Le due Irlande, 100 anni dopo. E ora il rebus Brexit.

Due Irlande, 100 anni dopo. E ora il rebus Brexit.

Un secolo fa Londra accettò di concedere una parziale indipendenza alle 26 contee a maggioranza cattolica, poi divenute Repubblica d’Irlanda. Ma le altre sei contee, tutte nel Nord, si trasformarono in un focolaio che rischia di riaccendersi.

 

Da dove nasce la cosiddetta “guerra delle salsicce”, con Bruxelles che ha intimato al governo di Boris Johnson controlli sugli alimenti di origine suina diretti nella britannica Belfast, che nell’Unione Europea possono entrare solo congelati? Si tratta, in realtà, di un braccio di ferro sotto cui si celano antiche preoccupazioni degli unionisti nordirlandesi, che nelle deroghe alla Brexit avanzate sul proprio suolo intravvedono il pericolo di un allontanamento da Londra e il riemergere dello spettro della riunificazione dell’Irlanda.

Tali deroghe sono state concordate per evitare che una pericolosa barriera, simbolo di decenni di guerra civile, si ripristini con lo stabilirsi di un confine sulla terraferma tra Regno Unito e UE, aumentando la distanza tra Dublino e Belfast. Esse hanno posto l’Irlanda del Nord in una sorta di limbo amministrativo-fiscale, spostando le barriere doganali nelle acque del Canale del Nord che separano l’isola dalla Gran Bretagna.

Nel Protocollo definito nelle trattative della Brexit si è infatti convenuto di tutelare l’accordo del Venerdì santo sull’Irlanda del Nord, mantenendo aperto il confine terrestre con Dublino ed evitando di installare telecamere e posti di blocco. Già nel 2020 l’intelligence sosteneva che un confine rigido avrebbe potuto costituire un obiettivo per attacchi terroristici.

Il controllo delle merci in entrata in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna ha, di contro, creato un nuovo confine sul Canale del Nord, per ora mitigato dall’adozione di periodi sospensivi. In campagna elettorale Johnson aveva promesso che non ci sarebbero stati controlli sulle merci circolanti tra le due isole. La commissione europea sarebbe disponibile a diminuire le informazioni doganali (anche per le salsicce), posta la garanzia che i prodotti provenienti dalla Gran Bretagna non attraversino la Repubblica d’Irlanda.

Su tutta la questione si è aperto un complesso contenzioso politico e giudiziario, perché il mondo protestante continua a temere un’operazione che finisca per separare Belfast dall’amata Gran Bretagna per fonderla con la Repubblica d’Irlanda come desiderano i nazionalisti cattolici.

A questo proposito il 6 dicembre 2021 ricorre il centenario della stipula del trattato anglo-irlandese, che stabilì la nascita dello Stato libero d’Irlanda, precursore dell’attuale Repubblica, denominazione concordata tra il futuro presidente irlandese Eamon de Valera e il primo ministro britannico David Lloyd George in un incontro del 14 luglio 1921 durante una tregua stabilita tre giorni prima con i guerriglieri repubblicani nazionalisti dell’Ira, che conducevano la lotta armata contro le forze di Londra.

Non si trattò da parte britannica di riconoscere nell’Irlanda un Paese indipendente, ma di tentare una mediazione offrendo ai repubblicani lo status di dominion per le 26 contee dell’isola a maggioranza cattolica, con il limitato livello di indipendenza riconosciuto a Stati come Sudafrica, Canada, Australia. Di fronte alla resistenza di de Valera, Lloyd George indisse una riunione a Londra con i rispettivi delegati per verificare come l’associazione dell’Irlanda alla comunità di nazioni conosciute come l’Impero britannico potesse conciliarsi con le aspirazioni nazionali irlandesi. I negoziati, a cui partecipò anche Winston Churchill come ministro delle Colonie, iniziarono l’11 ottobre; la delegazione irlandese fu guidata da Arthur Griffith e Michael Collins. Non partecipò de Valera, forse per non venire associato a un esito diplomatico che avrebbe condotto al riconoscimento dell’Irlanda solo come dominion britannico, e non come repubblica.

