Lorenzo Lotto, “Annunciazione”, Museo di Recanati

Lorenzo Lotto, “Annunciazione”, 1527-1529, Pinacoteca di Recanati

 

Il luogo. E’ la Pinacoteca di Recanati dove, in una sala tutta dedicata alle opere del Lotto, sono conservate: la Pala di San Domenico, del 1508 (committenti i frati domenicani di Recanati); la Trasfigurazione, del 1512 (commenta Flavio Caroli: “tornato da Roma, dove è stato a contatto con Raffaello e gli altri grandi pittori nel cantiere del Vaticano, articola il classicismo con un tale impasto di deformazione anatomica e di filtro naturalistico da fondare il Manierismo ante litteram, senza essere manierista”); San Giacomo pellegrino, del 1512; questa Annunciazione.

L’opera. Committente fu la confraternita dei mercanti di Recanati, per ornare l’altare del proprio oratorio. Lorenzo Lotto aveva già dipinto, nel 1526, un’Annunciazione, che ora si trova nella Pinacoteca civica di Jesi, accanto ad altre mirabili opere del nostro autore (cito, soltanto per un’informazione di base, la Deposizione di Gesù, del 1512; la Madonna delle rose, del 1526; la Visitazione, del 1531; la Pala di S. Lucia, stupenda, del 1532). Anche in questa “Annunciata” di Jesi noi troviamo l’originalità iconografica dell’impostazione che aggancia l’avvenimento sacro alla realtà domestica di una piccola casa, dimostrazione precisa della costante presenza del divino nella vita umile e quotidiana dell’umanità. Un angelo poderoso, a sinistra, sta planando al suolo dopo il volo di avvicinamento e cogliamo la sua fisicità  dalle vesti scomposte dal movimento e dall’ombra che proietta sul pavimento. Il suo contatto a terra è illuminato da una folata di luce che proviene da un’apertura sulla sinistra. A destra c’è Maria che, come se fosse investita dallo spostamento d’aria, ritrae il corpo all’indietro. Interessantissimo è anche il contrasto dei colori: la veste di Maria è dipinta di un rosso caldo e corposo, in contrapposizione a quella di Gabriele di un celeste freddo con bagliori d’argento. Il significato lo ritroviamo nella diversità delle due nature: quella aerea e soprannaturale dell’angelo, quella umana e terrestre di Maria.

Per inquadrare l’episodio-soggetto della nostra opera partiamo dal testo biblico. C’è un solo Vangelo canonico che descrive l’Annuncio ed è quello di Luca, 1, 26-38. “L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea detta Nazaret ad una vergine fidanzata ad un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria. E l’angelo, entrato da lei, disse: Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è teco. Ed ella fu turbata a questa parola, e si domandava cosa volesse dire un tal saluto. E l’angelo le disse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco tu concepirai nel seno e partorirai un figliuolo e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande, e sarà chiamato Figliuol dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre, ed egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine. E Maria disse all’angelo: Come avverrà questo, poiché non conosco uomo? E l’angelo, rispondendo, le disse: lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò ancora il santo che nascerà sarà chiamato Figliuolo di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figliuolo nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese per lei, ch’era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace. E Maria disse: Ecco, io sono l’ancella del Signore; siami fatto secondo la tua parola. E l’angelo si partì da lei”.

Nella descrizione pittorica che ne fa il nostro Lorenzo c’è una brava ragazza colta di sorpresa nella quiete domestica mentre prega nella sua stanza, intimidita al punto che non osa neppure volgere il capo, anche se sente alle sue spalle un richiamo forte e improvviso; lei guarda noi spettatori con occhi indimenticabili e fa con il corpo e con le mani un gesto infantile e indifeso. Il miracolo evangelico diventa un fatto concreto di vita: il gatto vede l’angelo e scappa impaurito; Dio impartisce l’ordine e deve uscire dalle nuvole e farsi vedere; a destra c’è un angelo azzurro, bellissimo giovane biondo, che è entrato dal giardino. E’ una cordiale pittura di interni domestici: Lotto vuole raccontare il fatto evangelico in modo semplice, diretto, umano, libero dalla retorica convenzionale. E’ risaputo che il nostro autore nutriva simpatie per quei movimenti che auspicavano una riforma istituzionale della Chiesa cattolica e un maggiore impegno personale dell’individuo nei confronti di Dio.

