Viaggio in Italia guidati da Dante

Viaggio in Italia guidati da Dante

A ridosso del 700° anniversario della morte del nostro grande poeta il critico Giulio Ferroni, in un suo saggio, adotta Dante come bussola per esplorare il Paese Italia.

 

Mi è stato facile, in giorni di reclusione, rifugiarmi in un libro come “L’Italia di Dante” recentemente pubblicato dal mio amico Giulio Ferroni (La nave di Teseo). Più di mille e cento pagine, un libro totale che realizza l’idea di mettere a confronto i due estremi di un’esperienza intellettuale, letteraria e personale: da un lato la lettura della Divina Commedia, il primo e maggiore capolavoro della nostra letteratura, dall’altro la realtà storico-geografica dell’Italia di oggi. Così Ferroni ha trasformato un viaggio nel tempo in un viaggio nello spazio e ha estrovertito (rivolto all’esterno) la lettura del poema dantesco andando a vedere che cosa ne è oggi dei luoghi italiani che Dante nomina o a cui allude nella sua opera.

L’esperimento era paradossale e sfidava una lampante contraddizione. Dante è stato il più grande autore del Medioevo cristiano, che con lui si conclude, mentre noi viviamo da secoli in una lunghissima epoca fatta di epoche successive tutte in vario modo definibili moderne, nelle quali l’unità religioso-filosofica medievale è ripetutamente esplosa scontrandosi con l’immanentismo umanistico, la razionalità scientifica, il culto di un dinamismo storico progressivo e ininterrotto, e infine con l’individualismo della creatività e della rivolta. L’Italia di oggi è poi una nazione particolarmente frammentata e centrifuga, investita negli ultimi decenni dai processi di una post-modernità globalizzata che riproduce e consuma in forme ripetitive e svuotate l’intero patrimonio culturale della modernità.

Quello della Commedia dantesca è stato per l’ultima volta un mondo nel quale aldilà e aldiquà si sono compenetrati: un mondo trinitario e tripartito, che Dante descrive in terzine a rima incatenata in tre cantiche di trentatré canti infernali, purgatoriali e paradisiaci, più il primo di introduzione. Il pathos che attraversa il libro di Ferroni è perciò quello di un confronto impossibile, eppure inesauribilmente suggestivo, fra un cosmo medievale strutturato e conoscibile da cima a fondo e il nostro mondo tanto globalizzato dalla comunicazione e dagli scambi quanto privo di finalità sociali e di conoscenze stabili.

Il punto di vista di Dio

Dante non ignorava certo i conflitti: li sentiva anzi drammaticamente e ne era stato vittima come fiorentino condannato a morte e all’esilio perpetuo dalla sua amata città. Ma lo specchio oltremondano, che rivelava il destino finale del mondo di quaggiù, per lui non solo esisteva, era anche più reale della realtà mondana, ristabilendo ordine e giustizia. Al suo sogno di esule, che di giustizia era assetato, veniva promessa una realizzazione che la filosofia e la teologia dell’epoca garantivano. Il suo punto di vista di sconfitto poteva perciò razionalmente coincidere con il punto di vista di Dio, un punto di vista gloriosamente vittorioso.

Avere Dante, sommo e sommamente remoto, come primo e maggiore dei nostri classici, ha certo creato problemi a noi italiani. Forse un libro così singolare come questo “L’Italia di Dante” nasce anche da questi problemi: da lacerazioni, declini storici e sconfitte politiche che hanno segnato tutta la nostra storia. Quando a metà Ottocento Francesco De Sanctis, reinventando da patriota risorgimentale la storia morale e civile italiana come storia letteraria, cercò di proiettarla in un migliore futuro nazionale, fece di Dante il suo baricentro e il criterio dei suoi giudizi critici. Dante era per lui la prima radice di una nuova Italia.

Lascio al lettore decidere quanto nuova sia stata l’Italia unita dal 1861 a oggi, o quanto invece afflitta dai suoi mali di sempre: al primo posto una esasperante conflittualità endogena e autodistruttiva, accompagnata da una inguaribile carenza di razionalità sociale e politica. Il giudizio di Ferroni in proposito compare solo saltuariamente in primo piano, ma credo che sia all’origine del suo libro. Nessuno scrittore italiano o europeo è stato come Dante un giudice severo dei suoi contemporanei. Il fatto che Ferroni abbia voluto dare al suo viaggio in Italia la forma di una rilettura di Dante rivela la misura del suo pessimismo e del suo sconforto.

Eppure l’amore per l’Italia nel libro non manca mai. E’ un amore scisso e doloroso tipicamente italiano. Se il viaggio è stato soprattutto felice è perché l’Italia si offre agli occhi del viaggiatore Ferroni come un vertiginoso palinsesto di stratificazioni storiche nel quale ci si perde e in cui il miraggio della bellezza come promessa di felicità riaffiora sempre nei suoi innumerevoli, abbaglianti tesori artistici. Città, borghi, cattedrali, palazzi, opere pittoriche, memoria di una miriade di vicende remote e di microcosmi scomparsi, la cui rievocazione erudita crea di per sé effetti di allucinazione fiabesca.

Napoli, Roma, Firenze

Nei capitoli iniziali e fondamentali del libro, centosessanta pagine dedicate a Napoli, Roma e Firenze, la vertigine storica tocca subito il suo culmine. A Napoli, alla ricerca della tomba di Virgilio, deuteragonista della Commedia, si incontra anche un classicista romantico come Leopardi e sembra di avere in visione sinottica l’intera tradizione occidentale, dall’antichità classica alla sua rinascita e al suo tramonto.

Roma, enciclopedia del cristianesimo cattolico, del Rinascimento e del classicismo, dopo essere stata il centro di un impero che andava dalla Britannia al mar Caspio, “è stata la città per eccellenza dove è nato il concetto stesso di “civitas”, di società civile”. Alle soglie del Paradiso è Beatrice, figura del sapere divino, che dice a Dante: “e sarai meco senza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano”: sintesi oggi per noi incredibile di cristianesimo e romanità, di una Roma imperiale e poi papale come agostiniana Città di Dio.

Al terzo posto Firenze, patria di Dante, “amata e vissuta, dolorosamente abbandonata, riprovata e maledetta per le colpe dei suoi cittadini”; evocata con bruciante nostalgia in una canzone dell’esilio: “O montanina mia canzon, tu vai:/ forse vedrai Firenze, la mia terra,/ che fuor di sé mi serra,/ vota d’amore e nuda di pietate”. Firenze senza pietà e senza amore: con questo triste rapporto fra scrittori e patria è nata la letteratura italiana.

(Articolo scritto da Alfonso Berardinelli, pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” dell’8 maggio 2020, alle pagine 86-87)

 

Nei mesi successivi è stato pubblicato il nuovo saggio di Aldo Cazzullo su Dante, “A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia” (Mondadori). L’autore tratta il grande poema della “Divina Commedia” come se fosse un romanzo, lo svolge cioè in un racconto. Si perde tutta la parte esegetica e filologica sulla quale si sono affaticati decine di grandissimi commentatori e milioni di studenti, ma si guadagna uno sguardo che rende Dante nostro contemporaneo, ora che sta per arrivare nel 2021 il settecentesimo anniversario della morte del nostro grande poeta. Augias così annota il libro di Cazzullo: “Dante è l’uomo che ha inventato l’Italia. Non solo la sua lingua per la decisione stupenda di scrivere in “volgare” invece che in latino. C’è nella “Commedia” un’idea dell’Italia, il bel Paese dove il sì suona, l’erede dell’Impero Romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, sta per nascere la modernità”.

                                                                  Gennaro  Cucciniello