Incubi e paure del bambino di Fulvio Imbriani

“Gli incubi e le paure del bambino di Fulvio”. Sequenza tratta dal film, “Allosanfàn”, dei fratelli Taviani, 1974

 

Il testo è stato estrapolato da un fascicolo di 106 pagine, scritto dagli studenti di due classi quarte del Liceo Sperimentale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre, pubblicato in forma di quaderno nel giugno 1997 e custodito nella biblioteca dell’istituto. Vi si dimostrano, accanto alle inevitabili incertezze del primo approccio di lettura di un testo visivo, originalità e lucidità di analisi, acutezza e sistematicità nell’organizzazione dei dati, una pazienza ammirevole nel ripetere più volte al video-registratore l’indagine sui più diversi aspetti della sequenza e nel fissarne sulla carta le coordinate più significative (associando le abilità legate alla cultura del libro a quelle derivate dalla cultura dello schermo).

Il cinema è l’arte che consente di integrare al meglio l’indagine bibliografica, iconica, musicale, tecnica. Le descrizioni d’ambiente, i paesaggi, i costumi, lo scavo psicologico dei personaggi e delle folle, i movimenti di massa, la stessa tecnica del montaggio offrono ai giovani studenti stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella dimensione quotidiana (fantastica e insieme materialmente elementare) di un fatto e di un’epoca. Questa esperienza di lettura, smontaggio e interpretazione di un testo audiovisivo ha fatto parte di un progetto più ampio di “Letture testuali e con-testuali” (poesia, novella, romanzo, cinema, saggistica, giornalismo, politica, pubblicità, canzoni), attuato in un arco di cinque anni, dal 1993 al 1998, che ha puntato semplicemente ad avvicinare gli studenti ad un uso più attento e critico anche della civiltà delle immagini. Li si è voluti  stimolare ad arricchire il loro lessico, con una quotidiana e paziente pratica di lettura, di ascolto, di visione, per contrastare un’espressività orale e scritta sempre più povera e banalizzata. Si è voluto suggerire un metodo di analisi, di concentrazione, di interrogazione di se stessi, di discussione e confidenza con gli altri (che dura da secoli e che oggi, forse, si sta perdendo). Di più, coltivando la fatica dell’interpretazione, lentamente costruiranno la pratica di un continuo approssimarsi alla verità, di una sua messa in discussione, di una necessaria dimensione sociale del pensiero, di una coltivazione di sé (già Leopardi e Gramsci dicevano che lo studio “è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia”).

prof. Gennaro Cucciniello

 

Gli incubi e le paure del bambino di Fulvio

La sequenza si apre nel collegio dove Fulvio, dopo i funerali di Charlotte, ha appena accompagnato suo figlio Massimiliano. E’ sera, quasi notte, ed in primo piano sfilano davanti alla scrivania della direzione, in una stanza debolmente illuminata, alcune sagome di giovani studenti che salutano (in francese) il direttore, augurandogli la buona notte. La ripresa si sposta poi sul primo piano del bambino, sprofondato in una grande sedia massiccia, con un’espressione triste e malinconica. Il padre, nel frattempo, sta pagando la retta; è inquadrato di spalle, come se fosse suo figlio –seduto in disparte- ad osservarlo. La debole illuminazione e la freddezza del luogo esprimono chiaramente i sentimenti del bimbo: egli probabilmente non si rende ancora conto che suo padre lo sta per lasciare ma dentro di sé, anche se non si ribella, si sente forse già angosciato.

