“Le leggi del desiderio. Il piacere del consumo come consolazione”. Articolo del filosofo G. Lipovetsky

Le leggi del desiderio. Il piacere del consumo come consolazione. Acquistare prodotti o marchi ha valore simbolico. Articolo di Gilles Lipovetsky, filosofo e sociologo. Insegna all’Università di Grenoble.

 

Questo articolo è uscito su “La Repubblica” di venerdì 16 novembre 2012, a p. 47. Sembra scritto in controtendenza rispetto alla grave crisi economica che ha colpito in questi ultimi anni l’Occidente industrializzato, l’Europa soprattutto. Viviamo tempi grami in un’epoca di complicata transizione verso modelli di vita e di consumo che saranno inediti per l’Occidente. Eppure –è cronaca quotidiana e di questo si interessa questo articolo- il sogno di molti è esistere ed esibirsi a rischio zero. La realtà sembra consegnata quasi esclusivamente nella sua immagine trasmessa dai “media” e riprodotta sulla Rete, in una sorta di teca infinita da consultare e commentare, senza viverla veramente. Questa generazione giovanile di senza lavoro o subordinata a lavori precari non ha più nulla da desiderare in fatto di merci: hanno troppo e quel troppo è sbagliato. Hanno molto, tanto di più di qualunque altra generazione. I genitori sono troppo deboli nelle case e spunta il fenomeno dei figli-padroni, figli tanto prepotenti tra le mura domestiche quanto fragili nel mondo esterno, ipertecnologici ma spaventati e stressati.

E’ anche vero, però, che a volte la precarietà può diventare l’alibi per fare flanella. Qualcuno ha scritto: “L’era di Prometeo è finita, siamo nel tempo di Dioniso”. Si constata il passaggio dai grandi valori che hanno segnato la modernità, progresso-lavoro-ragione, a valori diversi: il presente, la creazione, l’immaginazione. Un immaginario nutrito di idoli, euforico e tragico. Stiamo attenti, però: nessun miracolo è gratis, lo è solo quello del paese dei balocchi. Lì i Lucignoli sono facile preda degli Omini di burro, come insegna Collodi.

La denuncia è stata fatta tante volte: la politica ha difeso posizioni e privilegi acquisiti, non ha sviluppato le novità che avrebbero dovuto assecondare la transizione dei giovani all’età adulta. Siamo stati esposti a dosi massicce di talk-show dove certi politici di turno raramente si sono occupati dei veri problemi ma hanno tenuto sempre d’occhio i sondaggi elettorali. Ripeto cose già denunciate altre volte: nella maggior parte dei palinsesti televisivi il mezzo e il messaggio sono stati amalgamati nel cazzeggio, produzione di luci a mezzo di luci, effetti fosforescenti proiettati sul nulla. Lo slogan, la frase ad effetto, il dettaglio ipnotico, le urla in simultanea hanno seppellito il ragionamento che la tv aborre nella fretta dei suoi tempi, nella velocità degli enunciati, nella rapida successione delle immagini perché il suo scopo è colpire lo spettatore, impressionarlo, se possibile scioccarlo, in pratica ottundergli l’uso della ragione.

 

Nella mia vita la politica mi ha appassionato come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, come aspirazione a un’uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Per questo credo anche che le tecnologie nuove e democratiche non devono essere usate per ottenere comunicazione autoritaria. A volte sembra che non ci sfiori l’idea che l’informarsi sia un percorso che comincia da un giornale e va oltre, che comporta l’ambivalenza delle posizioni, la dialettica dei torti e delle ragioni. La democrazia è fatta di opinioni diverse, opposte, contrastanti e del diritto di ognuna di queste di esprimersi in pubblico raccogliendo consensi e dissensi. Può essere infatti molto breve la strada che dal gusto un po’ infantile del dileggio conduce al più robusto piacere della violenza, con lo stesso obiettivo: quello di costringere l’avversario politico, trasformato in nemico, prima all’umiliazione e poi al silenzio. Ma mi costringo, tra disperazione e utopia, ad essere ottimista. Già nell’aprile del 2008 Giuseppe D’Avanzo aveva richiamato un tema che oggi, dopo i risultati delle elezioni del 24-25 febbraio 2013, è tornato prepotentemente d’attualità: “ I movimenti sociali sono energia che chiede di essere organizzata. Esprimono una vitalità che spezza l’oppressiva costrizione dell’abitudine. Che frantuma le ordinarie rappresentazioni collettive per aprirne di nuove –impreviste e inattese fino a quel momento. Rappresentano per la vita sociale, per la comunità, le istituzioni e le élites politiche che le governano una sorprendente occasione”.

                                                                      

Gennaro  Cucciniello

 

“Nell’Europa in preda a una crisi economica e finanziaria di lunga durata, alcuni osservatori sostengono che l’iperconsumo, e l’ascesa incessante dei desideri superflui che ad esso si accompagna, sono inevitabilmente destinati a scomparire. Calo del potere d’acquisto, rischi per l’ambiente, desiderio di qualità di vita e slow life, overdose di marketing: è un consumatore “saggio”, ragionevole, frugale, quello che si annuncia, un “resistente” anti-consumo. E’ legittimo interrogarsi sulle chances di successo di un simile scenario.

