Lettura dell’Umanesimo italiano del XV° secolo

Lettura dell’Umanesimo italiano del 1400

 

Nel quotidiano “la Repubblica” di venerdì 1 marzo 2019, a pag. 31, la giornalista Claudia Morgoglione intervista il filosofo Massimo Cacciari, autore del saggio “La mente inquieta” (Einaudi). “La cultura è anche passione, affetti, follia. Le passioni sono inespresse perché abbiamo perso la lingua. Non è la tolleranza a renderci uomini, è l’amicizia”.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Altro che età dell’oro: per Massimo Cacciari l’Umanesimo, il Quattrocento dei grandi personaggi, che lasciarono il segno nelle arti e nelle lettere, in realtà fu un campo di battaglia. Un’altalena di sfide e tormenti intellettuali, di emozioni esasperate, di scontri tra concezioni del mondo diversissime: così sostiene nel suo saggio il cui titolo è già un programma, “La mente inquieta”, che esce per Einaudi. Affresco filosofico di un momento travagliato della storia, che per molti versi ricorda i nostri anni dominati dall’incertezza. Con una differenza, però, che è anche una lezione su come uscire dalla spirale di rabbia attuale: “Allora –spiega- anche nella lotta tra idee differenti, prevaleva il riconoscimento reciproco. Si studiava il passato per elaborare il futuro. E si capiva che per pensare bene si deve parlare bene”. Tre punti chiave per una rivoluzione culturale che, a suo giudizio, oggi è più necessaria che mai, per eliminare tutti gli “ismi” –sovranismi, populismi- che ci avvelenano.

La sua è una lettura del’Umanesimo dai tanti chiaroscuri, professor Cacciari: perché?

Il mio scopo non è sottolinearne la grande portata filosofica, ormai assodata grazie allo studio di autori come Giovanni Gentile ed Eugenio Garin. Ma sgombrare il campo dall’idea che l’Umanesimo coincida con il concetto di Humanismus, cioè con una posizione filosofica che vuole definire in astratto l’essenza dell’uomo. Io credo invece che l’Umanesimo sia stato un momento di crisi nell’accezione letterale del termine, pieno di passione, anche di disperazione. Di grandi figure –Leon Battista Alberti, Pico della Mirandola, Lorenzo Valla- che guardavano nello stesso tempo indietro e avanti.

Lei infatti lo definisce un periodo “oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma”.

E’ stata un’epoca storica di contrasti: pensiamo alle idee di cambiamento della Chiesa e anche alla nascita della riflessione sullo Stato, passaggio fatale che si completa più tardi con Machiavelli. Un’età in cui la filologia, la riflessione sul passato, finisce per alimentare la profezia, il futuro.

In un intreccio unico tra arte e filosofia…

Quando ci si trova di fronte, stupefatti, alla facciata di Santa Maria Novella di Leon Battista Alberti, davanti a tanta bellezza, a tanta armonia, ci si chiede come è possibile che lui sia stato anche l’autore di libri come Momus e Theogenius, in cui la riflessione tormentosa ricorda il Leopardi delle Operette Morali. Stesso discorso per un capolavoro pittorico che anticipa l’Umanesimo: la Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339) a Siena, opera tutt’altro che risolta, piena di umori contrastanti come ogni immagine piena di vita. Con una serie di elementi inquietanti, come la Sicurezza che regge un uomo impiccato. Anche questa non è semplice arte: è filosofia.

Nel suo libro una parola bellissima, “amicizia” –tra discipline diverse, tra visioni del mondo differenti- descrive lo spirito dell’epoca.

Amicizia come concordia tra opposti. Qualcosa di molto diverso dalla tolleranza, in cui chi “tollera” si colloca in una posizione di superiorità. Qui invece abbiamo la lotta, la polemica anche asperrima, ma nel riconoscimento reciproco, nella scoperta delle affinità. Questo secondo me è il vero centro storico-filosofico dell’Umanesimo: un periodo che è contrario agli “ismi”, a qualsiasi “ismo” o ideologia unica.

