Nel Trecento la peste nera mandò in crisi la medicina dell’epoca

Nel Trecento la peste nera mandò in crisi la medicina dell’epoca.

Petrarca capì che quella terribile tragedia poneva questioni nuove sulla giustizia divina e sulla religione.

 

L’inserto “La lettura” del “Corriere della sera” del 13 dicembre 2020, alla pag. 31, ospita un articolo-intervista di Danilo Zagaria a Klaus Bergdolt, medico tedesco, autore di un ponderoso saggio sulla peste nera del 1348. Una pestilenza che segnò di sicuro una svolta epocale, tra un prima –di crescita e di sviluppo per l’Occidente, con un miglioramento generale del tenore di vita- e un dopo in cui si visse un violentissimo tracollo demografico. La crisi, però, consentì di traghettare l’Europa medievale nella modernità.

“La peste fu un fenomeno mondiale che colpì come un maglio Asia, Africa ed Europa. Le stime dei morti sono terribili: se la seconda guerra mondiale procurò complessivamente tra i 40 e i 72 milioni di morti, la peste nera ne produsse tra i 75 e i 200. Era cominciata in Oriente, in Cina, con forse il primo focolaio nella regione dello Hubei. Arrivò rapidamente alle sponde del mar Nero. Da qui mercanti genovesi e veneziani diventarono veicolo della malattia, nascosta nei loro sacchi pieni di merci. Il trauma fu superato con un nuovo spirito razionale ma anche con nuove spinte irrazionali, le danze macabre, le processioni violente e oscure. Raggiunto il limite più basso, la macchina sociale ricominciò a muoversi, generando assetti ed equilibri nuovi” (A. Santoro, in “Storia mondiale dell’Italia”, Laterza, 2017, pag. 296).

                                                        Gennaro Cucciniello

 

L’arrivo dei primi vaccini contro il Covid-19 ci permette di parlare per la prima volta di un dopo. Che cosa accadrà quando il peggio sarà alle nostre spalle? In che mondo si muoverà la tanto inseguita ripartenza? A giudicare dal saggio “La grande pandemia. Come la peste nera generò il mondo nuovo” del tedesco Klaus Bergdolt (Libreria Pienogiorno, traduzione di Anna Frisan, postfazione di Alessandro Barbero), ben più di un europeo del XIV° secolo si pose le stesse domande durante la più grande epidemia di peste della storia. L’autore, docente di Storia della medicina a Colonia, che già nel 1997 aveva pubblicato un saggio sull’argomento, firma ora uno straordinario lavoro documentale che descrive sia la tempesta causata dall’imperversare del contagio sia la (relativa, beninteso) quiete che seguì il lento scemare dei focolai.

Che cosa significò vivere un’epidemia di così ampie proporzioni?

L’Italia e gli altri paesi europei furono travolti in modo drammatico. Ovunque era diffusa la convinzione che gli uomini fossero vittime di una vendetta divina. Ma anche la rottura dei vincoli familiari, la paura della morte, il dilagare della criminalità e il fallimento della società cristiana contribuirono a immergere la collettività e, forse ancora più importante, ogni singolo individuo in una vera crisi esistenziale.

Dalle sue pagine pare che la morte in quei mesi del Trecento fosse pressoché ovunque.

Conosciamo tante storie orribili e scioccanti, e non dimentichiamo che tra il 1347 e il 1351 più di un terzo degli europei fu vittima della peste. La morte dominava perfino l’estetica delle città colpite e delle campagne abbandonate. Inoltre, prevaleva un nuovo egoismo: il sentimento della pietà e lo spirito di sacrificio vennero meno, anche se ci furono ovviamente eccezioni, compresi notevoli atti di compassione ed eroismo. E’ interessante notare però che il tema artistico del Trionfo della morte compare già prima del 1348: a Pisa, Firenze e Bolzano; come se la grande catastrofe fosse stata in qualche modo prevista.

E le autorità dell’epoca? Come reagirono per contenere il contagio?

Con severità e durezza. In tanti Comuni italiani esisteva già, prima del 1348, una polizia sanitaria che agiva in modo duro, per non dire inumano. L’interesse della società era ritenuto più importante che il destino del singolo individuo, per cui prevalse un bieco utilitarismo. Un appestato doveva capire che, a prescindere dalla famiglia, nessuno si sarebbe interessato troppo alla sua sopravvivenza. L’isolamento degli infetti fu il metodo più impiegato per arginare la diffusione del morbo: quello preventivo di 40 giorni fu replicato in tutte le coste non italiane del Mediterraneo e anche nei Paesi del Nord Europa. Stranieri, pellegrini, commercianti e marinai erano sospettati di essere i principali diffusori del contagio. L’epidemia causò quindi una considerevole xenofobia in numerose città tedesche, scandinave e inglesi.

Fra i testimoni di cui lei racconta emerge senza dubbio Francesco Petrarca. Perché il poeta toscano è così importante per comprendere le conseguenze culturali di quella epidemia?