Un lampo di luce illumina la stanza ben ordinata dove tutti gli oggetti sono accuratamente sistemati: la cuffia per la notte, l’asciugamano per l’igiene, la salvietta-strofinaccio appesa al chiodo, la candela per illuminare il buio della sera, qualche libro posto di piatto su uno scaffale, uno sgabello, il libro aperto, un calamaio e le penne, il letto a baldacchino. La stanza si apre su un giardino vasto e silenzioso, gli alberi sono potati, le siepi curate, c’è un roseto, si vedono un cipresso e un pino (alberi sempreverdi che alludono alla vita eterna), il pergolato geometrico (nelle litanie lauretane la Madonna è definita pergola mistica). L’ambiente sembra quello di un palazzo veneziano del tempo e lo sgabello su cui è posata una clessidra presenta al basso un archetto gotico che dimostra il persistere di questo stile in area veneta anche a una data così tarda. Solo l’esperienza fatta a Roma, però, tra il 1509 e il 1511 gli aveva potuto dare la certezza di uno spazio prospettico così rigorosamente costruito come in questo interno.

L’azione si svolge dallo sfondo verso il primo piano e solo i gesti dei personaggi sottolineano la straordinarietà dell’evento: il Padre Eterno fa irruzione dalla loggia sul giardino e curiosamente sembra apprestarsi a fare un tuffo, l’angelo Gabriele dalla posa instabile e dalla veste fantastica (?), con un giglio nella mano sinistra, porta l’annuncio con un gesto perentorio e si inginocchia proiettando la sua ombra sul pavimento, mentre Maria abbandona il leggio e si volge –apparentemente turbata- verso lo spettatore. Il dettaglio del gatto che fugge spaventato con la schiena inarcata unisce verismo e garbata ironia, il particolare realistico è difficile da dimenticare ma va sottolineato che ha anche un significato simbolico più profondo perché il gatto nel ‘500 era considerato incarnazione del demonio e non era raro il caso di presunte streghe condannate al rogo insieme ai loro gatti. Quindi il dato significherebbe che il male fugge dinanzi alla rivelazione divina.

Lo spazio riservato a Maria è  tradizionalmente un hortus conclusus, che si apre solo qui, nel nostro mondo. L’hortus viene violato dalla figura di Dio, che occupa il cielo, e dall’angelo azzurro, luminoso e violento nel suo moto. Maria non capisce: forse è incerta e sconvolta, forse sorride, forse si inchina. Il mondo celeste si è installato improvvisamente nel nostro; e noi, come Maria –che volge la schiena a Dio e all’angelo- non possiamo guardarlo negli occhi. Riflettiamo ancora su Maria. La Vergine –noi spettatori abbiamo questa impressione- tenta di scappare dalla scena e dal quadro e sembra che si rivolga verso di noi con degli occhi indimenticabili, che cerchi conforto o protezione al di là del quadro, nello spettatore che è in un’altra dimensione, fuori dalla scena dipinta. Infatti, se noi spettatori –dinanzi alla tela- proviamo a spostarci noteremo che gli occhi di Maria ci seguono, con un effetto che impressiona. Quella di Maria sembra quasi una fuga. I volti dei tre protagonisti hanno un’espressione seria, tutto è silenzio: scrive un critico che “osserviamo con attenzione la caduta della sabbia nella clessidra, appoggiata sullo sgabello e semicoperta da un panno, proprio al centro dell’inquadratura. Lo strumento di misura del tempo segnala la calata del divino, qui e ora, nella storia umana. La serietà dell’evento è contraltata dall’ironia lottesca, che è riuscita a descrivere il tuffo di Dio Padre nelle mani giunte di una preghiera mal posta. C’è la novità dell’humour in un soggetto molto serio. Maria sembra insidiata da celibi divini: uno si presenta tuffandosi, l’altro atterra in una posa instabile” (Zanchi). Nei territori veneziani della Serenissima Lotto potrebbe aver assistito alle recite di attori girovaghi che mettevano in scena le sventure dello Zanni, modello che poi diventerà una delle maschere della Commedia dell’Arte. Questo personaggio, come è stato raccontato da Dario Fo nel suo “Mistero buffo”, osava anche farsi gioco dei misteri sacri. Dal 1520 uno scrittore-attore, Angelo Beolco detto Ruzante, recitava in area veneta, esibendosi sia nei palazzi che nelle piazze dei mercati, introducendo un modo di recitare naturale, ispirato dall’osservazione acuta della vita popolare quotidiana, uno stile che si contrapponeva alla maniera formale e aulica della recitazione cortigiana e accademica. Era un approccio che piaceva molto alla pittura veneto-lombarda di quegli stessi anni, Lotto Romanino Moretto. Uno stile che oltrepasserà le Alpi per giungere fino a Brueghel il Vecchio.

