La Catalogna vuole l’indipendenza. L’opinione di Arcadi Espada, intellettuale di Barcellona.

Catalogna, e adesso che si fa? Dove va il separatismo che spaventa la Spagna e l’Europa?  Marco Cicala intervista Arcadi Espada, intellettuale catalano.

 

Pubblico questa intervista di M. Cicala ad Arcadi Espada per il rilievo che assume oggi la vicenda catalano-spagnola nel grande calderone della crisi europea. Il problema è questo: la Catalogna insiste nella sua rivendicazione indipendentista mentre la Spagna non riesce ad esprimere, dopo le elezioni politiche del dicembre scorso, una maggioranza e un governo legittimi. I quattro partiti più grandi sono incapaci di costruire una sintesi accettabile e coerente: il Partito Popolare e i Ciudadanos (il centro-destra), i socialisti e Podemos (il centro-sinistra) non trovano intese credibili. Con tutta probabilità si dovrà tornare a votare in primavera.

In questa premessa vorrei sottolineare almeno due aspetti di questa vicenda: il concetto di democrazia e la crisi europea. Di norma la democrazia consiste nel decidere all’interno della legge, l’unica difesa dei deboli di fronte ai potenti, l’unica garanzia del fatto che una minoranza non si imporrà a una maggioranza. E’ evidente che con l’attuale Legge Costituzionale spagnola i catalani non possono decidere per conto loro se vogliono l’indipendenza, perché la Costituzione dice che la sovranità risiede nell’insieme del popolo spagnolo (nessuna Costituzione riconosce a una parte dello Stato il diritto di separarsi dal resto del paese per conto suo). Allora che fare? I catalani devono richiedere un referendum esteso all’intera nazione spagnola e accettarne il risultato, anche se prevedibile.

Il quadro europeo. L’idea di Stato, così come l’abbiamo fin qui conosciuta –in Occidente ma anche in Oriente- si fonda su tre elementi: la funzione della guerra, che è alle sue origini; la dimensione della territorialità; l’esistenza di una burocrazia che applichi il principio della sovranità. Ma questa idea è stata sfidata dall’irruzione della globalizzazione, che ha mostrato come non si possa esercitare un governo efficiente se si agisce all’interno dei confini dello Stato-nazione. E’ la potenza del mercato che plasma i rapporti sociali sottraendo gran parte della loro efficacia ai compiti tradizionali dello Stato. Così questo si disaggrega.

Da tempo Lucio Caracciolo scrive che la fine della guerra fredda ha riportato in evidenza le diverse prospettive e i diversi interessi economici e geopolitici all’interno dell’Ovest. Mancando la pressione della minaccia sovietica lo spazio europeo non appare più agli Usa come prioritario. Risultato: noi europei siamo liberi di tornare ad essere noi stessi, popoli ed entità statuali o sub statuali orgogliosi delle proprie effettive o presunte peculiarità storico-culturali. Quindi è un fiorire di festival localisti o regionalisti di popoli senza Stato che vogliono darsene uno (scozzesi, catalani, baschi) o inventarlo di sana pianta (i padani), in nome dei rispettivi diritti storici. La crisi economica degli ultimi sette anni e la gigantesca emigrazione  hanno esasperato paure ed egoismi, non hanno favorito la cooperazione e nemmeno la comprensione delle ragioni altrui. Anche qui, che fare? Ci deve essere uno Stato europeo? In quali confini e con quali fini? Fondato su quali istituzioni? Discutiamo, decidiamo e poi sottoponiamo il progetto alla sanzione popolare, almeno fra tutti i cittadini europei interessati. Risponderemo: sì o no. I paesi del sì, se ce ne saranno, potranno avviare l’integrazione; quelli del no coltiveranno il proprio orto, si spera in cooperazione col nuovo Stato Europa.

                                                                                  Gennaro Cucciniello

Nel suo ultimo libro, una raccolta di corsivi politici –illustrata come un burlesque satirico-, Arcadi Espada appare disegnato con parruccona settecentesca. Tranquilli: non è nostalgia per l’Ancien Régime, ma giusto un omaggio scherzoso a Daniel Defoe e ai suoi resoconti della peste che decimò Londra negli anni 1664-1666. Anche gli interventi di Espada parlano di un contagio. Però luoghi, tempi e gravità del morbo sono tutt’altri.

