratura ed il pavimento del laboratorio sono in mattoni di pietra d’un grigio scuro, consunti, e alle pareti sono disposte alte credenze di legno scuro, provviste di molti scaffali, ante, cassetti e piccoli vani; sugli scaffali ci sono vari pacchi e vasi. Per terra, in basso a sinistra, dei sacchi pieni di sostanze (forse erbe). Sul tavolone, al centro, illuminato, c’è il corpo inerme, nudo, ricoperto appena da uno straccio, appoggiato sul pube; la pelle è madida, ancora impregnata del sangue. E’ stato approssimativamente sciacquato e ora le sue gambe sono rigide e ben distese, i piedi divaricati verso l’esterno, le braccia non seguono i fianchi ma sono anch’esse ben distese, la testa è storta a destra. Guglielmo, con l’aiuto dell’erborista frate Severino, esamina il corpo senza vita e scopre un insolito particolare: la punta del dito indice destro del traduttore dal greco è macchiata di nero, il colore è indelebile, assorbito dalla pelle come lui assorbiva, avido, i contenuti del volume sull’arte comica della “Poetica” di Aristotele, poco prima di morire. Mentre Adso, in piedi in un angolo del laboratorio un po’ a disagio per l’orribile spettacolo, osserva ed ascolta i due, Severino parla di come somministrare alcuni preparati di erbe e spiega i loro effetti; Guglielmo chiede allora le modalità dell’utilizzo dell’arsenico: a piccole dosi aiuta la cura delle turbe nervose ma in quantità elevata porta a morte certa. Adso, al limite della sopportazione per l’orripilante scena del sezionamento del cadavere, esce in preda ad un momentaneo malore e Guglielmo approfitta della disponibilità del frate ciarliero per sapere di più su Venanzio: amico in modo fraterno, non contro natura, del bel miniatore Adelmo (prima vittima) e il migliore traduttore dal greco, forse conosceva a memoria quasi tutto Aristotele.

La chiesa e le sue pietre scolpite. Adso, all’ingresso della chiesa, ammira i portali scolpiti con immagini di figure umane ed animali alternate a semplici motivi ornamentali. Entra, il vento gli accarezza i capelli, dentro è molto buio, l’unica fonte di luce è la piccola porta rimasta aperta. Il giovane è attirato da quelle facce deformate, da quei teschi e mostri scolpiti sulle pareti: occupano tutto, lo hanno circondato, viene preso da un senso d’angoscia e terrore, all’improvviso un liquido scuro esce da un occhio e scivola sulla faccia di un mostro. Ora ci viene rivelato ciò che un istante fa Adso stava tentando di scorgere: teste umane orribili e straziate e teschi scolpiti nella pietra e incassati nel muro; le mimiche facciali di alcuni di questi rilievi sono impressionanti, sembra quasi che siano vivi e che siano sorpresi di veder entrare qualcuno, dopo tanto tempo, nella loro reggia. Qui prende il sopravvento l’immaginazione e Adso vede la pietra animarsi e muoversi, se la sente addosso, ha paura e dall’ombra emerge la risata di Salvatore, un inserviente gobbo, strano personaggio che si sposta velocemente strattonandolo, ammiccando, che lo assale con strani discorsi sulla morte, sul diavolo e pronuncia più volte il termine “penitenziagite”, tutto fra risate continue e boccacce, parlando tutti i linguaggi e nessuno, come dirà poi Guglielmo che entra spaventando, ma poi rassicurando il novizio, e subito con fare imperioso chiede a Salvatore perché ha pronunciato “penitenziagite”, ma lui nega di averlo detto, gli si prostra ai piedi e se ne va, chiamato da frate Remigio. Guglielmo e il suo discepolo escono dalla chiesa.

Nella neve. Mentre passeggiano, Adso interroga il maestro sul termine penitenziagite”: gli viene spiegato che il motto ha origine dai frati dolciniani i quali credevano nella povertà ma, al contrario dei francescani, obbligavano ad essere poveri e uccidevano i ricchi, e per questo erano considerati eretici. Guglielmo gli ricorda che il passo che separa la tensione mistica dalla follia della violenza è fin troppo breve. Nel giovane nasce così un sospetto verso il gobbo; Guglielmo non lo esclude ma lo trova improbabile. Poi insieme si dirigono verso il luogo del ritrovamento del corpo di Venanzio e cercano tracce sul terreno circostante: rinvengono orme due volte più profonde delle altre, appartenenti ad un uomo molto pesante o, meglio, forse appesantito dal fardello di un altro uomo. Si dirigono verso lo scriptorium ma Guglielmo, con l’arguzia di cui è dotato, intuisce che invece provengono da lì: un uomo che ne trascina un altro camminando all’indietro. “Il terreno è una pergamena sulla quale il criminale lascia involontariamente la sua firma”, annota con fredda e lucida calma il frate. I due entrano nello scriptorium, considerato “opificio di sapienza, pietà e scienza”, dove è custodita la parola divina e chissà se lì dentro ci sarà la soluzione ai loro quesiti…

Questa è la prima indagine di Guglielmo e del suo discepolo: la sequenza lascia trasparire i lineamenti essenziali del carattere dei due personaggi ed apre quella lunga catena di eventi che li porterà a maturare nuove esperienze e a consolidare vecchie passioni, ma tutto acquisito ed espresso in modo soggettivo: la qualità che rende così diversi, particolari ed interessanti i nostri protagonisti.

 

                                   Sara  P.  e  Silvia  S.

 

 

Adso e… “là bas nous avons le diavolo”

Sviluppo degli avvenimenti. La sequenza inizia con l’inquadratura del luogo in cui Adso si accinge ad entrare; esso è avvolto dalla nebbia; già nella sfocata immagine emerge la sensazione di mistero. Un vento rumoroso contrasta col silenzio e la più totale desolazione del paesaggio. Il novizio si sofferma ad osservare l’entrata dell’edificio caratterizzata da rilievi scultorei rappresentanti visi deformi, mostri strani ed inquietanti; all’interno non c’è certo un miglior panorama: volti dai grandi occhi, dalle animalesche narici e dalle bocche con le più mutevoli espressioni (dolore, lamento, crudeltà, cattiveria) si sostituiscono alle solite sobrie pareti. I volti sembrano osservarlo attentamente… gli occhi di pietra paiono talvolta occhi carnali, capaci di seguire e controllare ogni tua mossa. Degli strani versi, quasi “animaleschi sospiri” lo distolgono dalla sua attenta osservazione. Nell’oscurità appare un’ombra le cui linee non si distaccano molto dalle rappresentazioni di pietra e che facilmente si confonde in esse e con esse. Poco dopo appare un gobbo deforme, Salvatore, che incomprensibilmente gli parla afferrandolo e più volte scuotendolo. Nelle sue frasi ci colpiscono alcune parole come “morte, diavolo, penitenza…”. Nel frattempo giunge Guglielmo forse in cerca del suo discepolo o attirato dalla parola “penitenziagite” (come sembra in maniera evidente dall’immagine) poco prima detta da Salvatore. Quale che sia il motivo della sua presenza, egli subito approfitta per interrogare lo stolto e magari ottenere qualche indizio sulle morti misteriose. Gli chiede il significato della parola ma questi nega e finge di non sapere il senso di ciò che aveva pronunciato. Come un buon insegnante, Guglielmo –saggiamente- trae delle conclusioni da far apprendere al discepolo: “Vedi, caro Adso, il passo che separa la tensione mistica dalla violenza della follia è fin troppo breve…”. Adso, colpito dal fatto che forse Salvatore un tempo era stato un eretico dolciniano, lo colpevolizza dei delitti commessi. Ma Guglielmo, con ironia, replica: “No, ai dolciniani piacevano i vescovi grassi e i preti ricchi…”. Tutto si conclude con Salvatore che si allontana con Remigio mentre i nostri due eroi scompaiono fra le “costruzioni”.