Un’anticipazione. Il gatto che scappa, non contento di tutto quel trambusto e abituato a ben altra calma in quella stanza ordinata e con quella ragazza sempre così tranquilla, era stato fissato in un riquadro marmoreo sul lato ovest del sacello della Santa Casa di Loreto, proprio nell’episodio dell’Annunciazione. Autore era stato, nel 1523, Andrea Sansovino con la figurazione di un gatto che si volta a guardare quello che succede alle sue spalle.  Ancora, si può ipotizzare che Lorenzo avesse visto a Venezia un’Annunciazione del pittore fiammingo Dirk Bouts, tela che servì da modello anche a Tiziano per un quadro destinato al duomo di Treviso nel quale, però, Maria appare una regina consapevole.

Erudizione. Per questa notazione mi servo di un brano contenuto in un articolo, molto dotto, di “Arte-Dossier”, Giunti, febbraio 2008. “Noterete che il volto della Vergine è raffaellesco ma, osservandola più attentamente, appare evidente la posizione forzata e innaturale della spalla e del braccio per trattenere un lembo del manto. Questa insolita soluzione si può meglio comprendere esaminando una delle due statue di età classica disegnate nel trattato manoscritto sugli abiti degli antichi romani (cod. XIII B2, Napoli, Biblioteca Nazionale, f. 23 recto), scritto e illustrato dall’architetto napoletano Pirro Ligorio. Questo schizzo è però opera di una mano più tarda che ha copiato e integrato il disegno autografo ligoriano: una delle due figure femminili è il ritratto di una statua della Musa Melpomene che nel ‘500 si trovava a Roma nel palazzo della Cancelleria e oggi è al Louvre. Vicino ad essa si legge la scritta Recinium in lettere capitali e nel testo è spiegato come questo fosse il nome di quel lembo del manto che le matrone romane usavano inserire nella cintura. I documenti relativi al soggiorno romano del Lotto attestano che intorno al 1509 egli lavorò nelle Stanze raffaellesche in Vaticano e in quel periodo sicuramente disegnò anche alcune delle sculture antiche conservate a Roma sebbene non siano noti suoi disegni dall’antico: ma dello studio fatto sui marmi dell’antica Roma si possono trovare tracce anche in altri suoi dipinti. L’atteggiamento di Maria, così strano e innaturale a prima vista, costituisce in realtà una variazione sul tema del recinium perché Lotto l’ha notevolmente modificato rispetto al modello originale, ma il risultato non è molto felice. Infatti non solo Maria sembra rattrappita e quasi gobba ma anche il panneggio è molto lontano dall’ideale degli artisti fiorentini dell’epoca, così ben descritto da Leonardo nel suo Trattato di pittura: il tessuto non deve nascondere il corpo sottostante ma esaltarne la forma. Difficilmente però lo spettatore, quando contempla questa affascinante tela, ne nota i difetti perché la scena è così piena di vita, così indovinati gli atteggiamenti e le espressioni dei personaggi che tutto il resto passa in secondo piano. Maria ha il capo velato al quale però il manto non aderisce perfettamente per formare invece un’acconciatura a punta: un’altra illustrazione ligoriana (sul f. 20 recto) ritrae un’elegante dama romana con un diadema seminascosto dal corto mantello che le vela il capo. Sicuramente Lotto si ispirò a qualche modello antico ma scelse di coprire completamente col mantello il gioiello sottostante” (Cosmo).

Tiziano. Molti anni dopo la creazione di questa opera del Lotto, nel 1564, a Venezia, Tiziano ritornerà sul tema dell’Annunciata e lo farà con una pala stupenda. Bisogna andare a vederla nella chiesa di San Salvador. Qui la stesura pittorica sembra disfatta e quasi incandescente, a larghe masse di colore. Vasari noterà: “le sue sono opere condotte di colpi, tirate di grosso e con macchie, di maniera che da presso non si possono vedere e da lontano appariscono perfette”. Questa tecnica colpì i contemporanei ma la sua portata fu pienamente capita solo da Rubens, Velasquez, Rembrandt. Le forme plastiche sembrano consumarsi, quasi bruciando nell’aria. Dio è una conflagrazione di luce che sgomenta Maria; tutto s’impregna di pulviscolo dorato, il grande angelo, i putti pagani in alto, il paesaggio che s’incastra al centro. Lo spazio vivente del mondo assorbe le figure umane. Mezzo secolo è passato, è tramontata la grande fiducia umanistica della cultura italiana rinascimentale. Tiziano ha ormai abbandonato la fede in una realtà esterna, nello spazio costruito mediante la razionalità delle leggi della prospettiva. Tutto sembra dissolversi.

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello