La fioritura delle arti nelle Vicenza del secondo ‘500

La fioritura delle arti nella Vicenza del secondo ‘500

In città lavoravano negli stessi cantieri l’architetto Palladio, lo scultore Vittoria, i pittori Veronese e Jacopo Bassano. Una Mostra.

 

Con affascinante realismo Giuditta è sorpresa mentre consegna la testa di Oloferne all’ancella Abra. Una storia, quella dell’eroina ebrea e del generale assiro decapitato, che Paolo Caliari detto il Veronese (1528-1588) avrebbe affrontato almeno due volte negli anni Ottanta del ‘500. La più celebre delle due Giuditte, quella oggi conservata al Museo di palazzo Rosso a Genova, è stilisticamente tutta giocata sulla contrapposizione: gli incarnati scuri del corpo decapitato e di quello dell’ancella, i bianchi lenzuoli e la pallida carnagione d’avorio di Giuditta, illuminata con grande effetto da una luce che spiove da destra.

Quando Xavier Salomon (vicedirettore della Frick Collection di New York) cura nel 2014 una rassegna di Veronese alla National Gallery di Londra (Magnificence in Renaissance Venice), esponendo la Giuditta di Palazzo Rosso nella sala delle opere tarde di veronese, qualcosa però sembra non tornare: dal confronto con gli altri dipinti è chiaro che quella Giuditta non può essere un quadro tardo ma, al contrario, molto più precoce. Diventa allora fondamentale ritrovare un piccolo bozzetto del quadro, pubblicato in bianco e nero nel 1995, ma poi scomparso dai radar, inghiottito dal collezionismo privato. E’ importante perché tutti i bozzetti conosciuti di Veronese sono realizzati per opere giobanili e analizzarlo può dare indicazioni preziose.

La storia divisa delle due Giuditte si conclude con la mostra in programma alla Basilica Palladiana di Vicenza dall’11 dicembre 2021 (La fabbrica del Rinascimento, fino al 18 aprile 2022), mostra curata da Davide Gasparotto, Guido Beltramini e Mattia Vinco. Dove, accanto a quella di Genova comparirà finalmente (per la prima volta per il pubblico europeo e nordamericano, annunciano i curatori), anche l’altra Giuditta, in pratica un bozzetto della versione genovese: da anni smarrita a Città del Messico, nel museo privato costituito dal miliardario messicano di origini libanesi Carlos Slim per commemorare la scomparsa della moglie Soumaya (una collezione di oltre 66mila opere, la più importante delle quali risulta essere una versione della Madonna dei Fusi di Leonardo, attribuita alla sua scuola).

Sarà straordinario” –spiega Beltramini- “vedere i due dipinti affiancati, si tratta di una prima assoluta. E’ una storia che dimostra, una volta di più, quanto sia importante per una mostra basarsi innanzitutto sulla ricerca scientifica. Quella intrapresa da Salomon che ha individuato la “Giuditta” in Messico. E quella proseguita da Gasparotto che, grazie a Francesca Conti –curatrice italiana del Soumaya Museum- ha potuto analizzare a fondo il dipinto, un olio su carta, e accertarne l’autenticità”.

Le due Giuditte in mostra a Vicenza racconteranno, dunque, quella che viene definita la Fabbrica del Rinascimento. “Fabbrica” –precisa Vinco- “perché si è voluto andare oltre il godimento estetico dei capolavori esposti per indagare come siano stati creati, mettendo accanto opere finite e disegni preparatori”, come nel caso del “Ritratto di artista in bottega” di Palma il Giovane. Oppure dipinti gemelli: l’Adorazione dei Magi di Jacopo Bassano del Kunsthistorisches Museum di Vienna e quella del Birmingham Museums Trust. O, ancora, quadri rimasti a lungo separati: i due ritratti di Livia Thiene e del marito Iseppo Porto accanto ai figli tornati finalmente nella propria città a poche centinaia di metri dalla casa che Andrea Palladio aveva disegnato per loro. Attraverso 85 capolavori la mostra ricostruisce i 30 anni della vita artistica di Vicenza, dal 1550 all’inaugurazione del Teatro Olimpico nel 1585.

Il caso di Vicenza a metà ‘500 offre un punto di osservazione privilegiato perché lo scultore Alessandro Vittoria, l’architetto Palladio e il pittore Veronese di fatto lavorano insieme, negli stessi cantieri, e quindi possiamo osservare questi processi in contemporanea in tutte e tre le arti. E anche perché il pittore Jacopo Bassano aveva una bottega che era una vera e propria fabbrica, in cui non solo si inventavano, ma sistematicamente si replicavano capolavori per le chiese e il collezionismo privato, e parallelamente si eseguivano opere di carattere più modesto, come la decorazione delle insegne delle osterie, dei ceri pasquali e degli stendardi religiosi.

Nel catalogo due studiose italiane, Barbara Furlotti e Laura Moretti” –conclude Gasparotto- “hanno colto alla perfezione il momento della nascita del collezionismo di opere antiche, dimostrando che erano queste, e non i dipinti rinascimentali, il sogno proibito dei collezionisti. Non solo opere vere, ma anche molte opere antiche false create dagli stessi artisti rinascimentali per quei collezionisti che non avevano abbastanza soldi per comprare quelle vere”.

Un pool di storici dell’economia guidati da Edoardo Demo dell’Università di Verona, prendendo come riferimento il valore di un maiale di media grandezza (il cosiddetto mezzanotto) intorno al 1550, ha poi cercato di definire i valori delle opere d’arte con il numero di maiali che potevano comprare. Per scoprire che Palladio, come architetto della Basilica, guadagnava un maiale al mese che corrispondeva al costo di un taglio di lana usato per realizzare la giubba di uno dei suoi ricchi clienti. E che il meraviglioso “Ritratto di due cani” di Bassano costava un terzo di maiale mentre un arazzo di medie dimensioni ne costava 31 e mezzo. Tutto dipendeva, appunto, dalla fabbrica, ovvero dal tempo necessario e dai materiali: per questo la croce con cristalli di rocca realizzata da Valerio Belli per papa Paolo III ne valeva addirittura 250.

 

                                                                  Stefano Bucci

 

Questo articolo è stato pubblicato ne “La Lettura” del 14 novembre 2021, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 44-45