Inquadrature. Immagine di un edificio avvolto dalla nebbia (campo lungo). Adso è davanti all’entrata, osserva. Poi lo si vede, di spalle, varcare la porta lasciando il chiarore del giorno e inoltrandosi nella cecità del buio. Cammina lentamente guardandosi attorno. Il silenzio spettrale viene, seppure lievemente, spezzato da alcuni suoni altrettanto angoscianti: gocce di umidità che cadono a terra, respiri, sospiri. Panoramica su immagini inquietanti, volti diabolici infernali. Primo piano di Adso che continua a guardare stupito, più che impaurito (il volto dell’attore ha la bocca semiaperta e non tesa o irrigidita). Primissimo piano di una figura orribile coi lineamenti (occhi naso bocca) enormi, deformi… un senso di demoniaco sembra dominare dall’alto. Primo piano del profilo del giovane. Si inquadra un volto mostruoso più illuminato di altri. Adso è colpito da questa immagine e le si avvicina. Ora si colgono i particolari: occhi grandi, sguardo cattivo, bocca aperta da cui fuoriesce una lingua: scende una goccia d’acqua che sembra dar vita a queste anime pietrificate. Il novizio è spaventato da questo improvviso “muoversi” (come un’anima dannata che piange?…) e indietreggia. Si gira di scatto come se qualcuno lo stesse osservando. Primo piano di una scultura: sempre più essa pare viva, umana (espressione degli occhi, naso arricciato), poi c’è un progressivo annebbiarsi. Dietro Adso, dall’alto, si nota qualcuno che entra (dalla porta) e scompare nel buio. Un uomo deforme sembra confondersi col resto dei volti, pietra che si carnifica, deformità che si anima. C’è un parallelismo: mostro-lingua fuori, deforme-lingua fuori; si è attirati da strani ruggiti disumani. L’ombra si sposta da sinistra verso destra pronunciando la parola “penitenziagite”. Ora, grazie alla luce che gli proviene dalle spalle, è finalmente possibile individuarne con precisione la fisionomia, il volto deforme, il mostruoso aspetto, l’enorme gobba. Salvatore (il nome lo sapremo più avanti) inizia a parlare. L’italiano, il francese, il latino, lo spagnolo sono uniti a formare un impasto linguistico affascinante, incomprensibile. Fa gesti stupidi: batte le mani, i piedi… ha una strana voce, una diabolica risata; si muove in direzione del ragazzo, lo afferra, tenendolo accanto a sé (per l’abito) gli illustra (…”là bas nous avons le diavolo…”). Continua a fare versi strani, linguacce, lo scuote, gli dà colpi. Una mano si poggia alla spalla di Adso… E’ Guglielmo che avanza (entra nell’edificio) ripetendo la parola poco prima detta da Salvatore. Primissimi piani dei due, voci alterate; il gobbo si china e bacia il saio del frate, affermando di essere stato un eretico dolciniano ma di essersi pentito. Tutti escono dall’edificio. Si sente la voce fuori campo di Salvatore che continua a parlare e di un altro monaco che lo chiama. I nostri due scendono la scalinata, dietro di loro un paesaggio desolato, innevato. Di sottofondo la voce sempre più flebile di Guglielmo che si fa muta allo scomparire dei due fra gli edifici. 

 

 

Guglielmo, un perspicace detective, e Adso, un buono ma impulsivo assistente.

Ci riappare l’immagine del luogo dove è stato trovato il corpo di Venanzio: un piccolo edificio con al centro una grande giara e una scala posta al suo fianco. Maestro e discepolo percorrono una lieve salita. Guglielmo nota che il terreno è umido, ragiona ancora (“si dice che i criminali lascino involontariamente impronte a causa del terreno umido..”). I due continuano a camminare; sullo sfondo, un albero spoglio. Si notano le impronte sulla neve di un sandalo (di monaco, naturalmente). Si sente una musica strana, gradevole, dolce. L’impronta continua ad essere analizzata e discussa. Adso avanza e la macchina da presa con lui… avanzano anche le impronte. Primo piano di Guglielmo, sullo sfondo si nota un ramo spoglio; egli indietreggia per mostrare ad Adso come il corpo possa essere stato trascinato alla giara. Un’inquadratura dall’alto (una plongée) ci permette di vedere e capire come il corpo sia stato trascinato, possiamo seguire “le impronte che portano…”. La macchina da presa è ferma e lontana rispetto ai due protagonisti che vediamo dirigersi verso lo scriptorium, fonte di peccato e di morte, aprono la porta e….

Il movimento della macchina da presa giustamente rispecchia la quasi staticità delle inquadrature; infatti essa segue il lentissimo cammino, lo star fermi… dei due protagonisti. Non vi sono grandi panoramiche o carrellate. Non vi sono giochi di luce data l’uniformità e staticità dell’ambiente. La natura morta di novembre crea in noi l’abituale sensazione di grigio torpore. In questa micro-sequenza mi è piaciuto moltissimo il modo con cui Guglielmo svolge le indagini; egli si rivela, come già abbiamo avuto modo di vedere, sorprendentemente perspicace, saggio e capace di far giungere –attraverso procedimenti maieutici- a una qualche deduzione il suo altrettanto sveglio discepolo. Un’ultima cosa mi ha colpita: la sensazione che Guglielmo dà di persona che tutto sa e tutto conosce, tanto intelligente da non utilizzare questa sua sapienza come fonte di ignoranza per altri. Sembra spogliarsi della sua veste fratesca e mutarsi per un attimo in un equilibrato detective medievale.

                                                                       Silvia  Z.

 

 

 

 

 

 

 

 

La liceità del ridere  

 

Ho scelto questa sequenza perché credo che essa racchiuda in sé l’intero fulcro attorno al quale ruota la vicenda-cardine del film e del libro di Eco. Le drammatiche situazioni che si abbattono sull’abbazia hanno come causa la lettura di un codice, il volume sulla “Commedia”, seconda parte dell’opera “La Poetica” di Aristotele, che –a quanto pare- “è un libro che uccide o per il quale gli uomini uccidono”.

Collocazione della sequenza nel contesto della storia. Guglielmo ed Adso, entrati nello scriptorium, cercano sui tavoli da lavoro dei due monaci defunti degli indizi interessanti per la loro indagine. Berengario, impaurito dall’apparire di un topo, salta su una sedia emettendo un gemito di terrore. La scena produce ilarità tra i monaci, ilarità che viene drasticamente smorzata dal severo intervento di Jorge che, con atteggiamento autoritario, condanna lo sfogo dei confratelli e inizia una discussione con Guglielmo sulla “qualità” del riso. Il francescano, anche se pacatamente, controbatte in maniera determinata e quasi provocatoria le argomentazioni di Jorge che mirano a condannare il riso definendolo un peccato. Alla fine la conversazione è interrotta bruscamente da un intervento del vecchio cieco che determina in Guglielmo la consapevolezza dell’inutilità e inopportunità del dibattito.

Movimenti della macchina da presa. La telecamera gioca un ruolo importante ai fini della creazione dell’atmosfera che domina la scena. I movimenti veloci che compie forniscono rapidità al dialogo, aumentano la tensione e creano un’atmosfera di timore e di conflitto tra ideologie. Essa effettua dei movimenti ripetitivi e schematici: inquadratura da ¾ dello scriptorium; primo piano di colui che ha la parola; primo piano di colui che risponde; costanti ripetizioni di queste operazioni, intervallate dalla ripresa del “pubblico” dei monaci; ultima inquadratura da ¾ dello scriptorium. La “camera” si sposta velocemente da una visione globale del luogo al vaso infranto da Jorge al suo arrivo; il particolare riporta la calma nello scriptorium. Il gioco sinestetico tra il rumore provocato dalla rottura del vaso e la ripresa dell’oggetto stesso determina uno stacco decisivo tra la tranquillità della scena precedente e la tensione che si verrà a creare in seguito alla comparsa di Jorge. La “camera”, durante la contesa dialettica, riprende il primo piano di colui che parla, quasi sino alla fine della frase, per poi spostarsi sui monaci e sull’espressione di colui che ribatte: tutto questo dona velocità e realismo alla scena, le dà dinamicità e produce tensione.

