25 dicembre 1991. L’Urss è morta, Lenin è vivo?

25 dicembre 1991. L’Urss è morta, Lenin è vivo?

Nell’inverno di trenta anni fa, dopo il fallito golpe di agosto, si disintegrò l’Unione Sovietica, uccisa dalle spinte centrifughe delle Repubbliche.

 

Per riflettere su quegli eventi “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera, nel numero del 5 dicembre 2021, alle pp. 10-13, pubblica un’intervista-dibattito con tre storici, Andrea Graziosi, Silvio Pons, Antonella Salomoni. Emerge un dato molto interessante: il comunismo si è rivelato fallimentare sotto il profilo economico, ma il modello del partito-Stato resiste bene, come dimostra l’esperienza cinese. E’ utile la consultazione del saggio a cura di Antonio Carioti, “Urss addio. 1991, la fine dell’Unione Sovietica”, Corriere della Sera. I contenuti della discussione non fanno prevedere i drammatici sviluppi causati dall’aggressione russa all’Ucraina nel febbraio 2022.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

Trent’anni fa crollava l’Urss. Dopo il golpe dei conservatori abortito nell’agosto 1991, la disgregazione divenne inarrestabile e il 25 dicembre la bandiera rossa fu ammainata al Cremlino. Abbiamo chiamato a riflettere su quegli eventi tre studiosi: Andrea Graziosi, autore di una “Storia dell’Unione Sovietica” in due volumi (il Mulino); Silvio Pons, curatore con Robert Service del “Dizionario del comunismo nel XX secolo”, anch’esso in due volumi (Einaudi); Antonella Salomoni, autrice del saggio “L’Unione Sovietica e la Shoah” (il Mulino).

Come mai il regime sovietico cede così facilmente nel 1991?

Graziosi. Il crollo dell’Urss si concentra tra il fallito golpe di agosto e il dicembre 1991, quando il referendum ucraino per l’indipendenza avvia la dissoluzione finale. Tuttavia, in una prospettiva più ampia, si può dire che l’Urss muore con il naufragio delle riforme economiche, già evidente alla fine del 1987. I membri attivi della dirigenza sovietica all’inizio degli anni Ottanta erano convinti che il sistema avesse bisogno di mutamenti radicali. Furono tutti a favore della perestrojka voluta dal segretario del Pcus Mikhail Gorbaciov, anche se ne davano interpretazioni diverse. Solo che il tentativo s’incagliò presto e i dirigenti del partito a quel punto cercarono zattere di salvataggio, trovate infine cavalcando le spinte indipendentiste nelle varie Repubbliche. Questo spiega anche la fragilità del golpe, che nell’agosto 1991 viene attuato da uomini che in precedenza avevano collaborato alle riforme. Erano consapevoli di quanto il sistema fosse inefficiente e si erano illusi di rilanciarlo con uno sforzo volontaristico. Ma quel progetto si rivelò inattuabile e a partire dal 1988 si diffuse un senso di sbandamento ben visibile anche nelle mosse confuse dei golpisti, i quali non sapevano letteralmente cosa fare. Dopo il primo annuncio della deposizione di Gorbaciov, alcuni si ubriacarono, altri caddero nella più assoluta inerzia. Emerse una totale sfiducia nel sistema da parte di chi lo guidava.

Pons. Per capire il collasso sovietico è necessario combinare fattori soggettivi e congiunturali con processi di più lungo periodo. Bisogna considerare le divisioni che si creano già negli anni Sessanta nel movimento comunista internazionale e il declino del mito sovietico negli anni Settanta. Dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, sul piano interno si liquidano le idee di riforma e non si trova altra soluzione che l’autoriproduzione di un sistema stagnante. In fondo il socialismo reale  la vera vittima dello shock petrolifero degli anni Settanta. I paesi satelliti dell’Urss si trovano indebitati fino al collo con l’Occidente e Mosca non ha le risorse per tenerli a galla. I dirigenti del blocco sovietico sperimentano così una forte perdita d’identità, sentono di non avere più un ruolo.

Però poi arriva Gorbaciov.

Pons. Il nuovo segretario del Pcus dà priorità alle riforme politiche rispetto a quelle economiche. E in un certo senso ha anche successo. Se c’è un leader che ha svolto un ruolo decisivo nel fare finire la guerra fredda è stato lui. Solo che Gorbaciov è vittima del suo successo, perché la riforma politica si rivela destabilizzante: introduce cambiamenti radicali in un sistema che non li tollera. Il risultato è l’impasse del programma riformista, su cui s’innesta l’effetto destabilizzante della caduta del Muro di Berlino. Ma da un altro punto di vista, se l’Urss finisce in modo relativamente pacifico, possiamo serenamente affermare che il merito va riconosciuto a Gorbaciov.

