Una o due proposte per dimezzare e far dimagrire la “casta” dei politici. Articolo di Mario Pirani.

Una o due proposte per dimezzare e far dimagrire la “casta” dei politici

 

Riporto il testo di un articolo che Mario Pirani ha scritto alcuni mesi fa, uscito sul quotidiano “La Repubblica” il 20 luglio 2011 e che ancora adesso, a vari mesi di distanza, conserva a mio parere tutta la sua stringente attualità e anche una carica di profezia. Nel frattempo è successo un vero terremoto economico e politico: la crisi dell’euro si è fatta più acuta, il governo Berlusconi è caduto, è nato il governo Monti, sono cambiati gli uomini e subito sembra cambiato, come per incanto, il clima. Tre mesi e pochi provvedimenti, sia pure importanti, sembra siano bastati per rimettere in carreggiata un Paese descritto fino a poco tempo fa da tutti come allo sbando, senza guida, destinato a ripetere la tragedia della Grecia. In realtà per vent’anni le promesse si sono sostituite ai programmi, la pratica politica si è commisurata ai tempi delle scadenze elettorali, l’analisi sociale si è ridotta alla lettura dei sondaggi, la demagogia è vissuta in un contesto di irresponsabilità, le coalizioni cosiddette bipolari sono state ostaggio delle rispettive ali massimaliste. Soprattutto il Paese ha visto crescere al suo interno le disuguaglianze economiche al punto di far diventare l’impoverimento del potere d’acquisto dei lavoratori forse la principale causa interna della caduta dei consumi e perciò degli investimenti con effetti recessivi sulla crescita del Pil.

Ma il buon governo non significa una nuova Italia. “Todo cambia, poco cambia”. Intanto è opportuno far rilevare che il cavaliere Berlusconi è stato fatto cadere soprattutto dalla classe dirigente del Partito Popolare europeo (Merkel e Sarkozy in testa), come se la destra europea avvertisse che il populismo becero e peronista dell’alleanza tra Pdl e Lega stava pericolosamente minando le sue prospettive di dominio del continente, con la contraddizione che sta dividendo l’eurozona tra una politica di rigore nord-europea e politiche nazionali mediterranee lassiste. D’altra parte come non avvertire che l’alto tasso di illegalità diffusa ( in un Paese come il nostro che ha rischiato di cadere nella rassegnazione e nel qualunquismo) è stato indubbiamente favorito dal mondo politico, con una sorta di evoluzione della sottocultura criminale dei gruppi dominanti, e che ha trovato terreno di coltura in un sistema statuale arcaico e inefficiente, mai seriamente riformato? Come non scandalizzarsi nel constatare che non tutti i politici ma molti, e troppi, si sono convinti che la carriera politica sia il lasciapassare che alcuni cittadini concedono a pochi altri per rubare a man bassa, per recuperare e aumentare i propri privilegi visibili e soprattutto garantirsi la libertà di furto? La meritoria denuncia dei privilegi della casta politica, che ha avuto anche una buona eco nei giornali, non sembra avere ottenuto finora risultati significativi. Trasformare i dirigenti politici, parlamentari o con incarichi negli Enti locali, in uomini e donne ricolmi di privilegi produce inevitabilmente una tentazione alla quale è difficile sottrarsi: un attaccamento eccessivo e impropriamente motivato a quella carica, orientata verso chi nel partito di appartenenza detiene la chiave del prolungamento dei benefici goduti, a scapito di un analogo e ben più forte rapporto con i cittadini elettori. Il “Porcellum”, che demanda la candidatura alle gerarchie di partito, chiude il cerchio inesorabilmente. Lo schema è semplicissimo: se obbedisci ti premio e aumento il tuo desiderio di continuare ad essere premiato.