Siamo in Catalogna, ai giorni nostri, e quello che lui analizza come un flagello è il redivivo nazionalismo separatista. Columnist urticante, nato a Barcellona nel 1957, Arcadi Espada è una bestia nera del neo-indipendentismo. Per rendersene conto basta farsi una passeggiatina sul web. Tra gli appellativi di cui viene insignito da chi non lo sopporta, sinverguenza, svergognato, è il più riferibile. Per gli estimatori, che pure non mancano, Espada è invece un polemista iconoclasta nel solco di George Orwell o Christopher Hitchens, per non dire di Indro Montanelli del quale ha curato un’antologia spagnola di scritti.

Dal 10 gennaio 2016 il governo autonomo catalano ha un nuovo presidente, l’ex filologo e giornalista Carles Puigdemont. Ma la sua nomina è stato un parto travagliato. Le elezioni regionali del settembre scorso non sono sfociate nel plebiscito pro-separazione su cui puntava il blocco nazionalista guidato dal governatore uscente Artur Mas. Gli scissionisti hanno prevalso in seggi ma non in voti. E per la maggioranza assoluta al Parlament di Barcellona il liberale Mas ha dovuto corteggiare la CUP, sinistra radicale indipendentista, che dopo mesi di trattative inconcludenti ha preteso e ottenuto il suo sacrificio a favore del più gradito Puigdemont. Tutto mentre la Spagna annaspava nel vuoto politico in cui l’avevano gettata le elezioni legislative del dicembre scorso: nessun partito in grado di governare da solo, e alleanze introvabili.

Ma ora in Catalogna a che punto siamo? “Il più oscuro”, taglia corto Espada. “L’accordo con gli antisistema della CUP –gente che vuole l’uscita dall’euro o la nazionalizzazione delle banche- rivela ormai uno stato di cose che sconfina nella surrealtà. Siamo al circo. Si è toccato il fondo. Più in basso non si può scendere”.

Puigdemont si è insediato con propositi arrembanti –Catalogna indipendente in 18 mesi- poi li ha ammorbiditi. Chi è il nuovo President? “Un giornalista dalla parola facile e dai ragionamenti difficili. Un dirigente di provincia, Gerona, la più indipendentista della Catalogna”.

Con lui assisteremo a una radicalizzazione dello scontro? “Temo di sì. Il processo separatista era già radicale: ora è nelle mani dei radicali”.

Il predecessore Artur Mas è stato l’uomo simbolo del rinato indipendentismo. Lei come lo definirebbe? “Un qualunquista. Una ventina d’anni fa lo intervistai per El Paìs. Toccammo il tema dell’indipendenza. Lui disse che per la sua generazione –che è anche la mia- era una battaglia ormai priva di interesse, totalmente superata. Che in seguito si sia trasformato in un ardente predicatore separatista ne fa un caso umano a suo modo molto interessante”.

Ha rivitalizzato un’idea che molti ritenevano sepolta. “Quella indipendentista è un’ossessione, un delirio messianico. Poco importa che la separazione sia illegale e illegittima e che nelle urne non sia riuscita a superare la soglia psicologica del 51%. Da chi la propugna è vissuta come un appuntamento con la Storia”.

Che cosa li muove? “Spesso meccanismi molto più semplici di quanto si possa immaginare. Vede, l’indipendenza ha ridato un senso alle loro vite. Pescando consensi anche a sinistra, tra socialisti delusi, comunisti smarriti, gente che ha perso tutte le battaglie”.

Malgrado sfiorino la metà dei consensi, lei non annette alcuna logica, nessuna base di realtà alle loro rivendicazioni. “Siamo ormai largamente nell’irrazionale. E’ un credo con qualcosa di religioso”.

C’è la difesa di una lingua. “Difesa da chi, da che? Il catalano è superprotetto. In Catalogna ha totalmente oscurato il castigliano. Dal Québec alla Gran Bretagna alle Fiandre non c’è altro territorio al mondo –salvo le isole Faroe- dove ai bambini non si possa insegnare nella lingua ufficiale dello Stato”.