Graziosi. Concordo sul ruolo storico positivo di Gorbaciov, ma vorrei precisare che egli partì con le riforme economiche e solo in seguito, a causa del loro fallimento, introdusse radicali cambiamenti politici. Prima provò a riformare il sistema usando il Pcus, poi si rese conto che non era possibile.

Pons. Però non scelse il modello cinese, basato sull’apertura al mercato e il mantenimento della dittatura.

Graziosi. Il fatto è che Gorbaciov era allora davvero un progressista, che credeva in una sua idea di democrazia partecipativa.

Salomoni. L’implosione dell’Urss è un fatto improvviso e inaspettato, malgrado vi concorrano anche fattori di lungo periodo. L’Unione Sovietica era uno Stato i cui elementi costitutivi si connettevano in un insieme ideologicamente organico: le pratiche di governo funzionavano in modo conforme alla logica della teoria di fondazione. Nel XX secolo non ci sono casi simili, perlomeno riguardo alla durata del sistema.

E le riforme di Gorbaciov?

Salomoni. Il segretario del Pcus, eletto nel 1985, si avvale di personalità che godono di grande prestigio in campo accademico, ma anche di politici e diplomatici che erano stati messi da parte per il loro orientamento liberale, come Aleksandr Jakovlev. Senza contare atti dirompenti sotto il profilo simbolico, come il ritorno dal confino nel 1986 del fisico dissidente Andrei Sakharov, che però poi muore nel 1989 poco dopo essere stato eletto al parlamento. Gorbaciov vuole favorire il costituirsi di un’opinione pubblica per mobilitare ampi settori della società in appoggio alle riforme. Nel giro di pochi anni l’ideologia di Stato entra in crisi: una premessa importante per capire il crollo sovietico. Va aggiunto che nel tentativo di promuovere una nuova élite riformista, in parte riuscito e in parte no, Gorbaciov non avrà successori. Non mi pare che Eltsin lo abbia seguito su quella strada.

Il sistema sovietico era davvero socialismo, magari l’unico possibile?

Graziosi. Sono favorevole a chiamare i sistemi politici con il nome che si danno, come ci insegna la filologia. L’Urss si è proclamata il primo Stato socialista della storia e ha dato vita al blocco socialista. Toglierle quella qualifica significa negare la sua auto rappresentazione e in definitiva la sua storia. Poi se si vuole dire che il socialismo dell’Urss non era quello perseguito da altri Paesi in Occidente, è un discorso diverso.

Che rapporto aveva con il capitalismo?

Graziosi. Alcune coordinate sono simili: l’urbanizzazione di massa, l’industrializzazione, lo sviluppo dei sistemi educativi. Il modello sovietico rientra nell’esperienza della modernità novecentesca, tanto che negli anni Sessanta alcuni, Sakharov incluso, ipotizzarono una convergenza con l’Occidente. Si trattava però di una modernità diversa. Quello sovietico era un sistema chiuso, gerarchizzato, regolato da ordini calati dall’alto, che ha a lungo relegato la popolazione rurale in uno status di seconda classe. Solo nel 1974 i contadini ricevettero il passaporto interno. Fino ad allora non potevano spostarsi dal luogo di residenza. Io non credo che socialismo e capitalismo esistano nella realtà, sono soprattutto costruzioni mentali. Però l’Urss ha rappresentato una modernità diversa da quella occidentale. Quando la prima è crollata, la seconda si è illusa di avere vinto ed è invece entrata a sua volta in crisi.

Si poteva riformare l’Urss?

Graziosi. Era davvero difficile, e impossibile sul piano socio-economico, se non con una rottura radicale. Il confronto con la Cina fa capire molte cose. Nel 1956 Nikita Krusciov scelse di condannare i crimini di Stalin conservando però il sistema socio-economico da lui costruito. Era ancora convinto che il socialismo sovietico fosse superiore al capitalismo e lo avrebbe superato. In Cina, solo 20 anni dopo, Deng Xiaoping non condannò il despota defunto Mao Zedong, anzi ne sacralizzò la figura, benché in privato lo criticasse. Nel contempo, però, demolì il sistema socio-economico maoista, pur conservando la dittatura. Krusciov sul piano economico fallì, anche se moralmente fu più coraggioso di Deng, perché scelse di dire la sua verità su Stalin. Il leader cinese però fu molto più accorto: capì che il sistema politico dittatoriale poteva essere mantenuto, mentre quello economico collettivista andava smantellato.