E’ ancora e sempre più valida la lezione che già venti anni fa, nel 1992, veniva da una canzone di F. Battiato: “Povera patria, schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame…”. Non è per niente lieve la responsabilità di tutti quei parlamentari che, alla Camera e al Senato, hanno votato lo scorso anno un documento che ha attestato solennemente che la prostituta minorenne Ruby era la nipote di Mubarak e che il presidente del Consiglio Berlusconi aveva telefonato agli uffici della Questura di Milano per evitare una crisi diplomatica con l’Egitto. Di fronte alla massa di scandali che ha contrassegnato le cricche del governo Berlusconi bisogna pur sottolineare che anche la vecchia opposizione di centro-sinistra non si è ben comportata: il Pd ha svicolato sulla vicenda gravissima di Penati, Di Pietro non si è vergognato di imporre la candidatura di consigliere regionale in Molise del figlio Cristiano (già beccato –scrive Curzio Maltese- in imbarazzanti affari con personaggi loschi), un esponente umbro di Rifondazione comunista è inquisito per abuso di potere e malversazioni e, buon ultimo, il tesoriere dell’ex Margherita –Lusi- si è divertito per anni a fare la bella vita coi tanti troppi milioni di euro dei contribuenti a un partito rottamato da tempo (a questo proposito si deve notare che dal 1994 i partiti, anche quelli-fantasma –estinti o non rappresentati in Parlamento-, hanno ricevuto dallo Stato ben 2.217.126.664 €, avete letto bene, oltre due miliardi e duecento milioni di euro di rimborsi elettorali). La violenta mazzettopoli degli scorsi anni Novanta si è trasformata nella squallida e generalizzata “accettazione di un sistema” di questi anni Duemila. La Lega di Bossi, che nacque e si impose sulle macerie dei partiti in agonia della prima Repubblica, che sostenne –insieme a Berlusconi e alle sue tv- Di Pietro magistrato, che ruppe l’alleanza con Forza Italia, che poi urlò “Roma ladrona” e agitò nodi scorsoi in Parlamento, oggi fa eleggere il figlio di Bossi (il Trota, bocciato per tre volte all’esame di maturità) consigliere regionale della Lombardia, investe in Tanzania parte dei suoi soldi del finanziamento pubblico (10 milioni su 22 milioni di euro di rimborsi elettorali), vota contro l’abolizione del vitalizio dei parlamentari, contro l’arresto di Cosentino e a favore della responsabilità civile dei magistrati. Non si dimentichi mai che in fatto di rimborsi elettorali (per spese mai avvenute e documentate) si è passati dalle 1600 vecchie lire (0,80 centesimi di euro) a cittadino del 1994 alle 4mila lire tonde (2 €) del 1999 ai 4 € di oggi, con un aumento del 1100%. 

In un quadro del genere si può ancora avere fiducia in una democrazia partecipata, garantita dalle regole costituzionali? Intanto, non si potrebbe convenire, tutti, sul fatto che i partiti dovrebbero servire a fare proposte e programmi e non nomine? Via i nominati politici dai consigli d’amministrazione, dalle Aziende sanitarie, dalla Rai, come dice da tempo –inutilmente- Walter Veltroni. Invitiamo tutti gli elettori a informarsi, a non fidarsi degli slogan e delle promesse. Oggi è possibile, anche aiutandosi con la rete di Internet, rivitalizzare la democrazia, costruire una partecipazione politica fondata sul contatto continuo interattivo tra le persone, il feedback della vita reale: obbligare a mandare online sedute delle assemblee politiche –a tutti i livelli-, ogni eletto costretto ad avere un blog con il quale è tenuto a dialogare con i suoi elettori, trasmettere e ricevere idee e contenuti. Una democrazia come realtà trasparente e multimediale, quasi un sistema di primarie permanenti. E’ vero che negli anni ’60 e ’70 del ‘900 il rapporto tra i partiti e i loro iscritti non era mediatico ma carnale, fatto di presenza fisica, di stanze piene, di contatto personale, di confronto almeno settimanale di opinioni. Leggo in una nota di M. Serra che “ogni tessera valeva perché corrispondeva ad una persona, e ognuno era orgoglioso di versare la propria quota perché aveva l’impressione che il partito funzionasse grazie a lui. Ora nell’epoca di Internet la parola politica può circolare con una rapidità e una capillarità infinitamente maggiori, ed è un valore aggiunto. Ma recuperiamo anche, dentro questo nuovo mondo, un modo meno impersonale, e più controllabile di partecipazione. Ciò renderebbe molto più difficili i loschi maneggi dei signori delle tessere e le vite disoneste e spendaccione di qualche tesoriere di partito estinto”.

Io non dispero. L’esperienza –sia pur temporanea- del governo Monti sta dimostrando che la politica è anche e soprattutto la capacità di trasformare le preferenze degli elettori e di spingerli persino a reinterpretare i loro propri interessi, riflettendoci sopra, fino a convincersi ad accettare misure che nel brevissimo termine sembrano contraddire sia le loro preferenze che i loro egoismi. La politica non è lo sciroppo dei sondaggi ma un processo che prevede, in democrazia, il mutare dei giudizi attraverso la discussione, il confronto, la riflessione. Le opinioni cambiano, evolvono, tengono conto dell’interesse generale e del futuro, non solo dei propri immediati interessi. Questo è dimostrato da un paradosso altrimenti incomprensibile: nella trasmissione televisiva “Ballarò” del 28 febbraio scorso Pagnoncelli ha rivelato che in un’indagine IPSOS il 35% di elettori del centro-destra vorrebbe Monti leader del proprio schieramento nelle elezioni del 2013 e –nello stesso tempo- il 25% di elettori del centro-sinistra vorrebbe come proprio leader lo stesso Monti. Una vecchia talpa sta scavando solchi interessanti.