Il cuore delle trattative riguardò l’assetto istituzionale del nuovo Stato irlandese, ovvero il rapporto con la Corona e l’Irlanda del Nord. Gli altri ambiti di confronto concernevano il commercio, la finanza e la difesa, ma apparivano argomenti strumentali rispetto ai temi politici.

 I delegati irlandesi si scontrarono soprattutto sulla proposta inglese di riconoscimento come dominion, che presupponeva il mantenimento della forma monarchica, con re Giorgio V capo dello Stato. Quanto alla partition stabilita l’anno precedente, che aveva diviso l’isola in due, ovvero l’Irlanda del Nord (comprendente le sei contee del nord-est a maggioranza Unionista protestante, collocate nella regione dell’Ulster) e l’Irlanda del Sud (che corrispondeva a tutto il restante territorio), sembrò non fare problema nelle trattative: per de Valera, se i britannici avessero riconosciuto la Repubblica, le sei contee sarebbero potute restarne fuori. Le controproposte irlandesi si concentrarono piuttosto sulla richiesta di trasferimento dei poteri da Westminster a Dublino, al fine di produrre un riconoscimento implicito della repubblica che si era autoproclamata indipendente nel 1919 a seguito dell’insurrezione di Pasqua repressa dai britannici nel 1916.

Lloyd George tentò di convincere il premier nordirlandese James Craig a sottoporre le sei contee a un parlamento dell’intera Irlanda per evitare l’erezione di una dannosa barriera doganale, ma ottenne da questi solo la richiesta dello status di dominion per l’Irlanda del Nord. Il premier britannico arrivò a minacciare le dimissioni, poi riprese i negoziati il 2 novembre, concordando con i repubblicani un documento che subordinava l’accettazione irlandese della Corona al riconoscimento da parte del regno Unito “dell’unità essenziale dell’Irlanda”.

Alla fine, il 13 novembre gli irlandesi dichiararono di non opporsi alla proposta di stabilire una commissione che avrebbe rivisto il confine tra i due Stati dell’isola se l’Irlanda del Nord avesse deciso di non unirsi con le restanti contee; a quest’ultima fu concesso un anno per decidere se entrare nel nuovo dominion irlandese o rimanere, come avvenne, parte effettiva del Regno Unito.

Il 1° dicembre i delegati di Londra proposero una nuova bozza di giuramento di fedeltà, che enfatizzava la centralità della Costituzione dello Stato libero d’Irlanda, e riduceva i riferimenti al re come capo dello Stato, rifiutando però la proposta irlandese di far figurare il nuovo Stato associato piuttosto che sottomesso alla Corona. Poiché però i repubblicani insistevano sull’integrazione dell’Irlanda del Nord in un parlamento dell’intera isola, Lloyd George incontrò segretamente Collins, suggerendogli di utilizzare la commissione sulla frontiera. Venne così riformulata la clausola del Trattato sui confini rispetto alle condizioni sociali e alla volontà degli abitanti.

Di fronte alle perduranti riluttanze di Griffith, Lloyd George promise allo Stato libero di imporre dazi propri, e infine mise i repubblicani con le spalle al muro dichiarando che un cacciatorpediniere della marina era in attesa di salpare per Belfast la sera del 5 dicembre e, se non avessero accettato l’appartenenza all’impero britannico, ciò avrebbe condotto a una terribile guerra. Griffith e poi Collins accettarono l’accordo, ottenendo che il periodo di scelta se aderire allo Stato libero per i nordirlandesi fosse ridotto da un anno a un mese.

Il Trattato anglo-irlandese fu firmato alle 2,15 del mattino del 6 dicembre 1921, con la prima stretta di mano tra britannici e irlandesi. Ma una parte del movimento repubblicano irlandese non lo accettò e nel nuovo Stato libero scoppiò una guerra civile, terminata nel 1923 con la vittoria dei fautori del Trattato. Intanto nell’Irlanda del Nord s’instaurava un regime di discriminazione verso i cattolici, causa del conflitto sanguinoso al quale solo nel 1998 l’accordo del Venerdì Santo ha posto fine. Una ferita che ora le conseguenze della Brexit potrebbero riaprire.

Paolo Gheda

Questo articolo de “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera del 5 dicembre 2021, è stato pubblicato a pagina 15.