Le istruzioni di Carlo V al figlio Filippo II.

“Figlio mio, ecco come si fa il Re…”

Istruzioni di Carlo V al figlio sedicenne Filippo II, maggio 1543

 

Il più grande dei sovrani è quello che lascia come successore un sovrano più grande di lui. E’ con questa argomentazione, condotta –ma nemmeno troppo- sul filo del paradosso che Erasmo da Rotterdam apriva nel 1516 l’Institutio principis cristiani, luminoso trattato di teoria, o meglio di etica, politica dedicato al giovane Carlo d’Asburgo. All’epoca il futuro imperatore aveva sedici anni e, già duca di Borgogna, era appena stato proclamato re di Spagna. Tra le non poche fortune, gli era toccata pure quella di ritrovarsi come maestro l’autore di “Elogio della follia”.

A caccia di una sintesi tra umanesimo laico e teologia, Erasmo auspicava l’avvento –passabilmente chimerico- d’una nuova figura di re che fosse al contempo filosofo in senso classico-pagano e imitazione di Cristo sulla terra. Insomma –in plastica antitesi al pragmatismo del principe machiavelliano- una specie di santo; vir bonus, campione di pietas, olimpico difensore della fede nella pace. Cosa che Carlo V non fu. Certo, sarebbe diventato il maggiore statista del suo tempo, ma in tragica colluttazione tra opposti: umiltà devozionale e megalomania imperiale, curiosità per il nuovo e nostalgie medievaleggianti, spirito conciliativo e pulsione di vendetta. Fu così, nella nudità delle proprie contraddizioni di sovrano e di padre, che l’imperatore si presentò all’erede Filippo allorché giunse il momento di istruirlo su come si regna, di iniziarlo alla ruvida arte del governo. Per iscritto, soprattutto in due lettere-fiume redatte il 4 e il 6 maggio 1543 a Palamòs, porto catalano dal quale era in procinto di imbarcarsi per un ennesimo scontro con l’eterno antagonista Francesco I di Francia. Nel tempo, le leggendarie Instrucciones de Palamòs sarebbero state definite ammonimenti memorabili; lezioni di assolutismo monarchico nella sua purezza; monumento di preveggenza, compiuta esperienza di governo, profonda conoscenza degli uomini e del mondo. Tutto stravero. Unico problema: in pochissimi erano riusciti a leggerne gli originali. Se ne conosceva il contenuto, ma attraverso trascrizioni lacunose o imprecise. Dei manoscritti si erano perse le tracce. Risultato: quei fogli divennero per gli appassionati una sorta di Graal, di arca perduta, di favoleggiata creatura marina.

Un cronista di Filippo II li menzionò nel 1605, poi si inabissarono per due secoli e mezzo abbondanti. Nel 1862 un ricercatore tedesco li localizza a Madrid, negli archivi del Ministero degli Esteri, e li ricopia frettolosamente. Ma le carte spariscono di nuovo. Sicuramente trafugate, riemergono a Parigi nel 1899. Un altro ispanista fa in tempo a riprodurle parzialmente prima che finiscano all’asta. A carissimo prezzo. Persino la Bibliothèque nationale de France se ne ritrae spaventata. Se le aggiudica un tedesco. Nel 1905 eccole riaggallare a Berlino. Le compra un antiquario londinese, per rivenderle ad Archer Milton Huntington, grande collezionista statunitense e fondatore della Hispanic Society of America. Seppure un filo scettico sull’autenticità dei documenti, Mr. Huntington li conservò blindati in casa e dopo la sua morte, nel 1955, vennero archiviati senza clamori tra altri 250mila manoscritti. Fino al marzo 2010 quando, con immaginabile emozione, furono stanati dagli storici Rachael Ball e Geoffrey Parker, che ora ne curano una sontuosa edizione critica.

Le Istruzioni sono 50 pagine rilegate in cuoio rosso. Indecifrabile per i profani, la grafia è zeppa di cancellature, aggiunte, correzioni (formatosi in Borgogna, il mittente maneggiava il castigliano così così). Anche per questo si ritenne a lungo che gli olografi fossero bozze di una stesura definitiva andata perduta. Si sospettava pure che le lettere fossero state pilotate, per non dire interpolate, dall’alto consigliere Francisco de los Cobos: “Ma, sebbene pesantemente corretti, i testi ora pubblicati provano al di là di ogni dubbio che fu Carlo a comporli e a rivederli di suo pugno” ci dice Parker dall’Ohio, dove insegna. Laconico nel parlare, ma prodigo con la parola scritta, El Emperador lasciò parecchi documenti autografi, però le missive di Palamòs sono di gran lunga i più estesi e impressionanti: “Perché svelano senza fronzoli i suoi pensieri”.