Simbologia del bastone. Il bastone è un oggetto carico di significati. Dona ritmo alla scena e ne scandisce il tempo. Viene utilizzato per presentarci Jorge e viene ripreso per sottolineare la sua partenza. Il suo utilizzo determina l’inizio del dialogo e la sua brutale conclusione. Il suo impiego risulta essere brusco, drammatico, rumoroso e ristabilitore del silenzio. Produce uno stacco netto, un intervento deciso; dona autorità al vecchio Jorge che lo agita e lo appoggia dolcemente e ripetutamente al suolo durante il dialogo. E’ usato invece in modo drastico, come appendice del corpo, quando il venerabile deve richiamare l’attenzione, imporre la sua forza e la sua parola (è quasi una ripresa del battere col pugno sul tavolo durante la cena nel refettorio, in una scena precedente).

Figure secondarie. Entrambi i protagonisti della contesa verbale e ideologica sono sorretti, moralmente e fisicamente, da due figure secondarie, di minor peso ma ugualmente importanti. Guglielmo è sorretto da Adso che dona al suo maestro un appoggio puramente morale, non interviene mai ma coglie il significato della discussione, cosciente di apprendere una nuova esperienza di vita. Anche Jorge possiede una “spalla”, Malachia; egli sorregge il reverendo fisicamente, trattenendolo per una mano. Interessante è il fatto che Jorge si rivolga a lui (voltando il corpo nella sua direzione) nel momento di maggiore crisi delle sue argomentazioni, cercando un appoggio, quasi desideroso che il bibliotecario intervenga in sua difesa… Trova solo un’amichevole pacca sulla mano e niente più.

Il dialogo. Esso si divide in tre fasi ben delineabili: Guglielmo accetta le provocazioni, sente la differenza dei ruoli, Jorge è autoritario; Guglielmo prende coraggio, argomenta, Jorge è in crisi, risponde seccamente; Guglielmo, deciso, ha le idee chiare, sente di poter vincere la contesa, Jorge stronca il dialogo.

J. Non pronunciate parole vane che inducano al riso. Spero che le mie parole non vi abbiano offeso, f. G., ma ho udito persone che ridevano di cose risibili (…) Voi francescani, tuttavia, provenite da un Ordine dove la giocondità è vista con indulgenza.

G. Oh, sì è vero, il nostro Francesco era disposto al riso.

J.  Il riso è un vento diabolico che deforma il viso degli uomini e li rende simili alle scimmie.

G.  Ma le scimmie non ridono, il riso è proprio dell’uomo.

J.  Come il peccato… Cristo non rideva mai!

G.  Ne siete così sicuro?

J.  Non c’è nulla nelle Scritture che induca a ritenerlo.

G. Ma non c’è nulla che induca a ritenere il contrario. I santi stessi hanno fatto uso delle burle per mettere in ridicolo i nemici della fede. Per esempio, quando i pagani misero S. Mauro nell’acqua bollente, lui si lamentò che l’acqua fosse troppo fredda, il sultano infilò una mano e rimase ustionato.

J. Un santo immerso nell’acqua bollente non si perde in giochi da bambino, reprime le urla e soffre per la verità.

G.  Tuttavia Aristotele dedica il secondo libro della sua “Poetica” alla Commedia come strumento di verità.

J.  Avete letto quell’opera?

G.  No, naturalmente, sono secoli che è andata perduta.     

J.  No, non fu perduta, non fu mai scritta, perché la Provvidenza non vuole che la futilità venga glorificata.  

G.  Ma no, devo contestare…

J.  Basta! Questa abbazia è in profondo lutto, tuttavia voi volete intromettervi nel nostro dolore con vane parole.

G.  Perdonatemi, venerabile Jorge, le mie osservazioni erano fuori luogo.

Psicologia e ideologia. Le due psicologie sono in antitesi come sono in antitesi le due culture e le due ideologie. Guglielmo. Problematico, razionale, mette in discussione la sua parola, acquista un tono pacato, si dimostra disposto al dialogo che affronta in modo sereno e disteso; sembra cosciente del fatto che avrà la meglio, non dogmatizza le sue teorie, esplica la sua tesi donandole peso. Non aiuta la parola coi gesti e solo alla fine lascia trapelare una smorfia di sdegno e si lascia sfuggire un: “ma devo contestare…” Capisce però l’inutilità della discussione e pensa d terminare umilmente il confronto per non doverne poi subire gli strascichi. Abbassa la guardia, mette da parte l’orgoglio e chiede scusa; la sua è una mossa diplomaticamente perfetta. Jorge. Chiaramente meno disponibile, acquista un tono rigido e quasi severo, pretende che le sue argomentazioni vengano accettate senza essere messe in discussione, non è nemmeno disposto a spiegare ulteriormente le sue ragioni. E’ irascibile e mette in gioco tutta la sua autorità per venire a capo d’una situazione che altrimenti gli sarebbe sfuggita di mano. Non avendo più la vista, la sua mimica facciale è relativamente minima, sono però ampi i gesti con le braccia che esprimono la passione e la foga con le quali affronta tali problematiche.  Pubblico dei monaci. Si trova imbarazzato e impaurito, ha timore di non saper controllare le reazioni, ha paura delle conseguenze di un tale dialogo, prova un senso di pena e insieme di fastidio nei confronti di Guglielmo che si oppone con tanta audacia nei riguardi del venerabile. La cosa è insolita e viene vissuta come tale, la situazione crea tensione e i monaci la sentono in modo aspro, sono sconvolti dalla scena alla quale stanno assistendo ma ne sono anche appassionati e la seguono con emozionato interesse, attendono di volta in volta la contro-battuta con estrema curiosità. Quasi sublimano i due contendenti e non intendono essere coinvolti né far pesare la loro presenza, la loro è una partecipazione passiva.

 

                                                                                  Emiliano  R.

 

La seconda notte: personaggi, suoni, parole

E’ notte ma il cielo non è molto scuro. Il silenzio è disturbato solo dal verso di alcuni uccelli. La macchina da presa inquadra l’abbazia e lo spiazzo antistante. Tre minuscole figure si incamminano verso la torre: sono Guglielmo, Adso e il frate dolciniano Remigio; si nota soprattutto il contrasto tra la maestosità della torre e la piccolezza di quelle tre figure. La “camera” inquadra da vicino i tre. La voce narrante di Adso si interroga sul perché il suo maestro avesse respinto i suoi sospetti sull’eretico Salvatore e perché volesse visitare la torre, forse solo per scoprire i segreti della biblioteca. Remigio apre la porta della torre e gli altri due entrano e richiudono la porta. Remigio tentenna di fronte all’uscio, quasi pentito dell’aiuto offerto, poi alza gli occhi al cielo, sospira e se ne va. La scena cambia. L’eretico gobbo, Salvatore, apre il passaggio attraverso il quale i monaci gettano fuori dalle mura gli avanzi ai poveri e poi se ne va. Da quella fessura sgattaiola dentro al monastero una fanciulla tutta sporca e vestita di stracci. La “camera” inquadra poi la stessa scena dal basso, nascosta da alcune travi, immersa nel buio, quasi a voler spiare questa ragazza e a sottolineare l’ambiguo suo intrufolarsi. La ragazza poi scompare nel buio.