Pons. Non mi ha mai appassionato il dibattito circa la natura socialista o meno dell’Urss. Credo anch’io che sia opportuno chiamarla con il nome che si era data. Siamo in presenza di un’ideologia, di una pratica statale, di un’economia che vogliono essere alternative al capitalismo e in una certa misura ci riescono. Il mito sovietico fa velo alla realtà, ma ne riflette anche alcuni aspetti. E’ un progetto di modernità non capitalistica, costruito anche con una spaventosa violenza di massa, ma dotato di una sua legittimità. Non so se sia l’unico modello socialista possibile, perché la storia si può inventare soluzioni nuove che noi oggi non immaginiamo. Ma certo quello sovietico è stato il grande esperimento socialista del XX secolo, più della socialdemocrazia, che pure ha raggiunto traguardi superiori di civiltà e qualità della vita.

Sarebbe stato possibile reindirizzare l’Urss verso un socialismo diverso?

Pons. Forse negli anni Ottanta il sistema non era più riformabile, ma non sono così sicuro che fosse impossibile intervenire con successo in una fase precedente. Anche il raffronto con la Cina dimostra che una strada diversa era percorribile. Deng abbandona il modello economico di stampo sovietico, ma conserva la supremazia del partito-Stato, la grande invenzione di Lenin. In fondo quella che realizza è una riforma autoritaria nella continuità del sistema. E se noi accettiamo l’autodefinizione del socialismo sovietico per il XX secolo, non vedo perché dovremmo rifiutare quella dello Stato cinese per il XXI. Forse perché Pechino ha un’economia capitalistica? E’ vero, ma in Cina rimane un’architettura del potere mutuata dal modello leninista. Si tratta di un ibrido che tra l’altro rende difficile rispondere nettamente in modo negativo alla domanda circa la riformabilità dei sistemi socialisti, anche se il programma di Gorbaciov si è dimostrato irrealizzabile perché il sistema sovietico non era in grado di reggerlo. Vorrei poi aggiungere un paio di cose su ciò che ha detto Salomoni.

Di che si tratta?

Pons. E’ vero che lo Stato sovietico aveva un forte fondamento ideologico, ma questo è un dato che ritroviamo anche altrove. E’ esistita un’ideologia del colonialismo europeo, così come una degli Usa e del destino americano. L’Urss in più aveva un apparato ideologico, una burocrazia che controllava non solo le persone, ma lo stesso linguaggio. E l’ideologia non è sempre la stessa, muta nel tempo, ha una storia. La stessa autodefinizione di socialismo reale segna una normalizzazione rispetto agli slanci utopistici. Era un modo per dire: siamo una società migliore di quella occidentale, ma non quella che avevano promesso i padri della patria sovietica. Lo stesso tentativo di Gorbaciov è piuttosto contraddittorio. Fino a un momento tardo persegue un progetto di democrazia monopartitica, non certo liberale.

Salomoni. Senza dubbio l’ideologia sovietica si evolve, ha una storia, ma io volevo sottolineare soprattutto che è strutturata organicamente. Nonostante le sue trasformazioni, c’è un nucleo originario che resta, che aiuta il sistema a funzionare, legittimandolo, e al tempo stesso lo condiziona, ostacolando i progetti di riforma. Quanto ai caratteri del regime, negarne la natura socialista è ciò che ha subito fatto la socialdemocrazia, che intendeva separare i suoi ideali dall’applicazione che ne era stata fatta in Russia. E che, così facendo, ci ha insegnato molto. Penso al menscevico Julij Martov, che parla di atavismo ideologico per definire la tendenza dei bolscevichi a procedere per schemi elementari, finalizzati a soddisfare i bisogni della popolazione, senza analizzare la sostanza dei problemi e senza interrogarsi sull’immaturità della Russia rispetto alla prospettiva di una transizione al socialismo. Pur con le dovute differenze, ho l’impressione che oggi Vladimir Putin segua una logica simile quando non ragiona in termini di diritti dei cittadini, ma si pone come obiettivo principale il soddisfacimento dei bisogni della popolazione.

Graziosi. Due grandi lasciti del leninismo sono ancora vivi. Un è il partito-Stato, l’altro è l’affermative action, cioè la pratica, adottata in Urss fin dagli anni Venti, di promuovere con quote riservate la rappresentanza di strati della popolazione che si ritengono svantaggiati per ragioni sociali, nazionali o anche sessuali. Il lascito quindi c’è, gigantesco, anche se non sempre evidente. Mi domando però che cosa abbia a che fare con il socialismo tradizionale, che si definiva come un sistema economico. Nelle teorie di Marx il primato va ai modi di produzione, dei quali la politica è considerata sostanzialmente un riflesso. Quando parlavo di irriformabilità del sistema sovietico, mi riferivo a questo.

