La Repubblica Romana del 1849 e mio nonno Garibaldo

La Repubblica Romana del 1849 e mio nonno Garibaldo

Contadini anarchici, studenti del Gianicolo: guida alle differenze tra sovranità e illusione sovranista. 

 

Cosa ne sanno i sovranisti della sovranità? Cosa ne sanno della signorilità che le è soggiacente? Non ne sanno niente di niente, e quando li sento dire capisco che non ne hanno nemmeno il filo di un sospetto, ne sarebbero esterrefatti. Loro dicono sovranità e pensano proprietà, vogliono farla da padroni e si sentono dei signori. Ma il signore è l’uomo di libero destino, il sovrano è il guardiano, il sovrano è il responsabile. Questo è la sovranità, è responsabilità. Responsabilità per il proprio destino e per l’universo intero. “Arcordete Maurì, a san tutti uguali miga perché a san tutti servi, ma perché a san tutti signori”, mi ingiungeva mio nonno Garibaldo per spiegarmi l’anarchia al tempo che ero un ragazzo. E quel contadino semianalfabeta che teneva in casa l’Orlando Furioso e La Rivoluzione Italiana di Carlo Pisacane, e ha continuato a leggerseli per tutto il tempo che ha vissuto, era un gran signore e mi ha cresciuto nella coscienza che in quella casa di miserabili contadini dove ero nato vivevano e operavano uomini liberi, signori del proprio destino, responsabili per ogni essere e per ogni cosa vivente, nullatenenti sovrani dell’universo.

Sovrani combattenti, perché precisava, “i eh sempre doi i destini de n’omo”, il destino che gli mettono sulla testa i padroni di tutti i destini e quello che un uomo deve conquistarsi con le sue mani e il pensiero suo e dei maestri. Pensiero e azione; era un anarchico che adorava Pisacane, venerava il generale Garibaldi, e voleva anche bene a Mazzini, era un anarcomazziniano, ce ne sono stati anche così.

Chissà se Garibaldo ha mai letto la Costituzione della Repubblica Romana. Di certo conosceva la Repubblica, altrimenti non sarebbe stato Garibaldo, altrimenti la notte del 9 febbraio non avrebbe acceso alla finestra della camera dove dormiva il suo vecchio lume ad acetilene. Fanlo vedere ch’arsarcordan. E me la raccontava la Repubblica, e mi diceva che era stata la più bella di tutte le rivoluzioni di quell’anno inverosimile, quel famoso ’48 quando non c’era in tutto il mondo un solo re, un solo primo ministro che avessero dormito nel proprio letto. E quel lume ancora acceso un secolo dopo diceva quanto fosse stata romantica e tragica e commovente la sua vicenda, quanta meraviglia e nostalgia e rimpianti.

La Repubblica sostenuta dalla più fervente gioventù d’Europa, difesa dal generale Garibaldi, l’edificatore di nazioni, a edificarne lo spirito il più audace pensatore politico, Giuseppe Mazzini, a viverla sotto l’assedio di quattro eserciti e due flotte il popolo di Roma, colmo di stupore e promettenza per quello che aveva saputo fare di se stesso. Mi raccontava Garibaldo dei Quattro Venti e del Gianicolo, ma non ricordo che mi avesse mai detto dell’ultima battaglia del Reggimento La Sapienza con gli invasori già in giro per il Campidoglio. Fu combattuta perché una tipografia potesse continuare a lavorare dal reggimento degli studenti della Sapienza, quelli che erano la disperazione del Generale perché avevano una gran propensione al dibattito e alla fine non sapevano da che parte si girava un moschetto. Ne morirono abbastanza da riempire una grossa lapide, ma quella battaglia la vinsero e la tipografia finì il suo lavoro, così che l’ultimo atto formale della Repubblica fu la pubblicazione della sua Costituzione, e il suo atto di fondazione diventa un atto inoppugnabile, perché la forma è materia, la materia è viva, e viva è la Repubblica, che senza quell’ultima battaglia vinta da soldatini maldestri sarebbe solo il ricordo di una rivoluzione sconfitta. 