Se è possibile o probabile immaginare la fine di un’economia fondata sulle energie non rinnovabili e inquinanti, lo stesso non si può dire per la febbre consumistica. In realtà, le inevitabili trasformazioni che si annunciano (risparmio d’energia, energie pulite, riduzione delle emissioni di anidride carbonica, riciclaggio, eco-consumo) non significano in alcun modo un superamento della civiltà iperconsumista identificata con la mercificazione quasi assoluta dei modi di vivere. Sicuramente si stanno evolvendo modalità di consumo che iniziano a tener conto delle esigenze dell’ambiente ma tutto questo non farà emergere una cultura della “semplicità volontaria”. Le persone smetteranno di desiderare le novità commerciali, di andare a caccia di musiche inedite, di viaggiare ai quattro angoli del mondo, di andare al concerto e al ristorante, di visitare i parchi di divertimenti, di divorare gli ultimi film e videogiochi? E’ evidente che non succederà. Lo scenario che si annuncia è che avremo un maggior numero di prodotti che consumano poca energia, ma un consumo sempre più forte di servizi, cure e prodotti culturali. Nulla arresterà la smodata inclinazione dei consumatori per le novità, e questo perché si tratta di una tendenza che affonda le radici in fenomeni strutturali come la detradizionalizzazione delle culture, il culto dei godimenti materiali, l’avvento di economie fondate sull’innovazione perpetua. Questi processi ci condannano a vivere in società caratterizzate dall’amore per il cambiamento in sé e per sé. Non si tratta di una moda effimera, né di un puro effetto di manipolazione pubblicitaria ma di una logica connaturata alle società nomadi e globali che hanno eliminato la tradizione, intesa come eredità di una storia.

Che cosa vediamo allora? La passione per i viaggi, per le serie televisive, per i gadget tecnologici di moda, per musiche e cucine nuove, per l’arredamento della casa, sono tutti in piena espansione. E mentre cresce l’isolamento delle persone e il malessere soggettivo, i consumi funzionano come un mezzo di consolazione, come una forma di terapia, un modo per dimenticare quello che ci frustra, ci ferisce, ci angoscia. Nelle società iperindividualiste, centrate sulla ricerca della felicità privata, è diventato insopportabile non “farsi piacere” attraverso esperienze rinnovate. Tutto contribuisce ad amplificare la smania di acquistare.

D’altra parte sappiamo tutti che le grandi utopie e la controcultura sono evaporate. E quel modello di sopravvalutazione del futuro ha ceduto il passo a un superinvestimento sul presente. La cultura che caratterizza la nostra epoca iper-moderna non è più un insieme di norme che ci vengono dal passato (cultura in senso antropologico), né il “piccolo mondo” delle arti e delle lettere (la cosiddetta cultura alta), ma un settore in piena espansione, tanto che può essere definito come una sorta di “capitalismo culturale”. Lo definiamo così perché diventa non una semplice produzione di oggetti o di modelli razionali e materiali ma un vero e proprio mondo di simboli, di significanti e di un immaginario sociale planetario. In questo senso anche il desiderio che proviamo per i marchi non mostra segnali di declino. Ne è prova la Applemania, lo sviluppo spettacolare del mercato mondiale del lusso, il successo dei grandi brand automobilistici tedeschi, i fan club, l’ossessione degli adolescenti per i loghi. Il gusto dei marchi si generalizza abbracciando ogni cosa, perché rassicurano l’iperconsumatore scombussolato, perso in questa super-offerta commerciale ed estetica. In una società alleggerita delle grandi utopie collettive, i marchi assolvono a una funzione ineliminabile: sono sogni, offrono punti di riferimento, sicurezza; e sono anche strumenti di autovalorizzazione per consumatori ormai slegati dalle antiche forme di appartenenza collettiva.

In queste condizioni il tropismo consumista ha ancora un grande avvenire davanti a sé. Certo è innegabile che in Europa le spese “incomprimibili” delle famiglie sono fortemente aumentate: fra il 2001 e il 2006 in Francia sono passate dal 50 al 70% per le famiglie a più basso reddito. L’incremento di queste spese obbligatorie ha spinto molte famiglie a comprare prodotti meno cari, fare baratti, cercare prodotti gratuiti o in promozione, aspettare i saldi, consumare meno. Detto questo, il calo del potere d’acquisto non significa una regressione dei desideri consumistici. Nelle nostre società edonistiche e ipercommerciali, anche i più poveri sono grandi consumatori “nella testa e nei desideri”, e questo nonostante debbano fare sempre più economie e modificare i loro comportamenti d’acquisto. Probabilmente da un lato le difficili condizioni economiche imporranno una certa moderazione, condannando diverse categorie di popolazione a imporsi delle privazioni, ma dall’altro la cultura dei piaceri e delle novità –connaturata alla civiltà consumistica- è più viva e vegeta che mai.”

                                                                       Gilles  Lipovetsky