Come ci si è arrivati? “A furia di concessioni elargite ai nazionalisti per convenienze politiche. Un esempio: in Catalogna c’è una legge che in certe circostanze può multarti se usi solo il castigliano. Che so, sul menù o sui cartelli del tuo ristorante. Sa da chi fu approvata? Dalla destra, sotto Aznar.”

Dicono che versano allo Stato spagnolo più di quanto ne ricevono. “Prenda qualsiasi regione ricca europea: Lombardia, le aree più opulente della Francia, certi Lander tedeschi o le zone più dinamiche della Spagna… Il deficit fiscale è esattamente analogo a quello catalano”.

Tutti gli indicatori economici mostrano che la secessione sarebbe disastrosa per la Catalogna. Ma gli imprenditori nicchiano. “Hanno reagito in ritardo. Con Mas e soci hanno raccolto parecchio in materia di appalti”.

Dopo le inchieste sulla corruzione, che hanno raggiunto perfino figure patriarcali del nazionalismo quali Jordi Pujol, c’è chi legge il putiferio indipendentista come uno stratagemma utilizzato da un ceto politico per salvare se stesso. Malignità? “Mi piacerebbe dire che hanno ragione. Però non lo credo. Certo, si è rubato. Ma né più né meno che nel resto della Spagna. In Catalogna le cifre della corruzione sono assolutamente in linea con quelle del resto del Paese. Anche in questo non c’è nessuna eccezionalità catalana”.

Quanto hanno contribuito i grandi partiti nazionali –Popolari e Socialisti- all’incancrenirsi della situazione? “Moltissimo. Essenzialmente per due motivi. Primo, hanno usato i nazionalisti per assicurarsi il potere quando non avevano i numeri per governare. E così hanno rafforzato il catalanismo in termini di peso politico, economia, ascendente morale. Secondo, perché –specie a sinistra- c’è sempre stato un senso di colpa nei confronti della Catalogna. Come se le si dovesse sempre qualcosa”.

Che in Catalogna esista un nazionalismo di sinistra può suonare strano. “E’ uno dei drammi della situazione. La sinistra catalana ha finito per accogliere in modo acritico i postulati nazionalisti. Perché? Per vari motivi. Sul piano culturale c’è più di un punto in comune tra il nazionalismo e certa sinistra. Per esempio, la subalternità dell’individuo rispetto al gruppo. Nazione e lotta di classe animano entrambe ideologie comunitarie nelle quali il ruolo del singolo è secondario. Poi ci sono ragioni storiche sulle quali hanno pesato la Guerra Civile, il franchismo, il fatto che il patriottismo sia stato monopolio della destra, creando una sinistra complessata che non ha più saputo distinguere tra nazionalismo e un concetto di Nazione come Stato dei cittadini”.

Concetto che lei difende. “La modernità europea nasce dall’idea che ad ogni comunità, gruppo culturale, entità linguistica o religiosa non debba corrispondere per forza uno Stato. L’identità Stato-Comunità era quella del mondo medievale, con la sua infinita frammentazione. Se sono antiseparatista è perché penso che solo entità sovranazionali possano limare il peggio dell’uomo, l’esclusivismo tribale del Noi e del Voi. Ogni nazionalismo racchiude una componente xenofoba. Anche il più simpatico”.

Tra raduni, feste, cortei il neocatalanismo mostra una notevole capacità di mobilitazione. Si è riappropriato degli strumenti aggregativi della sinistra? “La mia le sembrerà una lettura troppo postmoderna, ma più che altro si sono appropriati dei successi calcistici del Barcelona FC. Quando lo dico la gente sorride, però il fùtbol è stato e continua a essere un fattore decisivo. Vada a una manifestazione indipendentista: non la distinguerà da una festa di tifosi. Dopotutto, dicono che il Barca è Mes que un club, più di un semplice club”.

Une fede. “Era una squadra che aveva alle spalle una storia di sconfitte. Poi con Guardiola e Messi diventa la migliore del mondo e forse della storia. In Catalogna i trionfi sportivi hanno euforizzato la società, la politica. E oggi molti militanti in buona fede vivono il sogno indipendentista come se fosse la Champions. Una partita dove si gioca per vincere”.