La scena si sposta sul corridoio che porta alle camere: precede il guardiano, seguito da Fulvio che tiene in braccio il piccolo come per sentirlo suo ancora una volta. Le figure sono distinguibili sullo sfondo, intagliate dalla luce che penetra da una vetrata. Durante il tragitto che porta alla stanza dei nuovi ospiti Massimiliano chiede al padre cosa vogliano dire le parole “Mon amour”, ascoltate la sera prima a cena in un ristorante di Roma; Fulvio gli spiega come assumano significato se dette ad una persona alla quale si vuole bene; il figlio contempla il padre e ricade in quel silenzio che l’aveva dominato fino a poco tempo prima. Una volta in camera e messo a letto il bambino, Fulvio rimane chino su di lui per contemplarlo; a questo punto Massimiliano guardando negli occhi il padre gli ripete le parole “mon amour”, che tanto parevano averlo incuriosito, come se potesse con tali parole impedirne la partenza. Fulvio, mentre suo figlio dorme, è in piedi, si avvicina alla finestra: evidente contrasto luminoso tra il bianco delle lenzuola e dei suoi stessi abiti col buio della camera. Strano a dirsi, ma l’uomo, che è sembrato fin qui sempre forte e determinato, cede e piange. Perché un uomo forte piange? Forse perché è toccato nei suoi affetti, si sente un padre fallito (praticamente è stato sempre assente dalla vita di suo figlio) e ora ha paura di perderlo definitivamente, non vorrebbe allontanarsene. Nella stanza domina il silenzio che però è rotto improvvisamente da una nota brusca, un suono che crea aspra tensione. Inizia il delirio, l’incubo del bambino che si agita nel letto, vuole scacciare il padre (“Pussa via”) che gli dorme accanto, vuole fuggire per tornare a casa, in campagna: ha il viso angosciato.  Il padre, per impaurirlo e riportarlo a sé, gli narra la storia del rospo: un bambino non ascoltò suo padre e scappò nel bosco, in una casa abbandonata; la notte era buia e un grande rospo entrò nella casa e si mangiò il bambino. Fulvio racconta con un tono basso per aumentare la suggestione: copre anche la lampada con un panno verde per creare una luce soffusa e inquietante. Lo spettatore prova sicuramente tenerezza e pena per il povero Massimiliano: è così piccolo ed è solo di fronte al vuoto della stanza, alla sua paura e soprattutto alla sua solitudine.

Fulvio è un padre inesperto. Crede che per farsi ubbidire basti impaurire il bambino con storie fantastiche, senza dare spiegazioni; in questo modo invece ottiene l’effetto contrario; infatti terrorizza il figlio rendendoselo quasi nemico. Poi pentendosi, ma ormai è troppo tardi, abbraccia il suo bimbo che piange. Sembra anche lui in preda alle allucinazioni: dice di vedere infatti un grosso rospo sulla porta, come se fosse la punizione per tutto ciò che aveva raccontato prima; l’animale lo sta trascinando verso il letto, vuole divorarlo. Massimiliano non vuole più ascoltare. Allora l’uomo con un gesto rapido toglie il panno dalla lampada per spegnerla definitivamente nella speranza che il buio possa riavvicinarli. Si mette quindi in ginocchio sul letto e dice: “Sì, sono vivo: sono il rospo incarnato, ho mangiato tuo padre e prima che lo digerisca…solo un bambino può salvarlo”, ma il figlioletto non si fa coinvolgere più di tanto, cela soltanto la paura dietro gli occhi chiusi. Azzardo un’ipotesi: il rospo, che secondo il racconto fantastico avrebbe dovuto mangiare Fulvio, potrebbe essere una spia premonitrice della sua morte, non troppo lontana.

Il bambino, stretto dall’abbraccio paterno, rimane distaccato, non parla e non risponde più. La strana figura del rospo si trasforma in quella del guardiano (giunto per svegliare Fulvio: sono le quattro e deve partire) che, impassibile, parla con voce monotona e pacata. La sequenza finisce con un ultimo primo piano del piccolo che, il volto bagnato dalle lacrime, tenta di distaccarsi dal padre e di mostrare la sua rabbia chiudendo gli occhi e la bocca e irrigidendo i muscoli. E proprio questa sarà l’ultima immagine, l’ultimo ricordo che l’Imbriani avrà del suo bambino.

 

                                                                       Elisa  C.