Fu grazie a Petrarca che iniziai a studiare la peste del Trecento. Petrarca  parlava di un mondo “invecchiato” (mundus senescens) e di decadenza. Attaccò con passione e disprezzo le Università, la medicina accademica, la giurisprudenza e tutto il sistema delle sette arti liberali: grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia e musica. Le voleva sostituire con gli studia humanitatis,  dando spazio soprattutto a filologia, poesia, storia e filosofia morale. La morte nera del 1348 ebbe un’influenza fondamentale sulla cultura, la filosofia, le belle arti, la letteratura, la teologia. Improvvisamente sorsero in tutta Europa nuove domande. Lo stesso Petrarca tematizza i sentimenti dell’uomo, le sue ansie, la sua disperazione di fronte al pericolo mortale e a questioni come il senso della vita, la giustizia divina e il ruolo della religione in generale. Fu forse il primo a capire che l’ordine medievale, che con tutte le sue gerarchie celesti e terrestri aveva dato conforto al popolo cristiano per secoli, non poteva –in quella situazione- rispondere ai nuovi interrogativi che si ponevano. Nel segno della peste si delineavano quindi conseguenze morali e spirituali.

Lei spiega che la scienza medievale rimase pressoché impotente di fronte all’espansione del contagio. In che modo i medici del tempo interpretarono una malattia causata da un batterio che sarebbe stato scoperto soltanto nel 1894?

Al tempo, la medicina rimaneva, come da secoli, una scienza estremamente autoritativa, basata sulle concezioni di grandi dell’antichità come Ippocrate e Galeno. La “patologia umorale” suggeriva che la peste era causata da un’eccedenza di quell’umore che i medici associavano al caldo e umido, cioè il sangue. Questo umore, secondo le teorie in voga, portava alla putrefazione degli organi interni, processo che per i medici rappresentava la vera causa della peste. Si pensava che entrasse negli organi attraverso l’aria corrotta inspirata oppure tramite il cibo. Quindi si praticavano dei salassi per ridurne la quantità, una procedura che aveva l’unico risultato di indebolire ancora di più il paziente. Anche la medicina araba, che dovette confrontarsi con gli stessi problemi e le medesime debolezze, confidava totalmente nei dogmi ippocratici. Può sembrare cinico, ma il rimedio più efficace –attribuito a Galeno- stava in una massima: “Cito, longe fugeas et tarde redeas” (Presto, fuggi lontano e torna tardi).

Nel suo saggio lei scrive anche del dopo, degli anni che seguirono il diffondersi del contagio. In che modo la peste trasformò la società?

Negli anni successivi ci fu un consistente crollo demografico, che causò un improvviso incremento del patrimonio medio degli abitanti e del numero di posti di lavoro in Europa. In un primo momento crebbero molto i beni di coloro che erano sopravvissuti, aumentò il lusso e i gusti si modificarono. Matteo Villani, un cronista fiorentino dell’epoca, riporta che i cittadini “si diedero alla più sconcia e disordinata vita che prima non avevano usata”.

Una situazione che fu passeggera…

Poco a poco si accorsero che questo cambiamento non era un dono del cielo. La migrazione verso le città portò a uno spopolamento delle campagne, per cui i raccolti si fecero scarsi e le carestie pesanti. Nelle città, dove la crisi colpiva in particolare il popolo minuto, il cui numero era cresciuto grazie all’arrivo di contadini e immigrati dalle aree rurali, le corporazioni degli artigiani esercitavano un’influenza crescente. Una simile situazione non poteva che generare tensioni e disordini, come avvenne per esempio a Firenze nel 1378 con la famosa rivolta dei Ciompi.

Al netto delle differenze sostanziali, lei pensa che la pandemia che stiamo vivendo oggi si possa paragonare alla peste del ‘300, almeno per l’ampia diffusione?

E’ possibile fare un paragone, ma non metterle alla pari. Non dimentichiamo la differenza più grande: nel ‘300 la mortalità della peste fu spaventosa. Cifre inimmaginabili, numeri dai quali oggi siamo per fortuna molto lontani. Però, mi inquieta un pensiero: che cosa succederebbe se arrivasse un virus ancora più aggressivo di Sars-Cov-2, più mortale, paragonabile per i suoi effetti sulla salute al bacillo della peste del tardo Medioevo? Il nostro mondo e le nostre virtù potrebbero reggere? Esisterebbe ancora lo spirito di sacrificio di fronte a un simile pericolo?

Nel libro racconta le grandi violenze che accompagnarono la peste, di cui furono vittime soprattutto gli ebrei. Lei crede che oggi il Covid-19 potrebbe causare un aumento delle disuguaglianze e della chiusura nei confronti del prossimo?

Sì, possiamo fare alcuni parallelismi inquietanti con il 1348. Nonostante l’intervento delle autorità, che agirono per mantenere legge e ordine, già all’epoca si diffusero denunce e delazioni, presero piede teorie del complotto, xenofobia e sfiducia verso il prossimo. Questi sono comportamenti diffusi, un veleno che accompagna tutta la storia delle epidemie, compresa purtroppo quella attuale.

Che cosa possiamo imparare leggendo della grande peste del ‘300 in libri come il suo?

Forse una cosa. Secondo molti storici la storia è caratterizzata da fratture e discontinuità, ma le epidemie dimostrano che l’uomo, quando si trova di fronte un pericolo mortale di questa portata, non cambia poi molto nei suoi comportamenti.

 

                                      Klaus Bergdolt                 Danilo Zagaria