L’ultima verità sulla morte di Federico Garcia Lorca, agosto 1936.

L’ultima verità sulla morte di Federico Garcia Lorca

Nel luglio 1936 il grande poeta spagnolo abbandona Madrid per rifugiarsi a Granada, suo paese natale, dove il 16 agosto viene arrestato e poi fucilato all’alba del giorno successivo. 80 anni dopo, la domanda è: perché?

 

Suona beffardo, ma sopra al portone, varcato il quale Federico Garcia Lorca divenne il più celebre desaparecido nella storia letteraria del ‘900, c’è scritto adesso “Facultad de Derecho”. Oggi al civico 18 di calle Duquesa si insegna e studia giurisprudenza. In quell’estate senza legge di ottant’anni fa l’edificio era invece la sede del Gobierno civil di Granada, la prefettura. Da qui partì l’ordine di arrestare Lorca, Qui lo tennero in isolamento prima di farlo fucilare sulle alture poco fuori città. Da qui in poi ogni notizia sulle sue ultime ore di vita scolora in una nebulosa di congetture, leggende, mezze verità o deliberate fandonie. Una matassa infernale.

16 agosto 1936. Le due del pomeriggio. Scortato da un drappello di nazionalisti, Garcia Lorca entra nel palazzo prefettizio. Porta pantaloni scuri, camicia bianca, la giacca ripiegata su un braccio perché ci si squaglia dal caldo. E’ stato appena prelevato quattro strade più in là, in calle Angulo n. 1 (ora è un hotel), a casa dei Rosales, famiglia amica –o ritenuta tale- di falangisti presso cui è andato a nascondersi in quelle prime truci settimane di guerra civile. “Sarà giusto un breve interrogatorio”, gli hanno assicurato. Ma l’arresto è avvenuto con un dispiegamento di forze perlomeno pletorico: cecchini sui tetti, un cordone di uomini armati intorno all’isolato. Lorca come il bandito Dillinger. Eppure Federico è un tipo audace soltanto sulla pagina. Nel privato è un apprensivo spaventato da tutto. E, per quanto umanissima, la fifa gli farà commettere qualche errore fatale.

In luglio, mentre si gonfiavano le voci di un’imminente sedizione militare, Lorca ha abbandonato Madrid giudicando Granada –dove è nato 38 anni prima- posto più sicuro. Alla vigilia di un lungo viaggio in Messico, vuole inoltre congedarsi dai suoi festeggiando con loro l’onomastico. Dannate coincidenze: San Federico è il 18 luglio, stesso giorno in cui scatta il colpo di Stato. Granada cade subito nelle mani dei militari ribelli e Lorca si ritrova bloccato. Gli si offre la possibilità di riparare in zona repubblicana, ma lui rifiuta. Troppo rischioso. Fumando moltissimo e addormentando la paura col brandy, preferisce starsene rintanato nella Huerta de San Vicente, la residenza estiva della famiglia –adesso museo- che allora si trovava alle porte di Granada, ma ormai è stata inghiottita nel tessuto urbano. Quella casa colonica ha sempre ispirato Lorca. Nella sua stanzetta al primo piano lui ha lavorato ad alcuni dei testi più famosi: le poesie del Romancero gitano, il Compianto per Ignacio Sànchez Mejias, i drammi Nozze di sangue, Yerma…

Ma la Huerta è nel mirino delle squadracce nazionaliste che con qualsiasi pretesto irrompono nella finca, perquisiscono, minacciano, menano. Meglio cambiare aria. Lorca si rifugia dai Rosales. Però nel giro di una settimana qualcuno lo tradisce. Chi? Gli stessi amici che gli hanno dato asilo? O addirittura sua sorella Concha, terrorizzata dalle intimidazioni fasciste? Per quanto tempo Federico resta sotto chiave negli uffici del Gobierno civil? Pochissimo, se è vero che già nella notte tra il 16 e il 17 agosto è trasferito vicino Vìznar, villaggio a una decina di km da Granada. Lì lo mettono in attesa nella Colonia, una casa vacanze requisita dai militari, e poi lo uccidono all’alba lungo la strada che porta al borgo di Alfacar. Con lui vengono fucilati altri tre disgraziati: un maestro repubblicano zoppo, Diòscoro Galindo, e due toreri anarchici, Francisco Galadì e Joaquin Arcollas. Nessuno dei quattro è mai stato ritrovato.

Sullo sfondo di lotte per l’egemonia golpista tra Falange e destra cattolica, Federico viene fatto fuori con tanta celerità forse perché appartiene a una famiglia influente che, con le pressioni adeguate, potrebbe ottenerne rapidamente la scarcerazione. Ma ottant’anni dopo, la domanda vera è sempre la stessa, e più terra-terra: perché ammazzarono Lorca? Perché famoso, rojo y maricòn, celebre, comunista e checca –come si ripete un po’ meccanicamente da decenni? O c’era dell’altro? Un rapporto di polizia spuntato dagli archivi l’anno scorso e datato luglio 1965, confermava la matrice politica, e omofoba, dell’esecuzione attribuendo a Federico anche una finora inedita affiliazione alla massoneria, che dai franchisti era odiatissima. Però i dubbi rimangono.

