Potenza della mente: i luoghi dell’utopia. Alberto Manguel.

Potenza dei luoghi mentali

Tra i libri e la geografia, tra la fantasia e la fondazione di nuove città il rapporto è strettissimo. Parola di Alberto Manguel, lo scrittore che oggi a Buenos Aires dirige la biblioteca “di Borges”.

 

Ad Ascona, nel Canton Ticino, dal 6 al 9 aprile 2017 c’è stata la Quinta edizione del Festival letterario di Ascona, intitolato “I luoghi dell’utopia”. Tra gli ospiti lo scrittore austriaco Christoph Ransmair, la scrittrice bielorussa e premio Nobel 2015 Svetlana Aleksievic, lo storico e filologo Luciano Canfora, lo scrittore Alessandro Leogrande, il teologo Vito Mancuso. Ha partecipato anche lo scrittore argentino Alberto Manguel, direttore della Biblioteca nazionale argentina. Riporto di seguito il testo della sua lezione, testo ripreso dal “Venerdì di Repubblica” del 7 aprile 2017, alle pp. 104-107.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

Tutta la geografia immaginaria, a differenza di quella che si trova nelle enciclopedie e negli atlanti, non ha confini. I suoi luoghi esistono in uno spazio senza limiti e occupano un paesaggio infinitamente copioso. Permettono di creare società perfettamente efficienti e perfettamente atroci, luoghi dove tutto è possibile (secondo regole segrete e rigide) e dove possiamo vedere noi stessi come altre persone, nella nostra condizione umana di eterni sopravvissuti a un naufragio o cittadini di uno Stato felice o sventurato. Un esploratore alla ricerca della città ideale la troverà sicuramente in questo mondo di Paesi ancora da inventare.

Ai tempi del liceo, a Buenos Aires, oltre alla lettura integrale del “Don Chisciotte” e di altri classici della letteratura spagnola, studiavamo le sanguinose avventure di molti di questi esploratori, in quella che alcuni chiamano la Conquista e altri l’Invasione dell’America. Imparavamo che i soldati letterati e illetterati che salpavano per il Nuovo Mondo si portavano dietro non solo le loro mitologie e le loro fedi –sirene e amazzoni, giganti e unicorni, il Dio redentore inchiodato a una croce e la storia della madre vergine- ma anche i libri stampati in cui queste storie venivano registrate o riraccontate. Era commovente leggere nel resoconto della prima traversata atlantica di Cristoforo Colombo, nel 1492, che appena raggiunta la costa del Venezuela l’ammiraglio aveva avvistato tre lamantini che nuotavano vicino alla sua nave e aveva scritto di aver notato “tre sirene, le quali si alzarono assai al disopra delle acque del mare, però”, aggiungeva con encomiabile onestà, “non le ho trovate belle quanto le si dipingono”. Il vicentino  Antonio Pigafetta, che accompagnò l’esploratore portoghese Ferdinando Magellano nel suo viaggio intorno al mondo dal 1519 al 1522, descrisse gli abitanti della parte più meridionale del continente americano come piedi grandi o “patagoni”, perché pensava di aver riconosciuto in quei nativi alti che indossavano stivali e mantelli di pelliccia i Nefilim della Bibbia, la progenie degli dei e delle figlie degli uomini menzionata nella Genesi. Francisco de Orellana diede al fiume e alla giungla della terra che esplorò il nome di Amazzonia perché nelle guerriere che lui e i suoi uomini incontrarono aveva riconosciuto la leggendaria tribù descritta da Erodoto. Tutti questi uomini erano dei lettori e i loro libri gli dicevano cosa avrebbero visto molto prima che lo vedessero.

La realtà immaginaria dei libri contamina ogni aspetto della nostra vita. Agiamo e sentiamo all’ombra di azioni e sentimenti letterari, e perfino gli indifferenti stati della natura li percepiamo attraverso descrizioni letterarie, un fenomeno che John Ruskin definì, in un celebre aforisma, “l’equivoco patetico”. Questa contaminazione, questo stile di pensiero, in mancanza di un termine migliore, ci consente di credere che il mondo che ci circonda sia un mondo narrativo e che i paesaggi e gli eventi siano parte di una storia che siamo costretti a seguire nello stesso momento in cui la creiamo.