Quanto ai programmi faccio riferimento –per spiegare le mie idee- a quanto ho già scritto in due articoli pubblicati sul mio Sito nel gennaio 2010 e nel febbraio 2011, “La responsabilità dell’esempio. Un impegno che la “casta” non vuole assumere” e “Il Partito Democratico sarà un partito riformista? Il Partito Democratico sarà un partito?”. Però non è inutile ripetere che l’Italia, come e più degli altri paesi europei, è obbligata –se vuole avere un futuro accettabile di progresso- a riconsiderare il proprio rapporto con la politica, a ricostruire il tessuto sociale, a ridefinire la propria collocazione in Europa e nel mondo globalizzato: bisogna dare vigore a una vera democrazia, favorire la ripresa della crescita su nuove premesse, formare le élite dirigenti, modernizzare lo Stato e l’amministrazione pubblica, garantire una ripresa demografica e le modalità del vivere civile. Per quello che riguarda, infine, il problema del costo della politica leggiamo le interessanti note di Pirani e discutiamole.

Gennaro  Cucciniello

 

“E’ stata smentita da tempo la voce popolare che Berlusconi, essendo ricco di suo, non si sarebbe profittato dei beni pubblici. Voce del resto falsa in nuce perché non esiste ricco che si proponga limiti all’insù all’impinguarsi dei propri beni. Il nostro lo ha ampiamente provato con le leggi ad aziendam, come la sterilizzazione del falso in bilancio, coi processi per impadronirsi della Mondadori comprando i giudici, con l’appoggio dato ad ogni parlamentare accusato di corruzione, da Cosentino a Papa. Ma sottostante ai singoli fatti, vi è un contesto di favoreggiamento generalizzato, individuabile nel tradimento dell’impegno liberale che innalzò al momento della sua scesa in campo e ribadì ad ogni elezione. Sarebbero dovute seguire a pioggia privatizzazioni e liberalizzazioni che sgravassero migliaia di enti pubblici, parapubblici, municipalizzate dalla presa dello Stato e di apparati pletorici di nomina partitica. E’ accaduto esattamente il contrario.

Purtroppo la sinistra, pur battendosi senza sosta contro Berlusconi sui singoli fatti, si è lasciata invischiare e infettare dalla tentazione pubblicistica social-affaristica. Ora ne vive la contraddizione. “Il mio partito” –ha detto Walter Veltroni- “dovrebbe mettersi alla testa della riforma dei costi della politica, non subirla”. Non poteva, però, dare una risposta esauriente del perché il Pd, al dunque, come è accaduto quando si è astenuto con somma e imperdonabile dabbenaggine sull’abolizione delle Province, si comporti in genere come un devoto timoroso di uscire dal solco dell’ortodossia partitica. Una ortodossia che ha sempre imposto il dogma dell’intangibilità dei propri privilegi, pretendendo che vengano identificati coi valori della democrazia. Fuori da quel solco scatta l’anatema contro populismo e demagogia. Di qui la tendenza alla responsabilità condivisa, a cercare tutti assieme, destra e sinistra, pasticciate e caute modifiche.

Ma torniamo alla domanda sul perché il principale partito di sinistra abbia finito per far propria una così sgradevole connivenza, senza tenere, per contro, ben salda una forte e continua battaglia riformista, la cui carenza suscita una tale rabbia e delusione che questo punto ha sfondato su Facebook con 150mila contatti in un giorno contro i benefici castali degli inquilini del paese dei balocchi, sito a Montecitorio. Il fenomeno regressivo subito dal Pd impone comunque non desolate battute ma una risposta impietosa, nell’ipotesi che sia ancora possibile finirla con la stanchezza organica che spegne ogni sua capacità reattiva sul terreno dei costi della politica.

Alla radice vi è la perdita di ogni memoria di sé di in partito che, malgrado il veleno dello stalinismo, era portatore di una morale pubblica che lo distingueva dagli altri per l’austerità di una militanza individualmente non compromessa neppure dall’”oro di Mosca” e dalle sovvenzioni delle coop, necessari per l’azione ma non certo per rimpinguare gli stipendi dei funzionari politici, parametrati con orgoglio sul salario di un operaio metalmeccanico mentre i parlamentari versavano a Botteghe Oscure una quota massiccia dei loro emolumenti, i sindaci ricevevano indennità risibili, nulla spettava per consiglieri comunali ed altri incarichi elettivi. Certo, tutto questo comportava il risvolto negativo di sentirsi parte di una specie di “anti-Stato etico”, che spinse Berlinguer all’esaltazione isolazionista del “partito diverso”, ma anche permise ad Occhetto di decidere l’uscita dei propri rappresentanti dai comitati di gestione delle Usl per non lasciarsi coinvolgere dalla mala gestione sanitaria. Analogo il discorso per gli eredi democristiani di La Pira e Dossetti.