“Figlio mio, poiché la mia partenza da questi regni si va avvicinando…”. Indirizzata a un delfino che non ha ancora compiuto sedici anni, la lettera del 4 maggio dispensa indicazioni su due tipi di governo: quello della religione e quello di sé (gobierno de vuestra persona). Nel tornado della Riforma, Carlo esige che si faccia catenaccio: “Non perdete mai di vista Dio… Sostenete e incoraggiate la sua fede… Non permettete mai che le eresie entrino nei vostri regni… Favorite la Santa Inquisizione”. Ma con moderazione, temperanza: “Non fate mai nulla nella furia”. Che l’acerbo Felipe si guardi poi dagli adulatori: “huid de ellos como del fuego, evitateli come la peste”. Un grande re deve essere arcano, impenetrabile nel suo ritegno. “Non firmate nulla… Non affidate incarichi speciali né a voce né per iscritto… Non promettete niente, non suscitate aspettative, perché generalmente, in simili faccende, non porta a nulla di buono “anticipar el tiempo”. A corte state tra la gente e conversate… Concedete le udienze necessarie… Siate paziente nell’ascolto, ma blando nelle risposte”. Alla guida di un impero oversize e pertanto ingovernabile, Carlo avrebbe abdicato dividendo i propri domini: lasciò al fratello Ferdinando la corona di Kaiser e le terre austriache; al figlio Filippo sarebbero andati invece Spagna, Fiandre, Paesi Bassi, Milano, Napoli, Sicilia, Sardegna, più le colonie americane. In soldoni: quasi un ottavo del mondo conosciuto. Un puzzle difficilmente gestibile. “Vedete su quante terre dovrete comandare, così distanti tra loro e diverse per lingua” –scriveva l’imperatore al figlio. “E’ importante farsi intendere e capire, per questo non c’è cosa più indispensabile del latino… Ma non sarebbe male neanche qualche nozione di francese”. Avviandosi verso le massime responsabilità, è altresì necessario che l’erede cambi frequentazioni, passando dalle allegre brigate giovanili a un più severo entourage di stagionati consiglieri. Divertimenti? Sì, ma col contagocce.

E poi c’è il sesso. Del cristianissimo Carlo, quel genio di perfidia che fu il cronista Brantome scriveva: “Adorava l’amore. Quando si portava a letto una bella donna, non la lasciava andare prima di averla onorata tre volte”. Maldicenze? Sta di fatto che i figli illegittimi dell’imperatore non si contano. Ciononostante, le istruzioni impartite al successore in materia di copula sono un lucchetto. Al di là della morale, l’amplesso –mai nominato- viene agitato come baubau. Perché è solito essere nocivo tanto allo sviluppo del corpo che alle forze fisiche… E spesso mette addosso una spossatezza che rende sterili e talvolta uccide. L’alcova di Filippo è commissariata: Fate molta attenzione con vostra moglie. Riuscendo la cosa un po’ difficile, il rimedio è tenervi il più possibile lontano da lei. Vi prego e supplico che, appena consumato il matrimonio, vi allontaniate con un pretesto qualsiasi dalla vostra sposa e non torniate a vederla né troppo presto né troppo spesso; e quando accadrà, che sia “por poco tiempo”.