Fra le storie che gli esploratori spagnoli si portavano dietro nel Nuovo Mondo ce n’erano molte che parlavano di regni favolosi come quelli descritti nei romanzi cavallereschi, regni a cui Don Chisciotte credeva ferventemente. Se città d’oro e montagne di pietre preziose popolavano la geografia di queste epopee intrepide e immaginarie, i loro emulatori erano convinti che città d’oro ancora più ricche e montagne preziose ancora più alte esistessero di sicuro in quelle terre strane e meravigliose che pensavano fossero le Indie.

Nel 1516 l’esploratore Juan Diaz de Solis entrò nel Rio della Plata, sbarcò con un manipolo di uomini sulla fangosa riva occidentale e venne prontamente ammazzato e mangiato dagli indigeni Charrùa. Alcuni dei sopravvissuti continuarono il viaggio navigando lungo la costa del Brasile, fino a un posto che chiamarono Santa Catarina, dove una tribù di Tupi-Guarani raccontò loro di un misterioso Re Bianco, Signore della Montagna d’Argento. Secondo il loro racconto, da qualche parte nell’entroterra, nella profondità della giungla, sorgeva una montagna fatta interamente di argento puro. Il re di quel regno era noto per essere un monarca generoso e amante della pace, che avrebbe ceduto di buon grado ai viaggiatori parte del suo tesoro da portar via come segno di buona volontà. Uno dei sopravvissuti, Alejo Garcia, decise di organizzare una spedizione alla ricerca del favoloso regno. Riuscì ad attraversare il vasto continente verde e a raggiungere le vette del Perù. Fu ucciso lungo il viaggio di ritorno da frecce indigene, ma i suoi uomini portarono con loro a Santa Catarina alcuni pezzi di argento grezzo, provenienti presumibilmente dalla zona di Potosì, in Bolivia, che furono presentati come prova della veridicità della storia. Da quel momento in poi, la Conquista del Nuovo Mondo fu alimentata dalla convinzione che lontano, all’interno del continente, vi fosse un regno magico dalle straordinarie ricchezze, pronto a regalare i suoi tesori.

Garcia morì nel 1525. Dieci anni dopo, un cavaliere di famiglia aristocratica, Pedro Mendoza, che aveva servito l’imperatore Carlo V come ciambellano e aveva combattuto in Italia contro i francesi, si convinse che era lui l’uomo che avrebbe trovato il Re Bianco e lo avrebbe privato delle sue ricchezze. Mise in piedi una spedizione di 13 navi e duemila soldati, in parte finanziata da lui stesso e in parte dall’imperatore, che pose come condizione che Mendoza fondasse tre città spagnole fortificate sulla terra conquistata, e nel giro di due anni trasportasse in loco un migliaio di coloni spagnoli per popolarle. Tuttavia, dopo aver traversato l’Atlantico, una terribile tempesta disperse la flotta di Mendoza al largo delle coste del Brasile. Spesso le catastrofi naturali si specchiano in quelle umane. Poco dopo la tempesta, il luogotenente di Mendoza fu assassinato misteriosamente. Non erano le condizioni ideali per fondare una colonia o intraprendere una caccia al tesoro.

Sulle rive di quello stesso fiume ampio e fangoso dove gli indigeni avevano banchettato con Solis, il 2 febbraio 1536 Mendoza fondò una città che chiamò Nuestra Senora Santa Maria del Buen Ayre, come la patrona della Sardegna (Nostra Signora di Bonaria), un nome che nei secoli successivi si sarebbe snellito in Buenos Aires. Mendoza soffriva di sifilide e la confusione che a tratti gli ottenebrava lo stato d’animo non favorì l’efficienza del suo governo. Cinque anni più tardi, a causa dell’incapacità di Mendoza e della belligeranza degli indigeni, la città fu abbandonata. Sarebbe stata rifondata circa 42 anni dopo da Juan de Garay. Nel 1537, malato e afflitto, Mendoza provò a tornare in Spagna, ma morì durante il viaggio verso casa.