Il ricercatore Miguel Caballero, che indaga da tempo sul giallo, ha sempre rifiutato l’idea di un omicidio a dominante ideologica: “Sulla morte del poeta pesarono annose rivalità familiari legate alla proprietà della terra e alla redditizia coltivazione di barbabietola da zucchero con cui i Lorca si erano arricchiti. Sa, le guerre civili sono sempre un’ottima copertura per i regolamenti di conti privati”, dice. Aggiungendo polemico: “Federico non si immischiava di politica, era un  progressista attivo nelle iniziative culturali della Repubblica, ma di certo non un rosso. La sinistra si è appropriata indebitamente della sua figura”. Il riferimento è al maggiore biografo di Lorca, l’irlandese Ian Gibson: “I suoi studi sono fondamentali”, concede Caballero, “ma sulla morte di Federico ha sempre detto quello che la sinistra voleva sentirsi dire”.

Gibson è un uomo appassionato. Da oltre mezzo secolo, ha fatto della vita e dell’opera di Lorca la sua magnifica ossessione. Quando anni fa lo incontrai a Madrid, mi disse sorridendo: “Finché i resti di Federico non verranno ritrovati non dormirò tranquillo”. Nel 2009 è seguendo le sue indicazioni che si scavò alla ricerca delle ossa tra Vìznar e Alfacar. Ma fu un fiasco. Gibson si basava sulle rivelazioni che nel 1966 aveva raccolto da tale Manuel Castillo, detto Manolillo El Comunista, un tipo che durante la guerra era stato costretto dai fascisti a fare il becchino. Sosteneva di essere stato lui a seppellire Lorca, ma forse parlava per sentito dire. Comunque, è ad appena quattrocento metri dall’area segnalata da Manolillo che nel 2014 è ripresa la perlustrazione, stavolta con la consulenza dell’investigatore Miguel Caballero. Le scavatrici si sono fermate perché erano finiti i soldi. Ma presto potrebbero rimettersi in moto. L’impresa è rognosa. Secondo Caballero, quel che resta di Lorca potrebbe trovarsi in vecchi pozzi che durante i massacri vennero usati come fosse comuni. Stanno a una decina di metri di profondità. Anche perché, nel frattempo, alla terra si è aggiunta altra terra. La zona –oggi disseminata di chalet- è servita da campo di addestramento militare e pista da motocross. A un certo punto volevano farci perfino un terreno da calcio, ma Isabel, l’ultima sorella di Lorca ancora in vita, scrisse al sindaco: “Lì vennero assassinati migliaia di uomini. C’è anche mio fratello”. Il progetto fu abbandonato. Però il paesaggio era ormai sconvolto dalle ruspe.

Pur senza opporsi agli scavi, i discendenti di Federico non li hanno mai approvati. E tutto quel che aveva da dire al riguardo, la nipote Laura Garcia Lorca me lo disse ricevendomi qualche anno fa a Granada: “Ovunque si trovino, sappiamo che i resti di Federico riposano accanto a quelli di molti altri. Tutti i morti sono uguali. Perché privilegiarne uno solo? La forza di quei luoghi non sta forse proprio nel fatto che un poeta famoso abbia condiviso il proprio destino con tanti sconosciuti? Non si tratta di dare colpi di spugna, ma per la verità storica è meglio interrogare gli archivi che le tombe. Il principio secondo cui aprire una fossa equivale a chiudere una ferita non è per forza valido per tutti”.

Tra i motti icastici dell’antica sapienza spagnola ce n’è uno che dice: “Pueblo pequeno, infierno grande”. Nella piccola Granada, durante la guerra civile e nei successivi anni di terrore, vennero ammazzate venticinquemila persone. Spessissimo per motivi assai più futili delle accuse rivolte a Lorca. Innocente ingoiato dalla retorica del martirio. Gay che aveva sempre rincorso i propri amori lontano da Granada, dalla sua borghesia (“la peggiore di Spagna” la definì in una delle ultime interviste, e la cosa non lo aiutò a farsi nuovi amici). Patriota carnale, antinazionalista, sedotto dal carisma imbrillantinato del bel José Antonio Primo de Rivera, suo contrario attraente, l’angelo nero che aveva inventato la Falange, il fan di Mussolini che predicava il riscatto della Spagna ancestrale per mezzo di una fascistissima rivoluzione modernizzatrice, e finì fucilato tre mesi dopo Federico, ma su opposta sponda, repubblicana.

Ci sarebbe ancora tantissimo da indagare sulla sfaccettata personalità di Lorca. Ma è giocoforza l’enigma della morte a calamitare la curiosità, magari pure un filo morbosa. A partire dagli anni ’50 –sfidando con un certo coraggio omertà e controlli franchisti- investigarono sull’assassinio di Garcia Lorca l’inglese Gerald Brenan, i francesi Claude Couffon e Marcelle Auclair e l’italiano Enzo Cobelli che fu addirittura sbattuto in carcere. Ma in quella Brigata Internazionale di ispanisti per passione una menzione speciale spetta ad Agustin Penòn. Chi era? Un misterioso personaggio, figlio di catalani esiliati in Costarica, che nel 1955-’56 si stabilì a Granada con la sola intenzione di scoprire tutto su Lorca. Omosessuale a sua volta, si mischiò ai machos falangisti e, pur di farli sbottonare, gli pagava da bere, li accompagnava nei bordelli. I suoi resoconti formano oggi un libro postumo intitolato “Miedo, olvido y fantasìa”. E’ un volumone meticoloso, sconclusionato e commovente. Tra interviste e sopralluoghi, ti trasmette l’impressione che la verità sulla morte di Lorca sia ancora lì, acciambellata nell’ombra antica di un appartamento, una cascina, un uliveto. A portata di mano, eppure irraggiungibile.

 

                                                        Marco  Cicala

 

L’articolo, scritto da Marco Cicala, è pubblicato nella “Repubblica” di domenica 17 luglio 2016, a pag. 32.