Siamo nello scriptorium. Berengario è intento alla lettura. La luce intensa d’una candela gli illumina il viso; i suoi occhi sono accesi di curiosità, le sue mani fremono nel voltare i fogli, emette dei mugolii, legge con avidità e coinvolgimento. All’improvviso sente i passi dei due frati, un sussulto lo scuote, spegne la candela, si rifugia dietro alcuni banchi e nella fretta dimentica il libro sul leggio. Adso e Guglielmo entrano e si dirigono verso la porta di accesso alla biblioteca. Berengario, sempre immerso nel buio, li spia. Guglielmo spinge con forza, quasi con violenza, la porta. Inutilmente. Si dirige quindi verso il leggio di Venanzio. Altro scorcio su Berengario che si nasconde nel buio, alzandosi il cappuccio e spostandosi verso il fondo della sala. Guglielmo si siede e guarda sotto i libri mentre Adso, in piedi accanto a lui, gli regge il lume. Berengario si sposta ancora appiattendosi contro il muro. Si trova una pergamena scritta con caratteri minuscoli, si fanno battute sulla scrittura da formiche, si ride e la tensione per un momento sembra allentarsi. Mentre il francescano legge, la “camera” si pone dalla parte del grasso aiuto-bibliotecario, ci mostra la scena come la vede lui, nel buio, dietro i tavoli. Guglielmo odora la pergamena e la passa sul fuoco del lume: una musica cupa si leva mentre compaiono dei segni e sulla faccia del novizio si dipinge un’espressione di stupore. La “camera” si pone nuovamente dalla parte di Berengario, la musica incalza e ad essa si unisce il respiro ansimante del monaco che si accinge a impugnare un martello; la mano afferra il martello. Guglielmo riflette sul significato di quei segni. Berengario lancia il martello verso il fondo della sala e fugge. I due corrono verso il luogo dove hanno sentito il rumore, poi la “camera” scorre velocemente dalla loro immagine sul fondo fino al libro sul leggio, con le lenti in mezzo, e si vedono le mani di Berengario che lo afferrano, esce dalla torre e fugge. I due lo inseguono e si dividono per le ricerche. Adso guarda la sua lanterna spenta, è spaesato, non vorrebbe dividersi dal maestro ed ha molta paura. Passa per caso davanti alle cucine e, visto del fuoco, vi entra per accendere la sua lanterna.

Nelle cucine. Adso corre verso il fuoco acceso sotto tre pentoloni. Ha paura, trema, sente un rumore, si gira di scatto verso l’entrata, poi si alza, indietreggia e va a nascondersi dietro a degli orci. La “camera” si pone al posto dei suoi occhi e vede attraverso le grate di una finestra la figura di un uomo che si avvicina. Adso si nasconde nel buio, vicino a dei sacchi, s’incappuccia per confondersi con essi. La musica diventa più intensa, la figura ora si distingue: è un monaco, dalla voce roca, ansimante; allunga una mano e la batte vicino al capo del ragazzo ma non si accorge di nulla. La musica d’un tratto si interrompe e la tensione cala. Il viso del monaco è illuminato da un fascio di luce e il mistero si svela: è frate Remigio, il cellario, che se ne va, ansimando, parlando e ridacchiando fra sé. Adso si leva il cappuccio e ora il suo volto è in luce, appare ancora molto teso. Dietro le sue spalle appare il viso sporco di una fanciulla, egli si spaventa e urta alcuni utensili. Remigio sente il rumore e si volta sospettoso. L’inquadratura torna sui due: la ragazza fa segno di far silenzio. Il monaco chiude la porta, torna nell’oscurità della notte.

Nella farmacia-erboristeria. Lo spazio è buio, illuminato solo dalla flebile luce bianca della luna. Berengario vi entra, trema e si lamenta, come in preda a forti dolori; si guarda attorno e si dirige frettolosamente verso gli scaffali dei medicinali, tenta di prendere un barattolo. Si vedono le lenti di Guglielmo che scivolano dal libro e cadono sul pavimento. Nasconde il libro tra i vasi in basso, si alza, prende un vaso e, in preda a spasmi sempre più forti che quasi gli impediscono di camminare, va verso il fondo.

Ora si apre una serie di sette micro-sequenze costruita su elementi contrastanti fra loro, sia visivi che concettuali. C’è un’evidente alternanza tra dentro e fuori e tra luce e buio. Le scene girate all’interno delle cucine, dove Adso scopre l’amore con la giovane fanciulla, sono immerse nella luce calda e tremolante del fuoco; le ombre confondono i lineamenti mentre la luce si insinua scoprendo lentamente le superfici lisce dei corpi nudi, rallentando il ritmo dei movimenti, fluidi ma allo stesso tempo guidati dalla passione e dal desiderio, accentuati anche dai sospiri sempre più incalzanti. Questo clima contrasta nettamente con le scene che si svolgono all’esterno: fuori tutto è immerso nel buio e i volti dei personaggi sono illuminati solo dalla bianca e gelida luce della luna. Il contrasto che viene a crearsi è anche concettuale: al freddo ambientale si lega anche la freddezza di Guglielmo che prosegue le sue indagini ragionando con calma e meticolosità; a questa razionalità si contrappongono invece l’istinto e la passione che guidano Adso in questa sua esperienza proibita.

Ancora nella cucina. La giovane posa con cura un sacco per terra. Si volta verso Adso e gli si avvicina carponi. Lo guarda muovendo la testa a destra e a sinistra, come fanno gli animali, con occhi languidi, quasi a volersene impossessare. Poi gli prende la mano, la bacia, e sembra che un grande calore le salga lungo il braccio per poi diffondersi nel corpo tutto fino ad arrivare al viso, gli occhi si chiudono e le labbra si stringono in un’espressione di piacere. Lei guida la mano dei giovane sui suoi seni e lui non osa quasi toccarla, poi comincia a spogliarsi e lui la guarda con occhi stupiti, come un bambino di fronte a una cosa nuova, talmente meravigliosa da spaventarlo. La voce del narratore segue questi primi istanti, quasi a scandire meglio il tempo e a commentare gli avvenimenti con la mente lucida dell’ora e non con la passione dell’attimo. La “camera” inquadra spesso il viso di Adso, pienamente illuminato, mentre la ragazza rimane sempre leggermente nell’oscurità. Lei lo conduce a terra, gli leva il saio, si arrampica sul suo corpo con fare felino. In quel momento rappresenta il peccato, il demonio che ammalia e seduce, ha un fare quasi animalesco, non parla ma mugola. La scena cambia, siamo all’esterno del convento, fa freddo, il buio avvolge tutto e la luna illumina fredda il cimitero dove un’ombra si aggira, china sulle tombe. Guglielmo intanto, poco distante, osserva da dietro un arco.

L’amore. La macchina da presa inquadra i due corpi nudi sul pavimento, uno sopra l’altro. Mi sembra forte il contrasto tra il candore della pelle di Adso e i colori cupi, terragni del luogo intorno e della ragazza. Credo che questo serva a far risaltare l’estraneità del giovane, in quanto futuro monaco, al peccato di lussuria. La “camera” si pone ora di fronte ai due. Il contrasto sembra attenuarsi, i corpi si intrecciano, la passione incalza e cancella l’estraneità che poneva Adso quasi come un intruso nella scena. I sospiri piano piano si allentano, si vedono per qualche secondo tre pentoloni sul fuoco. Lo stesso fuoco, che aveva spinto l’impaurito giovane in quella cucina per accendere la sua lampada, prende ora le sembianze di un fuoco tentatore che lo porta a conoscere quello che fino ad ora per lui rappresentava l’ignoto e il proibito. La “camera” torna sui due giovani: i corpi sono ora immobili ma sempre uniti, lui bacia dolcemente la ragazza sulle labbra e sembra che la tenerezza prenda il posto della passione.

Siamo nuovamente all’esterno. La telecamera inquadra Salvatore che sta per “mangiare” un topo. All’improvviso arriva Guglielmo. I due cominciano a parlare. Si inquadrano, dal basso verso l’alto, le maestose mura dell’abbazia, che contrastano col cielo che va pian piano schiarendosi. La porta, che chiude il passaggio dal quale i monaci gettano gli avanzi, si alza: la ragazza si infila attraverso l’apertura ed esce dal convento. Si torna su Guglielmo e Salvatore: il frate interroga il gobbo sugli avvenimenti della sera della morte di Adelmo e Salvatore racconta l’incontro del miniatore con Venanzio nel cimitero in una notte di tempesta e il passaggio tra i due d’una pergamena.

Ancora all’interno delle cucine. In primo piano i tre pentoloni e sotto di essi le braci spente. Sul fondo c’è Adso, ancora disteso sul pavimento, con lo sguardo smarrito, quasi cercasse ancora la ragazza. La scena ha secondo me un valore simbolico: del fuoco, che ardeva nel tempo in cui si svolgeva l’atto d’amore, ora rimangono solo le braci, ancora calde ma prive di vita, come della passione –che ha travolto i due giovani- ora non rimane che il caldo ricordo. Adso si alza, si veste. E’ inquadrato il suo volto stupito che fissa il pacco lasciato sul pavimento; lo apre e dentro vi trova un grosso cuore insanguinato. La musica riprende, accentuando la tensione. Adso fugge via, fugge fuori, incontra Guglielmo e lo esorta ad entrare nelle cucine. Questi lo segue e, visto il cuore, lo richiama alla ragione dicendo che quello è sicuramente di un animale. Poi, con tono sarcastico, dice che sarà il compenso di un monaco per i “favori” della ragazza; continua affermando che doveva essere un monaco molto brutto e intanto si incammina verso la porta, “se fosse stato un bel monaco la giovane gli si sarebbe data per niente”. L’espressione cambia, i lineamenti si distendono, in tono paterno aggiunge che ciò che è successo comunque non interessa alle loro indagini; poi si volta e racconta ciò che ha appreso da Salvatore: è Berengario, l’aiuto bibliotecario, la chiave del loro enigma. La “camera” inquadra Adso che rivolge lo sguardo per l’ultima volta verso il luogo dove aveva scoperto il fascino peccaminoso dell’amore.

 

                                                                       Eliana  B.

 

Dialoghi d’amore

Nella cella di Guglielmo ed Adso. La sequenza dura tre minuti ed è centrata sul dialogo tra i due personaggi. Dalla piccola finestra entra una luce pallida che rischiara un tratto della parete e la parte sinistra del volto di Adso, il resto della stanzetta è avvolto dall’ombra. Il novizio, con gli occhi sbarrati e fissi ad osservare il vuoto, sente il desiderio di confidarsi col maestro, il quale ha già capito di quale argomento Adso stia per accingersi a parlare. Il ragazzo gli chiede se vuole sentire la sua confessione e Guglielmo risponde che preferirebbe ascoltare le confidenze di un amico. Fino ad ora il francescano ci è stato presentato come intellettuale, come dotto, come uomo con doti di sottile diplomatico che pecca di presunzione quando vuole dar prova del suo acume ma in questa parte della sequenza comincia a delinearsi un nuovo aspetto della sua figura: ora ha un atteggiamento paterno e si mostra disponibile a dialogare, a conversare, anche a rimproverare, ma nelle vesti di un amico e non di un padre-precettore. Adso chiede al maestro se sia mai stato innamorato ed egli risponde di esserlo stato parecchie volte; il giovane esclama, sollevato ed incredulo, “davvero?”, perché, pensando di parlare con una persona che abbia condiviso la sua esperienza, sente meno grave il suo peccato, ma questa illusione viene subito turbata dalle parole di Guglielmo che con sottile ironia gli aggiunge con trasporto di essere stato innamorato di Aristotele, di Virgilio, di Tommaso d’Aquino. Adso con delusione e quasi con fastidio ribatte: “No, no…”. Il frate, che ha compreso benissimo quale fosse la natura dell’amore inteso dal suo discepolo, gli chiede se per caso non lo confonda con la lussuria. In questo momento Guglielmo solleva la schiena dal giaciglio appoggiandosi sul gomito e il suo volto entra nel fascio di luce. Neanche il ragazzo riesce a rispondere a questa domanda, il ricordo dell’esperienza appena vissuta non è ancora nitido, ora il suo animo è solo scosso ed è pervaso da una serie di sentimenti contrastanti che non è in grado di identificare; sa però con certezza che vorrebbe unicamente il bene della ragazza, la sua felicità e vorrebbe salvarla dalla miseria. Il maestro dice, con una nota di severità e gravità, che ciò significa che è davvero innamorato (il suo volto è rientrato nell’ombra); Adso gli chiede se è una cosa brutta e Guglielmo, nuovamente illuminato da uno spiraglio di luce, risponde che ai religiosi può creare dei problemi. Il novizio dichiara prontamente e con sicurezza che Tommaso d’Aquino esaltava l’amore sopra ogni altra virtù, il maestro annuisce ma, volgendo il viso e allungando la mano verso la luce proveniente dall’esterno, specifica che il filosofo intendeva l’amore di Dio. Notiamo quanto sia simbolico il gesto di protrarsi verso la luce e verso l’esterno, nel voler sottolineare che Dio stesso è luce e possiamo avvertire la sua essenza ovunque.

Ora il dialogo si fa più intenso e si arricchisce di significati. Guglielmo, alla richiesta del discepolo su quale sia la propria opinione in relazione al ruolo della donna nel mondo, si limita a ripetere il contenuto delle antiche scritture, citando ad esempio alcune affermazioni di stampo biblico: “la donna s’impossessa della preziosa anima dell’uomo (I Proverbi)”, “più amara della morte è la donna (Ecclesiaste)”, ma non sembra prendere mai una posizione definitiva. Quest’immagine di un Guglielmo esitante e dubbioso è in netta contrapposizione con quella dell’uomo spregiudicato quale era per quanto concerne il sapere e l’intuizione, affascinato dalla rivoluzione della conoscenza. Nel volto di Adso ora c’è solo un’espressione di sofferenza e il suo viso si contrae per trattenere il pianto. Il pentimento e il rimorso sono vivi in lui ma sa che questa dolorosa conversazione è necessaria per scaricarsi del peccato e per tentare disperatamente di capire. Guglielmo poi gli dice, per tranquillizzarlo, che Dio non avrebbe potuto inserire nella creazione un essere immondo quale la donna senza dotarlo di qualche virtù, ma sembra che stia ponendo in realtà una domanda a se stesso e che sia alla ricerca di una risposta. Dopo quelle parole il volto del giovane appare più disteso e la sua iniziale tensione si sta lentamente trasformando in commozione. Guglielmo si riimmerge nel buio appoggiandosi a un gomito, un raggio di luce illumina a stento la sua tonaca e, alludendo alla situazione in cui si trova il suo allievo, afferma con voce pacata che la vita sarebbe quieta senza l’amore, sarebbe sicura, calma…. ma tanto tanto noiosa.

 

                                                           Veronica  C.

 

 

La biblioteca labirinto

 

Ho scelto, guarda caso, la sequenza più lunga. E’ stato difficile scegliere, in un film così interessante, ma spero comunque di riuscire, alla fine della relazione, ad aver convinto i miei lettori della validità degli spunti che questa sequenza offre per riflettere su intuizioni e scelte tecniche della pellicola.

Facciamo iniziare l’analisi con questa battuta: “Chi ti spaventa di più?”. E’ Guglielmo che si rivolge ad Adso, sono –mi sembra- nella cripta della chiesa e l’ambiente è buio. La luce calda sui volti dei due si discosta dal pallore lunare della pietra e degli oggetti: si vuol focalizzare l’attenzione sui due personaggi. Sul prospetto dell’altare sono scolpiti dei teschi. Il giovane sceglie quello che più lo spaventa. E’ proprio quello che apre il passaggio segreto: la scelta giusta è, ancora una volta, proprio quella che non si vorrebbe fare. Inserendo le dita nelle orbite vuote si fa scattare il meccanismo di apertura: l’accesso alla conoscenza obbliga spesso a passare per vie spiacevoli. Il passaggio si apre offrendo una scala ripida per cui i due possono scendere. La colonna sonora (analizzerò insieme trama, soluzioni visive e sottolineature acustiche) è costituita dal vento e dallo stridio indistinto di alcuni animali, con tutta probabilità topi e pipistrelli. Escludendo la soluzione alquanto stupida –mi permetto il commento- di alcuni registi che illuminano in modo chiaramente artificiale anche gli ambienti che dovrebbero per natura essere bui, solo per esigenze di leggibilità dell’immagine e con un effetto assolutamente irreale, qui a spiccare nitide nel buio sono soltanto le figure dei nostri due eroi, illuminati dalle loro stesse lanterne. Assieme ai corpi, per un attimo, brillano anche i teschi accatastati uno sull’altro (li ritroveremo più avanti: la morte è una presenza incombente per tutta la pellicola).

