Niente sesso. Sono Don Giovanni.

Niente sesso. Sono Don Giovanni.

Una condanna sproporzionata rispetto ai peccati commessi. Una scarsa o inesistente attenzione ai piaceri della carne, perché il vero godimento di Don Juan Tenorio erano la burla, l’inganno, la vittoria. Da Tirso a Molière fino all’opera di Mozart-De Ponte, torna un libro che sfata (e riconferma) il mito del Seduttore.

 

Nell’inserto “Robinson” di “Repubblica” di domenica 29 luglio 2018 è pubblicata la recensione di Marco Bracconi al saggio del filosofo Umberto Curi, “Filosofia del Don Giovanni”, Bollati Boringhieri.

 

Niente sesso, sono Don Giovanni. Detto così, potrebbe far pensare ad una rivisitazione parodistica del mito, e invece la frase va letteralmente intesa perché il senso comune e il lavorio del tempo ci consegnano spesso significati che solo l’indagine filosofica può incaricarsi di ricondurre alla loro inevitabile complessità. Lo fa con rinnovata efficacia questo saggio di Umberto Curi, “La filosofia del Don Giovanni”, che torna in libreria in una edizione riveduta e ampliata con lo scopo, appunto, di decostruire, riconfermandolo su altre basi, il mito di un Giovanni Tenorio che è stato trasmesso ai suoi posteri più o meno come un contemporaneo sex addicted. Ma il sesso, udite udite, c’entra pochino, forse niente.

C’entrano invece Dio, la guerra e la morte, e in ultima istanza (come ultima appare la statua che trascina l’eroe negli inferi) c’entra il dilemma dell’essere umano davanti alla morte. Sono le trasformazioni, le accumulazioni di senso e perfino le censure da una versione all’altra del Don Juan a dimostrarlo; sono le (apparenti) contraddizioni interne alla narrazione a confermarlo di nuovo.

Così, con accuratezza filologica e continui rimandi interdisciplinari, Curi insegue la figura del nostro eroe dal tempo di Tirso de Molina a quello di Molière, fino all’opera ambivalente di un Mozart impegnato programmaticamente a contrapporsi al libretto fin troppo banalizzato di De Ponte. Ecco allora che fin dalla prima versione classica il Tenorio ci appare non come l’eversore della morale sessuale, se non strumentalmente, ma come colui che mette in discussione il fondamento religioso del suo tempo. La sua ragion d’essere non è godere dei piaceri della carne, ma la burla, l’inganno, il travestimento. In altre parole: farsi beffa dell’agape cristiana e, soprattutto, disconoscere l’idea della morte come passaggio alla vita eterna. Don Giovanni, insomma, non litiga con il Divino ma lo smantella alla radice. Spezza la triangolazione amorosa tra il Cielo e gli uomini. E sgretola la relazione profonda tra fede e salvezza.

Non si spiega altrimenti, sottolinea Curi, un contrappasso tanto feroce come l’essere gettato vivo tra le fiamme dell’inferno: pena del tutto sproporzionata, perfino nel Seicento, ai suoi presunti o evocati peccati sessuali. Ben altra è l’empietà, dunque, e attiene alla teologia molto prima e molto più che all’eros. Per questo da qui alla sulfurea versione di Molière il passo non è breve ma lineare. L’analisi del Don Giovanni molieriano, contaminato dalle “improvvisate” della commedia dell’arte, riletto alla luce dello spirito da libertini eruditi che contamina Dio e il mondo dell’epoca dei Lumi, ci dice che l’inganno da cui discende l’orribile punizione si è fatto azione sistemica, guerra dell’homo novus razionale e matematico contro ogni forma di illusione trascendentale. Qui è forte e convincente la rete che Curi tesse con la filosofia del tempo, Cartesio in primis, e con l’accelerazione del progresso scientifico: non si tratta più di prendersi gioco dell’ordine celeste costituito, ma di lanciarsi in battaglia (e Don Juan lo fa) per quella che poi tutti impareremo a chiamare modernità.

Non è un caso che il lessico della seduzione si snodi per via di un vocabolario guerresco, da conquista a vittoria; non lo è nemmeno l’apparizione, nel testo di Molière, di una scena fortemente simbolica come quella del Mendicante: un incontro che è scontro radicale, ormai non più ricomponibile, tra due concezioni del mondo e del posto che in esso occupiamo. Tanto poco conciliabili che non ci riuscirà nemmeno la riduzione di Don Giovanni a semplice dissoluto, troppo ordinario per farsi eroe, tentata dal prudente libretto di De Ponte. Sarà infatti il genio mozartiano, con il suo contrappunto in conflitto con il testo, ad impedirlo. Perché il dramma dell’uomo moderno è cominciato. Ed è tutto meno che un dramma giocoso.

 

                                                                  Marco Bracconi