Mendoza aveva portato con sé una piccola collezione di libri che in maniera oscura, forse, definiscono la città che aveva immaginato. Forse tutte le città vengono fondate con una biblioteca in mente. I libri che Mendoza aveva portato con sé erano “sette volumi di medie dimensioni (scrive lui) rilegati in pelle nera”, i cui titoli purtroppo non sono giunti fino a noi. Aveva anche portato con sé un libro di Erasmo da Rotterdam, una raccolta di poesie del Petrarca, un “libbricino con la copertina d’oro dentro cui c’è scritto “Virgilio” e un volume di De Bridia rilegato in pergamena. Pare che C. de Bridia (conosciamo solo l’iniziale del nome) fosse un monaco francescano che accompagnò la missione dell’italiano Giovanni da Pian del Carpine in Mongolia nel 1247, e scrisse una storia dettagliata del popolo mongolo dal titolo “Historia Mongalorum”.

Questo modesto elenco è prodigiosamente rivelatore. I libri che Mendoza portò con sé per fondare Buenos Aires ci parlano di una concezione eclettica e generosa (probabilmente inconsapevole, di certo non esplicita) di come avrebbe dovuto essere questa nuova città. In questa biblioteca fondativa troviamo: un filosofo di fede diversa da quella di Mendoza (Erasmo), poeti di lingue diverse dallo spagnolo (Petrarca e Virgilio, anche se la formazione di Mendoza quasi sicuramente includeva il latino), un collega esploratore di un’altra epoca e di un’altra cultura: l’estremo nord della Tartaria contrapposto all’estremo sud del Nuovo Mondo. Tutto questo per dire che per Pedro de Mendoza, contemporaneo di Alonso Chisciano, il mondo dell’intelletto era un tutt’uno, o detta in altri termini che ogni singola impresa formava parte di un tutto universale. Simbolicamente, se non deliberatamente, l’impulso di portare con sé questi libri ha conferito all’identità della città che ancora non era forza immaginativa e una sorta di immortalità.

Eppure questa immortalità potrebbe essere illusoria. La mia ultima biblioteca, il mio personale luogo immaginario, era in Francia, ospitata in un’antica canonica di pietra a sud della Valle della Loira, in un borghetto tranquillo con meno di dieci case. Io e la mia compagna avevamo scelto questo posto perché vicino alla casa c’era un fienile, crollato in parte secoli fa, grande abbastanza per sistemarci la mia biblioteca, che nel frattempo era arrivata a 35mila volumi. Pensavo che una volta che i libri avessero trovato le loro radici, io avrei trovato le mie. Ma mi sbagliavo. La casa è stata venduta e i libri inscatolati e consegnati a sepoltura prematura (in attesa, si spera, di una loro resurrezione).

E poi alla fine del 2015, quando credevo che non avrei più avuto una mia biblioteca, sono stato nominato direttore della Biblioteca nazionale argentina. Mentre mi impegnavo per svolgere questo lavoro nel migliore dei modi, ho avuto la sensazione che mi stavo trasferendo in un altro luogo immaginario, e anche che stavo pagando un vecchio debito nei confronti della mia biblioteca abbandonata, organizzata a vanvera, dipendente dalle mie energie personali e dal mio capriccio, l’ombra microscopica dell’enorme colosso rigorosamente ordinato dentro cui mi trovo ora. Una biblioteca nazionale, a mio parere, deve essere un’istituzione che la maggioranza delle persone considera centrale per la propria identità, e quindi centrale per l’educazione civica dei suoi cittadini. Può essere una sorta di laboratorio creativo, e un luogo in cui il materiale viene conservato perché i lettori futuri vi trovino spunti per immaginare mondi migliori. Può essere anche un luogo dove si formano nuovi lettori e si riconfermano i vecchi. Non so con quali strumenti potremo raggiungere tutto questo, ma so che dobbiamo provarci. Le meschinità politiche, le avidità personali, le beghe interne e una corruzione endemica sono altrettanti ostacoli lungo il cammino e dobbiamo anche essere pronti ad accettare dei risultati meno che perfetti. Come diceva Chesterton, “Se vale la pena fare una cosa, vale la pena farla anche male”.

Le storie sono al principio delle nostre società e anche alla fine, e provvedono ciascuno di noi di un’identità. Il rapporto fra le città che creiamo sulla terra e le città che creiamo nella nostra mente si contende la nostra attenzione, e nella maggioranza dei casi sono quelle immaginarie ad avere il sopravvento.

 

                                                        Alberto Manguel