Si trovano nell’ossario. Adso è seriamente spaventato. L’ambiente è descritto attraverso i suoni: lo sgocciolio di qualche rivolo d’acqua lontano rende l’idea di un posto umido, di un’aria stagnante, fredda quasi quanto l’alito della morte. Adso inciampa in un topo, inconsapevole guida che, “amando le pergamene più che gli studiosi” –annota con esperienza Guglielmo-, può guidare i due in direzione dei libri. Ancora i teschi, che al passaggio di Adso crollano leggermente uno sull’altro. Una breve inquadratura della parete esterna liscia e impenetrabile e il silenzio che vi regna attorno ci fanno capire come, da fuori, non si possa intuire cosa stia accadendo all’interno. Vengono anche visualizzate le feritoie a cui sono dovuti i sibili del vento che ci passa attraverso. Si apre una botola, da cui spunta fuori Guglielmo.

Eccoci, all’improvviso, nella biblioteca. E qui, sempre con molta discrezione, il frate può concedersi un’esplosione di gioia stupefatta nel ritrovarsi di botto nel LUOGO. (commovente per i tratti di Sean Connery, deformati da un delizioso entusiasmo infantile). La musica celestiale e tintinnante sottolinea la purezza e la freschezza della gioia del nostro frate; anche Adso, così giovane, capisce che per il precettore è quasi un’immagine divina ciò che gli sta davanti; un’oasi di sapere si allarga piano piano in un oceano, tra le cui onde Guglielmo si lascia perdere, iperaffascinato. Per lui è una beatitudine, un vedersi stagliato davanti il succo di tutto il sapere, una ricchezza che inebria, esalta. Adso, narrando, lo paragona al piacere della carne. Ed effettivamente il piacere è lì, che si fa vedere, che si può toccare, che invita seducente e si lascia sfogliare… Per Guglielmo, per sua natura così cerebrale, è proprio la brama di conoscere che permette di lasciarsi prendere dalla gioia dei sensi, di lasciarsi andare con voluttà a miniature volumi tomi… a compiacersi della loro perfezione, ad esaltarsi per tutto quello che si è già trovato e per l’infinito che si sa di poter ancora trovare (basterà aprire un libro a caso). La biblioteca è così satura di sensazioni che si trasmettono dai libri a Guglielmo e da Guglielmo sui libri che non si può non prendere parte a questa contagiosa euforia. Adso ancora non se ne rende conto ma sta sfogliando pagine proibite, e che probabilmente non leggerà mai più. I sentimenti dei due personaggi cominciano però a correre in direzioni opposte, accelerando il climax iniziato quando all’entusiasmo del maestro si era contrapposto il sottile disagio dell’allievo, ancora incredulo e perplesso per tanta gioia, e più intento a raccapezzarsi nel nuovo ambiente che ad ammirarlo realmente. Loro stessi fisicamente si allontanano l’uno dall’altro e, mentre Guglielmo continua a dissertare nel rapimento mistico –pur adesso controllato- per i suoi libri, che nel frattempo esamina, Adso invece presta attenzione a qualcosa che lo sta inquietando; i due non sanno con precisione di trovarsi in un vero e proprio labirinto, e così il novizio rimane alquanto sgomento poiché si accorge che gli è bastato allontanarsi un attimo e già non trova più il suo maestro.

Lo chiama. La musica adesso è cupa e prelude a qualcosa di preoccupante che sta per accadere. La musica continua a crescere in tensione, la voce di Adso si fa concitata, il suo spavento cresce, comincia quasi a correre, e nel frattempo la voce di Guglielmo gli arriva quasi beffarda poiché, mentre il suo maestro è fermo, la sua voce lo illude che egli si stia spostando con lui di stanza in stanza; e, mentre il giovane è sempre più inquieto, la risposta dell’anziano gli giunge invece con voce sempre ugualmente pacata, un timbro gioioso, felice. Infine, la scoperta che c’è qualcun altro nel labirinto.

Ora, stando comodamente seduti a casa, si può condividere, come no, il compiacimento della mia acuta interpretazione! Ma proviamo ad immaginarci soli, in una biblioteca vuota, circondati da scaffali di libri polverosi e austeri, con la voce del nostro compagno che giunge non si sa da dove, e un passo sopra la nostra testa che giunge non si sa da chi. Al buio e, come compagnia, una lucerna. E siamo dei giovani novizi. Fate un po’!

Il volto di Adso dichiara chiaramente la sua paura. L’unica colonna sonora sono i passi, come le voci echeggianti da un antro all’altro dell’immensa biblioteca. Evviva evviva, Guglielmo arriva alla conclusione che i due si trovano in un labirinto. “E anche molto bene architettato”. “Se mai ci riusciremo” è la nota a bassa voce aggiunta dopo quella che sembrava una convinzione di riuscita positiva nel tentare di trovare l’uscita. Guglielmo infatti sta solo tentando di tranquillizzare Adso, mentre sa che si trovano di fronte ad un vero problema. Lui comunque sembra sempre piuttosto stimolato dagli imprevisti, negativi o positivi che siano. Sono uno stimolo come un altro per il suo intelletto. Il vero colpo d’ingegno ce l’ha però l’allievo; mentre il maestro sta ancora perdendo tempo nel tranquillizzarlo, lui sta già pensando a un modo per uscire: disfa un capo della sua maglia per poi fissarlo ad un punto sulla parete. Ora Guglielmo gli ordina di leggere un libro ad alta voce mentre cammina imboccando solamente i passaggi a sinistra, per poter controllare in questo modo i suoi spostamenti. Il brano letto riguarda, guarda caso, l’amore, o meglio, le condizioni dell’innamorato, questa volta con esiti terribili. La voce, alla fine della lettura, ci fa capire che anche Adso concorda su quanto sia stata inopportuna la scelta del testo da leggere. Non era il caso di aggiungere particolari inquietanti. I due comunque si ritrovano: il novizio però si spaventa per la sua immagine riflessa all’improvviso in uno specchio… ma così trovano un altro anello della catena che stanno cercando di ricomporre, pur non sapendolo ancora (l’idolo a cui si riferisce l’appunto di Venanzio è, infatti, lo specchio). Gli imprevisti comunque non sono finiti. Guglielmo precipita infatti quando un blocco di assi cede sotto i suoi piedi (con tutta probabilità una trappola per chi si fosse avvicinato troppo allo specchio e, quindi, all’entrata del “Finis Africae”); non finisce di sotto solo grazie ad un tavolo che si incastra di sbieco nel buco, cadendo, e ad Adso che, pronto, corre a dargli una mano. Naturalmente il pensiero del frate va solo ai libri che sono precipitati giù. Rinvenutosi rapidamente (nel frattempo si inquadra l’esterno in cui si diffonde, nel silenzio dell’alba, un rumore di cavalli trainanti una carrozza) Guglielmo riprende il suo esame dell’enigma. Lo legge ad Adso che, a sua volta, macchinalmente, lo ripete, poi però riporta il maestro alla realtà facendogli notare che per loro “l’idolo e il primo e il settimo di quattro” non vogliono dire niente. Brillante battuta di Guglielmo che lo invita alla calma spiegando che, se avesse già in mano la risposta a tutto, non starebbe lì a scervellarsi per un enigma ma insegnerebbe teologia a Parigi. I teologi quindi non sembrano aver bisogno di pensare. Onniscienza o mancanza di scienza?