Già così ci sarebbe sostanza sufficiente per una quintalata di saggi. Ma il vero exploit è la seconda lettera: “Con la sua descrizione intima e asciutta dei ministri a corte, è a mio parere unica” dice Parker. “Per quanto padri e monarchi scrivessero regolarmente consigli ai loro eredi, non ho mai visto nulla di simile”. Dopo essersi raccomandato affinché la missiva venga tenuta nella massima segretezza, Carlo parla del pericoloso viaggio che lo attende, delle malmesse casse statali e delle spremiture fiscali necessarie al finanziamento bellico; svela piani militari e difficoltà per attuarli. Poi, analizzando le correnti in lotta all’interno del governo e le strategie per neutralizzarle, passa a scannerizzare uno per uno i dignitari coi quali Filippo avrà a che fare, cercando di non cadere in balìa di alcuna fazione. Il cardinale di Toledo? Un tipo a posto. Fidatevi di lui, ma non abbandonatevi soltanto nelle sue mani, trattate i pubblici affari con molti e non legatevi a nessuno in particolare perché, sebbene sia più comodo, alla lunga non conviene. Direbbero che siete manovrato e l’eventuale favorito potrebbe insuperbirsi, creando intoppi e attirandovi le lamentele di tutti gli altri. Il duca di Alba? Affidatevi a lui nelle cose militari, è il migliore sulla piazza. Ma occhio: sotto apparente umiltà nasconde ambizione. E potrebbe allettarvi con le donne. Il segretario Francisco de los Cobos: leale, grande esperienza, però perde colpi, sua moglie lo sfianca. Il pessimo stato delle Finanze non è colpa sua, ma nemmeno mia. Anche lui potrebbe adescarvi con donne. Non accordategli troppa autorità. Quando muore, riprendetevi le regalie che gli ho elargito. Don Juan de Zuniga: ruvido, ma –all’opposto di tanti che vi blandiscono- vi vuole bene. Ritiene di non aver ricevuto abbastanza ricompense. Per via dell’estrazione sociale, è geloso di Cobos e del duca di Alba. Un’unghia avido. Il cardinale di Siviglia: invidioso. Quando sarà il momento, siluratelo. Ma senza dargli l’impressione che sia stato declassato (sin desfavorecerle). Il presidente di Castiglia: non è all’altezza, però non ne ho trovato uno migliore. Cobos se l’è assicurato sfruttando le sue debolezze. Succube. Il conte di Osorno: abile ma poco trasparente. Così laconico che i suoi pensieri risultano sfuggenti. Il consigliere Granvella: spendaccione, incline a scatti d’ira, però fidato. Ha i suoi interessucci (sus pasioncillas) e una gran voglia di lasciare i figli ricchi.

Pur dall’alto della sua potenza e capacità di radiografare psicologie, Carlo non si rivolge all’erede come un padre onnisciente. E a conclusione della lettera gli manifesta smarrimento davanti al futuro: estoy tan irresoluto y confuso. Un acuto senso della caducità lo aveva caratterizzato sin da giovane. Nel 1522 scrisse il primo testamento. Pochi anni dopo confessava: Vedo e sento che il tempo passa e noi presto passeremo con lui. Tra gli ultimi sovrani europei a lanciarsi sui campi di battaglia, stravedeva per le armature cavalleresche in un’epoca in cui l’artiglieria le rendeva già anacronistiche. Al delfino insegnò che onore e reputazione vanno sempre anteposti al denaro; però, a cominciare dall’elezione imperiale, lui non sarebbe diventato Carlo V senza l’appoggio dei banchieri, Fugger in testa.

Culturalmente, sedette cavalcioni tra due evi: l’ordo medievale che andava sfarinandosi e il Rinascimento foriero di novità senza ritorno. Era bassetto, dalla bazza pronunciata e sghemba che gli varrà il ghigno dell’Aretino (sua mascellata Maestà) e che trasmetterà al figlio. Li univa anche un certo humor melancholicus. Ma la malinconia di Carlo è quella di un uomo d’azione che ha scoperto l’inanità di molte azioni, mentre quella di Filippo è il tarlo di un intellettuale a disagio nei paramenti di un re. Tra i meriti di Parker c’è l’aver fugato (tra l’altro in una grandiosa biografia) il cliché di un Felipe II tetro monarca complessato e bigotto. Di sicuro, subì il carisma paterno come un macigno, ma fino a che punto obbedì alle consegne del genitore? “Per quanto io ne sappia, l’unico consiglio che ignorò fu quello di non sollazzarsi coi buffoni di corte”. Per il resto, sia in patria che fuori, ne prolungò “la politica fondata sulla religione. Con esiti catastrofici”. Un messianismo che, tra i calcinacci d’ogni sogno di Monarchia universalis e Concordia christianorum, lasciava dietro di sé un’Europa frantumata nella fede, incenerita dai conflitti, balcanizzata dagli embrionali nazionalismi. Insomma, il solito vecchio saloon.

 

                                                                                  Marco Cicala

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì” di Repubblica il 24 ottobre 2014, pp. 118-121.