L’Italia vista dall’estero. E’ questione di gusto.

L’Italia vista da fuori. E’ questione di gusto.

Noi italiani veniamo definiti “classy”: il nostro mito si basa sullo stile, l’eleganza e la capacità di vivere in una cultura classica. Siamo una Repubblica fondata sulla bellezza.

Nel Supplemento “Robinson” del quotidiano “La Repubblica” di domenica 12 novembre 2017, a p. 16, è stato pubblicato questo articolo di Stefano Jossa, storico della letteratura e critico letterario, che ha insegnato presso la Royal Holloway (University of London) e che oggi ricopre la cattedra Francesco De Sanctis presso l’ETH di Zurigo (Svizzera). Tra i suoi libri, “Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano”, Laterza, 2013. Il contributo di analisi accompagna il dibattito sulla pubblicazione del volume, curato da Andrea Giardina, “Storia mondiale dell’Italia”, per i tipi di Laterza.

Gennaro Cucciniello

Applico”, mi dice il barista italiano della British Library, con una faccia fiduciosa nel futuro. Ha studiato in Bocconi e sogna che Londra gli cambi la vita. Chissà se vuole dire “mi applico” oppure “applico le mie conoscenze”, ipotizzo professoralmente; ma capisco subito che sta solo facendo domande di lavoro. He applies for a job. E’ ancora giovane, per fortuna, ma l’anglicismo tradisce la convinzione che il mercato del lavoro sia in inglese e basta. La presenza di una cultura nel mondo si misura anche dalla sua forza linguistica nei diversi campi del sapere: c’era un tempo in cui l’italiano era la lingua del calcio, quando la Juventus di Platini e il Milan di Van Basten dominavano in Europa. Ma l’italiano non è più la lingua del calcio.

Né è la lingua della ricerca di un posto di lavoro. Resta solo, pare, la lingua della cucina, anche se tiramisù a un orecchio educato all’italiano suona quasi giapponese e spritz certamente austriaco. Il made in Italy s’identifica ormai quasi solo col cibo, tanto che molti Istituti Italiani di Cultura all’estero organizzano degustazioni di prodotti tipici. Eataly è un marchio di qualità riconosciuto in tutto il mondo e la catena di pizzerie Franco Manca fa impazzire i londinesi. Mangiare italiano, però, non è solo una questione di qualità.

E’ anche, e soprattutto una questione di stile, al punto che in inglese c’è un’espressione, al fresco, che designa i tavoli all’aperto, per i quali noi preferiremmo in realtà usare il francese, déhors – mentre al fresco indica piuttosto lo stare in prigione. L’italiano serve, comunque, in questo caso, per definire uno stile classy, fatto di gusto, eleganza, civile conversazione e buone maniere. Non è un grave errore, allora, quell’ al fresco italianizzante che confonde il buio di una cella con le luci soffuse di una cena all’aperto. Non è grave perché, in fondo, civil conversazione e buone maniere sono invenzioni italiane, che risalgono a due libri di quel periodo della storia che proprio gli inglesi hanno mitizzato, il Rinascimento, che grazie a loro è diventato il regno del bello anziché quell’età di conflitti che realmente fu: Il Galateo di Giovanni Della Casa (1558) e La civil conversazione di Stefano Guazzo (1574). Sono due libri sullo stare insieme che forniscono le regole del rispetto reciproco e della reciproca interazione, fino ad ammonire che “non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire il moccichino e guatarvi entro” e che “la solitudine rende l’uomo sciocco e inetto”. Per non parlare del grande splendido precedente de “Il Cortegiano” di Baldassarre Castiglione (1528). Da lì, come ha spiegato Norbert Elias, discende il processo di civilizzazione occidentale, al punto che quella che oggi gli inglesi chiamano civilised conversation è un lascito dell’aristocrazia rinascimentale italiana. Si può mangiare bene, del resto, senza fare conversazione? L’Italia questo davvero rappresenta come brand: un fatto formale, la capacità di costruire bellezza attraverso la veste. Estetica, cioè prima di tutto arte e letteratura: da un ciclo di affreschi in una cappella padovana fino a un poema rimato in terzine oppure fatto di 4842 ottave. Lo hanno sempre saputo i creatori di moda e design, da stilisti immersi nell’arte contemporanea come Versace ad artisti come Alessandro Mendini, che trasforma la letteratura in architettura e immagine. E Occidentali’s Karma di Gabbani non è forse una versione musicale pop di un quadro di Arcimboldo?