Di nuovo c’è un’inquadratura dell’esterno. I rumori sono molto forti. In primissimo piano cavalli e carri entrano nell’abbazia. Mormorii corrono mentre Bernardo Gui, l’Inquisitore, è inquadrato dall’alto. Il punto di vista poi è alle sue spalle, e tutta l’attenzione è puntata su di lui, proprio perché non ce ne viene mostrato il volto. Ritorniamo in biblioteca. L’ingegnosissimo Guglielmo è lì che palpa lo specchio quando ad un tratto si sente un ticchettio come di un meccanismo a scatto. Vien da pensare che sia stato Adso che, armeggiando vicino al cartiglio, abbia fatto scattare qualcosa. E invece si scopre che sono i suoi denti, che il poveretto batte per il freddo. Solo adesso, decidendo di tornare indietro e riprovare un altro giorno, Guglielmo si accorge che Adso ha usato la sua maglia come filo d’Arianna. Mentre il maestro si sta arrovellando cercando di ricordare complicatissimi sistemi di soluzione, il discepolo ha già in mano da un pezzo la chiave d’uscita, ottenuta con sistemi assai più pratici e di certo più a portata di mano. Escono dalla biblioteca e, sbucando da dietro una colonna, si fondono all’istante col colore della pietra, illuminati dalla luce della luna.

Ora, ciò che più mi ha affascinato in questa sequenza è stato che, a prima (e anche a seconda) vista, mi ha ricordato tanto un videoclip. E’ una sequenza scattante, in cui gli stessi temi si esauriscono e ritornano, proprio come in una canzone. Scoperte, errori, rimedi, soluzioni che però portano a dei nuovi errori per i quali di nuovo bisogna trovare rimedi, soluzioni… E comunque tutto rimane in sospeso, così… Di chi fossero i passi sentiti da Adso, quale sia la soluzione dell’enigma, perché abbia ceduto il pavimento (ammesso che sia stato un puro incidente), e con quale criterio siano disposte le stanze, nonché i libri. Tutto è rimandato a un altro giorno: questa è stata piuttosto un’ispezione, per ora infatti è un’altra storia che deve cominciare. L’atmosfera si condensa attorno alla carrozza di Bernardo Gui e ad Adso e Guglielmo che guardano da lontano il solenne ed elegante frate domenicano. Presto scopriremo che il vero trambusto deve ancora succedere……

 

                                                                       Ketty  B.

 

 

La notte in fiamme

 

Due sono i fatti che animano questa notte. Il film  ci permette di coglierne la contemporaneità grazie all’ormai noto sistema di alternarne le scene. Non potendo e volendo io avvalermi di questi artifizi, seguirò tutt’altra via. Dividerò la sequenza nelle due parti che la compongono, separandole. La cosa risulterà meno coinvolgente ma più chiara e lineare (lo spero)

Ci troviamo all’interno della torre che ospita la biblioteca. Biblioteca misteriosa e intricata giacché un interminabile succedersi di scale, passaggi segreti, stanze forma un vero e proprio labirinto. Questo luogo diventa teatro dello scontro finale tra antagonisti: da una parte il giovane Adso e frate Guglielmo, dall’altra il venerabile Jorge. Tutti traggono forza dall’amore. Adso ama la ragazza, vuole salvarla dal rogo ma può farlo solamente ritrovando il libro, dimostrando che esso è la causa della morte dei monaci. Guglielmo ama i libri per ciò che sono (manoscritti preziosamente miniati), per la sapienza e la magia che racchiudono; ed ama la ragione, e tutto quanto spiegabile con la ragione, e quel libro antico rappresenta la ragione. Infine Jorge, così ciecamente innamorato della propria verità da sconfinare nella violenta, tremenda follia. Il libro ne è la prova ma il vecchio intende “sigillare ciò che non doveva essere detto nella tomba che ora egli diventa”. Sono le sue ultime parole pronunciate mentre cerca la morte masticando lentamente e quasi con voluttà le pagine avvelenate. Tutto va eliminato, cancellato. E’ in quell’istante che Jorge avverte la presenza del lume di Adso. Bruciare! Il fuoco purificatore cancellerà ogni cosa. In un baleno la lanterna è gettata a terra e le fiamme divampano, si alzano, giungono ovunque. Jorge vi si addentra, senza una parola, stringendo l’oggetto del peccato. Adso è smarrito, teme per la sua vita e per quella del maestro ma obbedisce, riluttante, a questi che gli ordina di fuggire. Guglielmo rimane solo ad affrontare le fiamme. E’ disorientato, si muove in ogni direzione, lotta per strappare quanti più libri possibile al fuoco. Vorrebbe che nulla andasse perduto, anche a costo della sua stessa vita. Ma ha di fronte un nemico troppo forte e quei codici, quelle pergamene ne divengono facile preda. Nessun grido da parte sua, non una parola. Unico rumore quello delle fiamme che divorano la carta e l’intera biblioteca. Guglielmo piange. Lo sconforto e la disperazione stanno in quel pianto, non tanto dettati dalla consapevolezza del pericolo che sta correndo, quanto dall’impotenza nel trarre in salvo ciò che più gli sta a cuore. Come lui anche Adso è disperato. E’ una disperazione che non riguarda la ragazza e la sua sorte infelice. Il novizio sembra divenuto del tutto indifferente a quanto succede attorno a lui. Solo il maestro occupa la sua mente e il crederlo ormai spacciato è, appunto, la fonte della disperazione. Quand’ecco che un primo piano inquadra un passo strascicato, stremato, accompagnato da un codazzo di topi. Quasi contemporaneamente l’urlo di Adso: “Maestro!”. Ed è proprio il suo maestro che esce dalla torre, il volto scuro, le vesti bruciacchiate, alcuni grossi volumi tra le mani. Subito il giovane gli si lancia tra le braccia. Dapprima Guglielmo subisce passivamente poi, vinto dall’emozione, lascia cadere i tomi e stringe il discepolo a sé, con forza. Nell’intera scena è possibile notare un doppio climax, dapprima ascendente, con un crescendo di tensione che culmina nell’evento di maggior rilevanza, l’incendio; poi discendente, terminante con un lieto fine, con l’affettuoso abbraccio che riunisce i due protagonisti.

Spostiamoci all’esterno, nel cortile dell’abbazia. Qui si sta celebrando un rito affine a quello già descritto: Bernardo Gui è intento a scacciare il Maligno per mezzo del fuoco purificatore. Ma non è un libro che si intende bruciare bensì tre persone, tre eretici: frate Remigio da Varagine, il povero Salvatore e la ragazza amata da Adso. Sono in molti ad assistere, pur se con attitudini e reazioni affatto diverse. I monaci hanno assunto l’atteggiamento tipico nelle processioni; reggono le fiaccole, spargono l’incenso con movimenti ampi e regolari, recitano senza sosta interminabili e monotone preghiere. Nient’altro che un passivo sottofondo. E’ da rilevare, comunque, che nelle convulse vicende finali l’abate Abbone è del tutto marginalizzato: forse si vuol sottolineare che l’autonomia dell’autorità abbaziale scompare, annientata dal potere dell’Inquisizione. Ben diversa è la figura di Bernardo, alto sopra tutti, imponente ed elegante nella sua veste bianca, il volto impassibile, gelido, segretamente compiaciuto. E’ lui ad impartire ordini con poche parole, secche. E i suoi assistenti eseguono prontamente, più che mai indifferenti, abituati a tanta crudeltà. Più discosti, uscendo piano piano dall’ombra, stanno i contadini. Anch’essi reggono torce e bisbigliano, sussurrano. Cosa esprimono i loro sguardi fissi sull’orribile spettacolo? Stupore, senza dubbio. Ma che genere di stupore? Forse quello di chi non ha mai assistito ad una simile scena. O forse, per paradosso, quello nato nient’altro che dalla semplicità, dall’ingenuità dell’ignoranza. Quello stupore che consente di vedere con occhi diversi, di giudicare con menti meno ingombre da cieche credenze.