Tutto ciò appartiene al passato. Il PCI è scomparso, la sua eredità è andata dilapidata non solo nel tanto che doveva giustamente essere rigettato ma anche in quelle qualità cancellate dalla memoria ufficiale ma non dal ricordo, magari per storia riportata, di tanta parte dell’elettorato di sinistra che si sente doppiamente tradito, per ieri e per oggi. Quanto al Pd non ha saputo darsi un volto né trovare un’anima davvero riformista che lo ispirasse. Di qui una mancata percezione della realtà, una incapacità di conoscere e capire passioni, sentimenti e pensieri, non pretendiamo della società italiana nel suo assieme, ma neppure di quella parte che ancora lo vota e che, anche se non lo considera più una forza propulsiva, lo conserva nelle sue attese come un patrimonio in gran parte inutilizzato ma ancora spendibile. A condizione che i suoi depositari si rendano conto che non possono più avallare sacrifici dolorosissimi imposti a quanti lavorano nella sanità, nella scuola, nella funzione pubblica, nelle fabbriche, ai giovani privati di futuro se questa richiesta è presentata da signori che incassano tra stipendi, vitalizi, benefici di vario ordine sui 20mila € al mese. Che differenza umana e capacità professionale c’è tra un professore che non supera i 1700 € mensili e un deputato, un consigliere regionale, uno delle centinaia di migliaia di consulenti, presidenti, vice presidenti e quant’altro la fantasia amministrativa abbia suggerito, personale questo spesso dequalificato in modo oltraggioso?

E’ una domanda questa che potrebbe scadere nella demagogia se questi sacrifici –e gli altri più gravosi che seguiranno- non facessero parte di un piano di salvezza nazionale e di rientro da un debito mostruoso che obbliga al concorso di tutti. Nessuno si può rifiutare perché la Patria è in pericolo, ma questa realtà obbliga tutti a fare la loro parte, non con gesti simbolici che suonano come pubbliche offese ma con atti dirompenti che ridiano un paragone di decenza ai rappresentanti del popolo.

Si tratta di proporre e affermare misure drastiche, la prima delle quali deve essere il dimezzamento netto di tutti gli stipendi ed emolumenti legati alle funzioni di rappresentanza. Eguale decisione deve essere estesa a tutti gli incarichi politici di ogni ente pubblico e parapubblico. Cessazione, inoltre, di ogni benefit, collegato alla rappresentanza, se non per le alte cariche dello Stato e degli Enti locali: ad es. auto blu al ministro ma non al sottosegretario. E così via. Queste proposte e altre che potrebbero seguire non avrebbero alcuna possibilità neppure di un primo ascolto se fossero affidate alle defatiganti quanto improduttive procedure parlamentari, tanto più con conclusioni trasversali. No, solo un rivoluzionario sussulto di una sinistra baciata dal risveglio e da una volontà di salvezza potrebbe produrre lo scatto indispensabile. Anche l’arma deve assumere una valenza estrema e combattiva e consistere in una proclamazione unilaterale impegnativa: in caso di mancato accordo il Pd, a partire da Senato e Camera e scendendo per li rami, procederà da subito all’applicazione dei tagli decisi per i propri rappresentanti. I proventi mensili, fino a quando non coinvolgeranno gli altri partiti (nel qual caso servirebbero a sanare il deficit pubblico), saranno destinati a una Fondazione del Popolo di Sinistra, presieduta da uno scelto consesso di persone sagge e specchiate, che li spartiranno secondo criteri di solidarietà sociale da stabilire. La polemica verso i refrattari dovrebbe assumere toni giacobini, senza tema di incorrere nel peccato di populismo.

Reputo che simili proponimenti –così alieni al mio abituale modo di pensare- stupiranno più di un lettore. Essi derivano da una visione altamente drammatica di un possibile futuro, non esclusa una deriva di estrema destra in Italia e in altre nazioni europee, colpite da una crisi economica difficilmente governabile. Non dimentichiamo che la catastrofe degli anni Trenta del ‘900, importata dagli USA, esplose in Europa per l’effetto-domino del fallimento di una banca austriaca, cui neppure l’intervento delle Banche Centrali di Inghilterra e di Francia bastò a mettere argine. Regimi autoritari si stabilizzarono in quasi tutto il continente.