Se l’ha letta gli è senz’altro piaciuta a Garibaldo, perché comincia parlando di lui, della sua signorilità, in modo struggente, innamorato: “Articolo primo. La sovranità è per diritto eterno nel popolo”. Ma se anche avesse voluto, come avrebbe potuto Garibaldo trovare parole bastanti a un ragazzino campagnolo per capire un pensiero così ardito? La sovranità non è del popolo, ma nel popolo. Non è una proprietà conquistata, acquistata, donata, non è proprietà e basta, è sua stessa natura; il possesso è transitorio, la natura inalienabile: se qualcosa è di qualcuno, facile che domani sarà di un altro, se è in qualcuno, resterà lì, in eterno. Bisogna essere dei pazzi anarchici follemente innamorati degli umani per pensarli per loro stessa natura sovrani, esseri liberi, signori che possono un giorno liberamente stabilire di condividere la sovranità e farla universale, farsi popolo sovrano, responsabile in eterno per ciascuno e per tutti e per tutto. Sì, bisogna essere dei pazzi visionari, un po’ più visionari del principe Bakunin e pazzi almeno quanto Iddio in persona.

Chissà se Garibaldo ha mai letto la Bibbia; forse sì, e gli deve essere piaciuta, perché parla di lui e della sua signorilità nullatenente. Succede proprio all’inizio di tutto quanto un fatto assai singolare; c’è lì l’Universo nuovo di zecca e le infinite meraviglie e gli splendori, e c’è questa creatura, anche lei appena fatta, che a Iddio sembrava venuta così bene, la cosa meglio riuscita, il capolavoro conclusivo di un’opera immane, e se la vede che vagola nell’indicibile bellezza dell’opera sua in preda allo sconforto e alle ubbie della solitudine, da non credere.

Pensa e ripensa a Iddio viene un’idea, prende tutto quanto l’Universo, dalle galassie ai lombrichi, glielo mette lì davanti e lo invita, o piuttosto gli intima, di dare un nome a ogni cosa, così da farsene sovrano, e esserne responsabile, la qual cosa gli darà parecchio da fare e gli farà una gran compagnia. E così è stato, ogniqualvolta la creatura prediletta ha accettato il solenne carico del suo primevo mandato. Al pari di questi sovranisti, i truci catechisti della mia infanzia facevano l’uomo padrone, ma non c’è scritto padrone, c’è scritto proprio sovrano. Se Garibaldo ha letto la Bibbia, ha certamente apprezzato questa storia, e allora gli sarà anche piaciuta la bandiera della Repubblica Romana, il tricolore delle libertà con quella strana, conturbante scritta nella banda bianca, Dio e Popolo.

Ovvio che sia così, e che lo sia proprio per quelli che hanno sloggiato il papa dal suo soglio, perché la natura signorile degli uomini e la sovranità dei popoli è una faccenda tra loro e il Creatore, e chiunque ci si metta di mezzo a qualunque titolo lo faccia è solo un usurpatore, un tiranno, un sovranicida. Un po’ più di un pensiero ardito, l’utopia anarchica dell’Umanità Nova, e il chiodo fisso del Dio della Bibbia, che da quattromila anni è lì che non smette di chiedere agli umani di essere diversi da quello che sembrano essere, di redimersi dalla loro sfibrante, sporca storia di servitù. E mi piace credere che sia per questo che Garibaldo ha continuato ad accendere il suo lume nella notte del 9 febbraio, per ricordare di una rivoluzione e della sua Repubblica che sì, ci sono state, ma sono ancora tutte da venire.

 

                                                           Racconto di  Maurizio Maggiani

 

Ne “la Repubblica” di venerdì 11 agosto 2017, pp. 34-35