Anche i comportamenti dei tre condannati differiscono molto l’uno dall’altro. La ragazza è già da tempo priva di sensi. Salvatore canta una nenia. L’unico ad avere una reazione violenta è Remigio che, in preda a chissà quale disperata follia, sembra voler davvero recitare la parte dell’eretico. Forse è un ricordo realistico? Invoca i demoni, bestemmia la Chiesa e la Santa Inquisizione. Ecco che si leva un grido ad attirare l’attenzione su un altro fuoco, quello che proviene dalla biblioteca. Ed è il caos totale. I monaci corrono disordinatamente verso la torre. Dalla bocca deforme di Salvatore escono per la prima volta urla di dolore; Remigio, udendole, lo incoraggia a sopportare ricordandogli Dolcino. Gli unici a prendere coraggio dalla situazione che si è determinata sono i contadini; avanzano più decisi, il loro timore è quasi del tutto vinto. Le parti si sono invertite; ora è Bernardo Gui che retrocede in preda ad una malcelata paura. “Osate alzare le mani contro la Chiesa?!” esclama vedendo il pericolo vicino. Il gruppo si arresta, ha un attimo di esitazione, ma dubito che sia dovuto a ciò che Bernardo ha appena detto, quanto, invece, al tono con cui l’ha detto. Anche se trema di paura l’Inquisitore conserva, all’esterno, quel freddo aspetto imperioso e il tono della voce non subisce alcuna flessione. Questione di pochi attimi, approfittando dei quali Bernardo tenta una vile fuga. Ma così non fa che attirare l’odio e l’accanimento dei contadini. Come ultimo, mediocre atto egli chiede o meglio comanda a quegli stessi contadini di aiutarlo, di salvargli la vita. Le sue parole lasciano posto ad un urlo che si spegne sopra uno dei tanti strumenti di tortura, parte del bagaglio inquisitoriale.

A questo punto sorge spontanea la comparazione dei due “cattivi” dell’intera vicenda raccontata sia nel romanzo che nel film, ovvero Jorge e Bernardo. E’ vero che entrambi hanno tentato di “cacciare il Maligno”. E’ pure vero che entrambi sono morti a causa di questo. Ma che dire dei due modi completamente diversi di incontrare ed affrontare la morte? Nel caso di Jorge si può parlare di un vero sacrificio. Jorge ha sacrificato se stesso per la fede (anche se, suicidandosi, ha commesso un grave peccato). E’ un errore ritenerlo vincitore, dal momento che Guglielmo ha scoperto il suo segreto, ma è altrettanto errato ritenerlo del tutto sconfitto perché la sua morte ha in sé anche i caratteri della vittoria. In Bernardo, al contrario, non mi riesce di cogliere altro che stupido orgoglio, incoerenza, vigliaccheria. E questa viltà (su cui ho più volte insistito) lo segue fino alla morte, una morte che egli tenta fino all’ultimo di evitare. Non è disposto a sacrificarsi, un po’ come i delegati papali pronti a scappare. Non c’è dunque una fede sincera in lui? Forse a rispondere possono aiutarci queste parole pronunciate da Guglielmo: “L’Anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente”.

 

                                                           Monica  M.

 

L’addio all’abbazia

 

Ormai, con la luce del giorno, l’incendio è finito: da lontano si vede l’abbazia contornata da un fumo viola e, sullo sfondo, un cielo azzurro. Adso e Guglielmo stanno partendo; alcune persone portano via le ultime cose preziose rimaste illese dal fuoco. Il giovane novizio si sofferma un istante a guardare i tre roghi: due di essi bruciano ancora ma un palo non sembra essere stato arso dalle fiamme, proprio quello a cui era stata legata la fanciulla. L’immagine è particolare anche per il gioco della luce: il sole sembra inviare i suoi raggi solo verso questo palo, lasciando gli altri due in penombra. Il volto di Adso è in primo piano ed è facile leggere nei suoi occhi un punto interrogativo. Indietreggia confuso e sale sul suo asino. Avviatosi, continua a guardare i tre roghi che si vedono per la seconda volta ed ora è ancora più marcato l’effetto chiaro-scuro che ho indicato prima. Lo stupore di Adso cresce: forse ha capito che la fanciulla si è salvata. Egli abbassa lo sguardo e la macchina da presa inquadra d’improvviso l’abbazia, altissima e imponente, che –con le sue tre torri- sembra ripetere il simbolismo precedente. Si scende poi a inquadrare il sentiero che stanno percorrendo i due partenti, al di sotto delle mura.

Il sentiero, aspro e selvaggio, è ripreso frontalmente in modo che, ad una svolta poco più avanti, una figura femminile è vista prima di spalle. Adso, avanzando, le si avvicina sempre più fino a quando vede nitidamente il suo viso. Volge lo sguardo verso Guglielmo che è davanti a lui e che si gira per un istante ma poi prosegue il suo cammino. La ragazza, allora, si avvicina al novizio, le viene fatto un primo piano: il suo volto si illumina. Anche il volto di Adso, in primo piano, rivela commozione. Entrambi sorridono e la fanciulla gli prende una mano e si fa accarezzare il volto. Adso guarda per la seconda volta il maestro, che rimane impassibile. La fanciulla gli bacia la mano. Dagli occhi del giovane scende una lacrima: ma si è imposto una decisione, vuole riprendere la strada del ritorno. Guarda la fanciulla per l’ultima volta e riparte. La ragazza si volta a guardarlo, stupita. Egli si volta indietro per l’ultima volta ma sul viso della donna non traspare alcuna speranza, continua a guardarlo allontanarsi e il suo viso diventa sempre più piccolo e lontano, come se fosse il giovane a guardarla. Tutta la figura della fanciulla si affievolisce, offuscata dalla nebbia che la cancella a poco a poco e dalla distanza crescente. Si sentono le parole di Adso, vecchio e narratore: “Ripeto ancora oggi a me stesso che la mia scelta fu buona, che feci bene a seguire il mio maestro. Quando infine ci separammo, egli mi fece dono delle sue lenti. Poi mi abbracciò con la tenerezza di un padre e mi disse: “tu hai vissuto in questi giorni, mio povero ragazzo, una serie di avvenimenti in cui ogni retta regola sembrava essersi sciolta, ma l’anticristo può nascere dalla stessa pietà, dall’eccessivo amor di Dio o della verità, come l’eretico nasce dal santo e l’indemoniato dal veggente…”. Con queste ultime parole, la fanciulla scompare completamente e sullo schermo appare solo una nebbia azzurra. L’ultima scena si apre con queste frasi della voce narrante: “e la verità si manifesta a tratti, anche negli errori del mondo, così che dobbiamo decifrarne i segni, anche là dove ci appaiono oscuri e intessuti di una volontà del tutto intesa al male. Non vidi più il mio maestro, né so che cosa sia accaduto di lui ma prego sempre Dio che abbia accolto l’anima sua e gli abbia perdonato i molti atti d’orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere. Ma ora che sono molto, molto vecchio, mi rendo conto che di tutti i volti che dal passato mi tornano alla mente, più chiaro di tutti vedo quello della fanciulla che ha visitato tante volte i miei sogni di adulto e di vegliardo. Eppure dell’unico amore terreno della mia vita non avevo saputo, né seppi mai il nome”.

Il paesaggio, che ora viene ripreso dall’alto, è tutto coperto dalla neve che lo disegna con infinite e strane linee. Si vedono –molto lontani- Adso e Guglielmo che proseguono su un cammino segnato da due linee e intersecato da tantissime altre. Questo sfondo riprende il tema dei “segni oscuri e talvolta indecifrabili” che lasciano molti interrogativi nella vita dell’uomo. La ripresa si allarga ancora di più, i due si mimetizzano col paesaggio e ora si vedono anche delle colline e il cielo. La macchina da presa riprende prima la terra, le vallate che si intrecciano tra loro, poi le colline e, sopra di esse, il cielo.

 

                                                                       Elena  B.