Sono però altresì convinto che la Storia alla lunga non insegni nulla ai posteri, tanto più a una classe sociale (come chiamarla “classe politica”?) formata da un milione e più di persone che vivono e dominano grazie a una gestione della partitocrazia fine a se stessa, priva di ogni altra professionalità, nominata dall’alto, decisa a non rinunciare anche in modo spudorato a ricchezza e simboli del potere. Un’impresa che solo il recupero possente di una forza propulsiva può tentare. Sarà in grado la sinistra di esprimerla, gravata com’è da un inquinamento da contiguità che ne ha infiacchito risorse e fantasia?

Malgrado i molti dubbi una speranza c’è. Essa scaturisce dall’insperato sussulto di ripresa comprovato dalle elezioni amministrative, dai referendum e persino dalla marea di mail di questi ultimi giorni. Il segno che più conta è che questa esplosione diffusa avviene inglobando il Pd ma superandone, a un tempo, i limiti, le paure, le anchilosi e le divisioni paralizzanti come se il popolo di sinistra, colpito ma non domo, stia esercitando una Opa benefica e s’impadronisca degli strumenti della politica, depurandoli anche dall’estremismo dei gruppi minori. La situazione è in equilibrio: se il Pd ne coglie l’onda può trascinare popolo e movimenti, alleanze nuove e formazioni risorte in un moto di salvezza dell’Italia. Non è detto, però, che questo avvenga”.

                                                                                  Mario  Pirani

 

Negli stessi giorni il settimanale “L’Espresso” del 14 luglio 2011 pubblicava un articolo di Paolo Flores d’Arcais intitolato “Una cura radicale per la casta”. Il giornalista avvertiva che i politici promettono sempre di tagliare i privilegi ma poi non fanno nulla. Solo una proposta choc poteva avere successo. Eccola: una sola Camera con 100 deputati, via le province, un solo incarico alla volta. Può essere interessante riprodurre  questo contributo, anche alla luce dei contatti ravvicinati che in questi ultimi giorni si sono segnalati tra le forze politiche che appoggiano l’esperienza del governo Monti d’emergenza nazionale.

 

“Riprendo una proposta di riforma istituzionale che ho avanzato 25 anni fa, alle origini di “Micromega”, e che mi sembra quanto mai attuale per passare dalla Casta a una politica di rappresentanza democratica decente.

Una sola Camera legislativa composta di cento deputati. In tal modo sarebbero molto più autorevoli e soprattutto molto più controllabili dai cittadini. La seconda Camera diventerebbe una sorta di Senato di difensori civici che partecipa, in una seduta comune con la prima, all’elezione dei vertici dello Stato come il presidente della Repubblica e i giudici costituzionali, che promuove commissioni d’inchiesta e “udienze” su ogni tipo di nomina (a partire dai ministri) sul modello del Senato americano, e che è formata dai cinquanta sindaci delle città più grandi, per l’intera legislatura, e da altri cinquanta di quelle meno grandi estratti a sorte e a rotazione ogni anno ( i sindaci possono volta a volta indicare un rappresentante).

Tra le varie cariche dovrebbe vigere la più rigorosa incompatibilità: deputato europeo, deputato nazionale, consigliere regionale; si può coprire un solo incarico alla volta, chi ha una carica non può neppure candidarsi per le altre (se vuole, si dimette prima). Dopo due mandati non si è più rieleggibili, si torna nella società civile. La funzione di ministro e quella di parlamentare dovrebbero anch’esse escludersi, sul modello francese e americano, prendendo sul serio la divisione dei poteri tra legislativo ed esecutivo. I ministri sarebbero così un po’ meno proni alle esigenze clientelari. L’immunità parlamentare ristretta al solo caso di arresto, bloccabile solo con maggioranza qualificata (due terzi): altrimenti decide la Corte Costituzionale se c’è o meno “fumus persecutionis”.

Le province andrebbero abrogate, il numero dei dirigenti nei comuni e nelle regioni legato a parametri fissi come la popolazione, proibito il ricorso alle costosissime consulenze (spesso sono solo tangenti mascherate) e alle nomine fuori concorso. Il conflitto di interessi andrebbe reso in aggirabile, affidando l’applicazione della legge del 1957 alla magistratura. La politica andrebbe finanziata esclusivamente “in natura” (risorse comunicative eguali per tutti i contendenti).

Senza lotte è utopia. Con le lotte, è programma di governo popolare e dunque vincente”.