La rivoluzione sovietica in bianco e nero. Majakovskij regista.

La rivoluzione sovietica in bianco e nero

Majakovskij e il cinema come arte politica. Così il potere e l’arte scoprirono la macchina da presa.

 

Il Reggio Parma Festival 2017 propone un percorso dove si indagano le contraddizioni dei primi del Novecento. Tra gli spunti, l’avventura cinematografica di Majakovskij, il poeta delle illusioni perdute. Che nel suo unico film rimasto si ispirò a Edmondo de Amicis.

Il “Corriere della Sera” di domenica 26 novembre 2017, a pag. 40, pubblica un articolo  di Maurizio Porro che commenta la lungimiranza del grande poeta, qui anche regista, intellettuale profetico, che senza fronzoli aveva capito molto del cinema, nuovo mezzo di comunicazione.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

La notte bianca del Reggio Parma Festival 2017 si apre con la cinefila scoperta della “Signorina e il teppista”, addì 1918, unico film rimasto, firmato con Evgenij Slavinskij, tra le 13 sceneggiature sgraditissime al partito bolscevico, scritte dal tormentato Vladimir Majakovskij, il cui fuoco interiore arde in ogni fotogramma. Il poeta allargò così il concetto rivoluzionario di arte totale intervenendo in prima persona, con aitante egocentrismo, anche come attore, nell’aperta questione del cinema, visto con pochissima lungimiranza come nemico del teatro. The movies erano a larga presa dell’inconscio pubblico, strumento di comunicazione la cui forza di convincimento non è sfuggita ai potenti di ogni ordine e specie, da Stalin a Hitler a Mussolini prima che i network, i canali tv e web prendessero il sopravvento: ma il cinema poteva partecipare alla rivoluzione?

Il poeta scrittore pittore regista cartellonista Vladimir Majakovskij, morto suicida a 37 anni nel 1930 a Mosca dopo aver additato le malattie incurabili di prima e dopo la rivoluzione e cercato di curarle in scena (La cimice, Il bagno, Mistero buffo), si butta a capofitto nell’avventura muta del cinema, amando subito i patriarchi americani, da Keaton a Fairbanks a Chaplin.

Nel 1913 debutta con un film parodia del cabaret futurista (gioca in casa), poi si ferma per fare la rivoluzione e sostenerla con ogni mezzo artistico possibile, ed infine nel 1918 gira due titoli.

“Non nato per il denaro”, titolo inequivocabile, è tratto da “Martin Eden” di Jack London. L’altro, di 44 minuti che si potrà vedere a Parma, è invece “La signorina e il teppista” e s’ispira (la meraviglia degli accoppiamenti poco giudiziosi della letteratura e dell’arte!) al racconto del nostro Edmondo de Amicis, “La maestrina degli operai”, anticipando però quel genere di school movie che in America andrà per la maggiore. C’è cuore e cuore.

Anche quella che si trova davanti la nostra esile maestrina senza sorriso è una classe indisciplinata come l’aula rock di Glenn Ford del “Seme della violenza”: lei insegna ad adulti riottosi, qualche composto signore un po’ cecoviano con barbetta, poca voglia di studiare. Un minorenne al primo banco, vicino a un disturbatore che si mette vistosamente e acrobaticamente le dita nel naso per mostrare disprezzo e disinteresse.

Finché non entra in classe il teppista, che è ovviamente Vladimir, attore che col corpo era ancora teatro ma nel volto già cinema, come scrisse genialmente Goffredo Fofi. E scatta il colpo di fulmine: la maestra viene molestata, seguita mentre cerca di pregare devota, le viene fatta una dichiarazione di fronte a una enorme quercia fallica.

Finché in puro stile melò, il nostro attaccabrighe viene pestato dal gruppo, un finto duello dopo il quale morirà redento con croce in mano, rullo di tamburi e il primo ma già ultimo bacio della maestrina corsa al capezzale. E’ strano e profetico come il poeta regista senza fronzoli avesse già capito se non tutto, molto, di questo mezzo teso comunque a svecchiare tutto il resto.

Poi c’era la tara politica per cui l’invenzione di generi fatta dagli americani era vista da Majakovskij come un trionfo della capitalistica industria e allora meglio immaginare che tutto vada a fuoco e risorga (in una sua storia accade proprio così).

Possibilmente vita nuova, morale nuova, socialismo nuovo: il cinema poteva davvero mandare tutto in soffitta in una logica conclusione dell’arte moderna, ciliegina sulla torta del futurismo. Non solo, ma Vladimir aveva anche previsto il meta cinema, il pirandellismo: in un suo film disperso c’è un’attrice che esce dallo schermo per reinserirsi nella realtà degli uomini veri.

 Vi dice niente? Certo, è la “Rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen, che resta geniale, anche di più. Quel periodo così trasversale e innovatore dell’arte russa nel mondo dello spettacolo resta un capitolo meravigliosamente attuale nei vistosi dubbi che lo attraversano, oggi che siamo in divenire verso modelli espressivi diversi, nella forma e nella sostanza, epocali cambiamenti: un tweet sarebbe piaciuto da pazzi ai futuristi e Majakovskij sarebbe su Facebook.

L’epoca è stata studiata e ristudiata: il cine occhio di Dziga Vertov, il cinema verità che poi traslocò in Francia ai tempi della nouvelle vague, la satira che si rende conto che non conta, l’epopea della rivoluzione con Godard al seguito. Certo, al centro del dibattito, resta la “Corazzata Potemkin”, che nel 1925 raccontò il capitombolo sulla scalinata di quella carrozzina nella rivolta dei marinai di Odessa del 1905, ripresa da De Palma e definita da Paolo Villaggio una boiata pazzesca.

Ovviamente non è vero, il film è un capolavoro e lui lo sapeva bene. Per chi volesse controllare è uscita un’edizione in due dvd e libro della Cineteca di Bologna che contiene rarità e documenti: una bellezza pazzesca!

 

                                                                  Maurizio Porro