Ma il nazionalismo catalano ha una storia antica. Quello odierno si pone in rapporto di continuità o rottura rispetto alla tradizione? “In Catalogna i nazionalisti si definirono catalanisti, parola delicata per smarcarsi dal nazionalismo più truce e oscuro. Un tempo si diceva che la Catalogna non voleva separarsi ma addirittura diventare la locomotiva della Spagna. Era vero solo in parte. Più o meno gradualmente, ogni nazionalismo mira alal conquista del potere e alla secessione. Un nazionalista non può accontentarsi di un regime di autonomia. Comunque per me il catalanismo è morto. E non perché ha fallito, ma perché ha avuto successo, ha realizzato i suoi obiettivi”.

Quali? “Quelli raggiunti con la Costituzione del 1978. C’è forse in Europa un sistema di autonomie e di nazionalità comparabile a quello stabilito dalla nostra carta fondamentale? Chieda ai costituzionalisti tedeschi. Le diranno che per certi aspetti l’autonomismo spagnolo supera il federalismo dei Lander. Stesso discorso per la Scozia che, tanto prima quanto dopo il referendum, ha poteri molto più limitativi quelli catalani.”

Per questo l’idea di una riforma costituzionale non le piace. “Perché farla? Per far piacere ai nazionalisti? Accontentarli è impossibile. Loro vogliono che la Spagna diventi un posto con due soggetti sovrani: i catalani e il resto degli spagnoli. Impraticabile. Salvo con l’accordo di tutti gli spagnoli. Devono convincerli. Non è detto che non ci riescano. Podemos vuole il referendum”.

Alle ultime elezioni politiche nazionali il partito Podemos è diventato prima forza in Catalogna. Che tipo di referendum prospetta? “Ristretto ai soli catalani. Il diritto a decidere del resto degli spagnoli verrebbe sospeso. Ma così com’è la Costituzione non lo permette. Convocare un referendum già sarebbe il primo atto dell’indipendenza. Podemos sembra difendere una via morbida alla scissione. Però pretendere che i catalani decidano al posto di tutti gli spagnoli pone Iglesias sullo stesso livello degli indipendentisti classici”.

In Scozia il referendum lo hanno fatto per conto loro. E l’hanno perso. “Ma lì il processo storico dei patti con Londra era del tutto diverso. Qui in Spagna tutti, catalani inclusi, decisero a un cero punto che l’organizzazione dello Stato era un problema di tutti gli spagnoli. E che nessuno avrebbe potuto rivendicare il diritto a decidere negandolo agli altri. Come a dire: che io viva in Catalogna, Paesi Baschi, Andalusia o Galizia, ho contribuito a farti diventare quel che sei con le mie tasse, il mio lavoro, i miei guadagni…”.

Lei ha appoggiato la nascita di Ciudadanos, centrodestra anticasta che però alle politiche è andato maluccio. “Veniva da una campagna mal calibrata. Albert Rivera e la sua squadra hanno scelto di non mettere più la Catalogna tra le priorità del loro progetto politico. Forse per il timore di essere considerati localisti. Così sono caduti nella trappola che da sempre il nazionalismo tende, considerare cioè quello della Catalogna un conflitto interno ai soli catalani”.

Il catalanismo è sempre stato nonviolento ma alla lunga questo braccio di ferro potrebbe produrre derive? “Hanno scelto di scavalcare la legge. In questi casi uno Stato che fa? Si difende. Ma non penso che si arriverà a scenari violenti. Potrebbero esserci disordini, qualche arresto di dirigente. Un indipendentista famoso, e ottimo storico, Josep Fontana, ha detto: Non arriveremo mai all’indipendenza perché per ottenerla ci vuole una guerra di indipendenza. Credo che oggi nemmeno i più deliranti tra i catalanisti siano disposti a perdere un’ora in strada appresso a roba simile”.

                                                                                  Marco Cicala

Questo articolo-intervista è stato pubblicato nel “il Venerdì di Repubblica”, n. 1454, del 29 gennaio 2016, pp. 30-33.