Eleganza, stile e gusto come ingredienti del mito italiano, dunque. Mito fondante della civiltà europea, radicato nella svolta culturale che si produsse tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, quando, riscoprendo le origini, cioè i grandi modelli della classicità, gli italiani si rivelavano anche originali, perché si distinguevano da una storia fatta di barbarie nel nome di un ritorno alla purezza primigenia dell’umanità.

Solo così erano potuti nascere i capolavori di Dante, Petrarca e Boccaccio da cui facciamo discendere l’idea di italianità: si erano proposti, Dante Petrarca e Boccaccio, di essere belli, oltre che intelligenti, per costruire qualcosa che potesse durare nel tempo grazie all’esemplarità formale. Altro che fast food: l’obiettivo era la lunga durata. Trasformare la contingenza della storia nell’immutabile della perfezione: così l’Italia diventava da terra mito, da definizione geopolitica primato biopolitico. Si trattava cioè di mettere in relazione un’esperienza storica con un valore simbolico, come si fa ancora oggi con la costruzione pubblicitaria dei marchi, fino al completo di Dolce & Gabbana ispirato alla Nascita di Venere di Botticelli e all’ultima sfilata di Ferragamo nella scenografia della Primavera dello stesso Botticelli.

Questa forza delle origini è qualcosa che gli inglesi continuano a chiedere all’Italia: non tanto il mito romantico della natura incontaminata dalla storia, ma proprio la capacità di trasformare la natura in arte, di rivestirla con una forma e renderla immortale. E’ la storia del classicismo, questa, che è in fondo la storia della presenza italiana nella cultura mondiale: l’Italia è classy, perché è classica, perché è terra dei classici, perché è depositaria di una cultura di classe.

Di qui due altre conseguenze fondamentali: il modello comunitario della cultura italiana, quello stare insieme in maniera altamente formalizzata che gli stranieri sempre ammirano, e il modello etico di questa civiltà della conversazione, perché non c’è etica senza etichetta. Tutto ciò cui la modernità si è ribellata, per valorizzare consumi e narcisismi; ma portando l’antitesi dentro la modernità, perché ogni identità si rafforza attraverso il suo contrario, la cultura italiana può essere una grande forza produttiva (essendo l’Italia, lo diceva Manganelli, “uno dei modi dell’altrove”). Mangiare italiano è un fatto di gusto, ma è anche la permanenza di un modo di stare insieme che con l’Italia, la sua tradizione e la sua estetica viene sempre identificato, in tutto il mondo.

A chi, per chissà quale caso, fosse capitato di mangiare qualche anno fa a Villa Rosa, il ristorante italiano di Egham, un’anonima cittadina nella verdissima regione del Surrey, a due passi dal parco di Windsor e dal più grande negozio di Ferrari di tutta la regione, si presentava sulla parete di fronte all’entrata un quadro con un profilo dalle fattezze notissime, perché è il profilo che vediamo tutti i giorni sulla moneta da due euro: un ritratto di Dante Alighieri, secondo il modello disegnato da Raffaello per le Stanze Vaticane. Quel ritratto ora non c’è più, perché un milionario inglese italophile, amante della buona cucina e della grande cultura, l’ha comprato e portato a casa. Chissà che non possa essere proprio lui a insegnare al barista della British Library a dire “sto cercando un lavoro” anziché un inesistente, e forse, purtroppo, controproducente, “applico”.

Stefano Jossa