Riassumendo: periodo di crisi, disperazione, incertezza. Sembra il ritratto dei nostri anni. Ma, al contrario di allora, oggi non coltiviamo la memoria, non costruiamo ponti tra passato e futuro, non cerchiamo soluzioni innovative.

In effetti lo sguardo e il paragone con il presente è uno dei motivi che mi ha spinto a tornare a riflettere sull’Umanesimo. Senza voler cadere in anacronismi, invito tutti a riflettere su ciò che siamo: siamo tante cose, tanti nomi, tante maschere. Sono reduce da una rappresentazione teatrale (di Gabriele Lavia) dei “Giganti della montagna” di Pirandello, che ci dice proprio questo. Perciò, amici, riflettiamoci su: non sogniamo di poterci ridurre a uno, perché questa strada, che è la strada attuale, ci porta dritti all’omologazione. Non è questa la razionalità dell’Occidente: ecco il messaggio che ci arriva dal vero Umanesimo.

Come rimediare?

Oggi le passioni restano libere, inespresse, e fanno danni. Invece alla disperazione bisogna dare una voce, una forma. E quindi la prima cosa da fare è coltivare la lingua, perché la lingua è il nostro unico strumento di elaborazione del pensiero. Bisogna tornare a parlare bene. E conoscere il latino: non perché era la lingua di Cicerone, ma perché un’idea potente esiste solo all’interno di una lingua potente. Il legame tra linguaggio e idee è indissolubile: un’altra grande lezione dell’Umanesimo.

Quindi la svolta per uscire dal vicolo cieco dell’omologazione e della rabbia è sempre culturale?

La prima cosa è smettere di fare strame della lingua (e quindi delle idee) come accade adesso. E poi dobbiamo recuperare la consapevolezza culturale che siamo fatti di passioni, di affetti, fino alla follia. Lo sapevano gli uomini dell’Umanesimo, ma anche quelli del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo. E infine dobbiamo riallacciare, attraverso la memoria, il passato al futuro. Altrimenti non guariremo.

Una delle medicine che potrebbe aiutarci è la filosofia politica: come nel ‘400 si guardava ai classici, noi dovremmo tornare a Machiavelli?

Certo. Ed è molto importante che siano usciti proprio ora due saggi cruciali su di lui: uno di Michele Ciliberto, l’altro di Alberto Asor Rosa. Sento entrambi questi contributi profondamente affini alla mia riflessione sull’Umanesimo. Ad esempio nell’idea di un disincanto che per Machiavelli non è affatto ozio, ma che al contrario ci spinge ad agire di più. Lo stesso disincanto che in Max Weber, secoli dopo, arriverà fino alle crisi di disperazione. Crisi che lo stesso Weber tenterà di “costituzionalizzare” (vedi la Costituzione di Weimar): un tema che sarà l’argomento di un mio prossimo libro.

Oltre alla filosofia, c’è la storia. Che però, come abbiamo denunciato sul nostro giornale, viene ridimensionata sia a scuola che all’università.

La scuola dovrebbe essere il luogo della memoria: se la si perde, anche il futuro viene schiacciato dalla realtà onnipervasiva del presente, da una banale attualità, quella che adesso sembra prevalere nella didattica di tutte le materie.

In questo eterno presente rischiamo di perdere anche la nostra umanità: come vive in un’Italia che lascia annegare i nostri simili nel Mediterraneo?

Mai come ora ci vorrebbe un nuovo Foscolo che scriva dei nuovi Sepolcri. Per non farci dimenticare che noi i morti li seppelliamo, non li lasciamo in fondo al mare. E che li seppelliamo per ricordarli, non per dire “finalmente ce ne siamo liberati”.

 

         Massimo Cacciari                         Claudia Morgoglione