Come possiamo valutare l’operato di Gorbaciov e del suo rivale Eltsin?

Graziosi. Il mio giudizio è sostanzialmente positivo su entrambi, perché hanno evitato la catastrofe. E questo vale persino per i golpisti dell’agosto 1991, che rifiutarono di usare la forza. C’è un’enorme differenza tra la classe dirigente sovietica e quella jugoslava, che è colpevole in blocco per l’abisso di violenza in cui ha gettato il suo Paese. Oggi Gorbaciov e Eltsin (più il primo del secondo) sono colpiti in Russia da un’ingiusta damnatio memoriae: anche se Putin ha ricevuto il potere dal suo predecessore e non lo attacca, tutta la retorica del Cremlino fa leva sul ritorno all’ordine dopo gli anni del caos, quelli di Eltsin. Quest’ultimo e i suoi uomini erano tutti figli del regime sovietico. Erano un’élite di notevole intelligenza, ma di grande ignoranza. Se c’è una dote che non mancava a Eltsin era il coraggio. Basti pensare al modo in cui scese in piazza nei giorni del golpe. E pensate che coraggio ci volle a firmare, nell’inverno 1991-1992, i decreti che liberalizzavano i prezzi. Tutti pensavano che in Russia ci sarebbe stata una terribile carestia. Invece nessuno morì di fame.

Però le critiche a Eltsin riguardano soprattutto il suo operato successivo.

Graziosi. I suoi errori sono evidenti, primi fra tutti il bombardamento del parlamento russo e la guerra in Cecenia, che a mio avviso hanno posto le basi per l’involuzione autoritaria successiva. Il sistema che Eltsin costruisce allora, molto prima che arrivi Putin, è fondato sull’ex apparato del Comitato centrale del Pcus, che passa in blocco al servizio della presidenza russa. La continuità è fortissima.

Era inevitabile?

Graziosi. Direi estremamente probabile. In Italia il fascismo è durato vent’anni e alla sua caduta c’era una classe dirigente che poteva subentrare. In Germania il nazismo è durato solo dodici anni. Eppure abbiamo fatto lunghi dibattiti sulla continuità dello Stato nel caso italiano e in quello tedesco, sul fatto che prefetti, diplomatici e magistrati erano gli stessi che avevano servito sotto la dittatura. Poteva andare diversamente in Russia, dopo un regime durato 74 anni? L’unica élite disponibile negli anni Novanta è quella ereditata dall’Urss, la quale sa che il vecchio sistema è fallito, ma non ha idea di come edificarne uno nuovo.

L’Occidente è responsabile per l’involuzione autoritaria della Russia?

Graziosi. C’è chi lo sostiene, ma io non sono d’accordo. L’Occidente ha aiutato la Russia, forse meno di quanto si poteva auspicare, ma comunque molto. Pensate allo smantellamento dell’arsenale nucleare kazako e ucraino, che è avvenuto a spese degli Usa.

Ma la Russia ha sofferto molto.

Graziosi. Senza dubbio, ma i costi non possono essere addebitati alle scelte disperate dei governanti di allora, perché derivavano dai guasti accumulati in 74 anni di regime sovietico. Eltsin ha commesso molti errori, ma ha tenuto la barra dritta sulla via delle riforme.

Pons. Io la vedo un po’ diversamente. Tendo innanzitutto a pensare che la morte di Sakharov alla fine del 1989 sia stata una mezza sciagura, perché ha indebolito il movimento democratico e ha lasciato spazio a Eltsin, un avventuriero che trova consenso approfittando della paralisi delle riforme gorbacioviane, ma senza avere un chiaro progetto politico, se non la rivendicazione improvvisata della sovranità della Russia rispetto all’Urss. Certo, è coraggioso; al momento del putsch di agosto non si piega e percepisce la debolezza dei golpisti. Diventa così la personalità che detta le regole a tutti. Compreso Gorbaciov. Però Eltsin si comporta come un tribuno populista, dalla linea contraddittoria. Da una parte promuove l’integrazione della Russia nel mondo globalizzato. Dall’altra instaura un potere che giunge al punto di bombardare il parlamento riottoso.

C’era un’alternativa?

No, non c’era una classe dirigente di riserva, specie dopo la morte di Sakharov. Così Eltsin diventa il garante di una metamorfosi semiautoritaria dei dirigenti comunisti in manager che privatizzano gran parte del patrimonio statale in forme che lasciano ampio spazio alla corruzione. Nel contempo il passaggio al mercato con una terapia shock, forse inevitabile, ha creato livelli di povertà probabilmente superiori a quelli già elevati dell’epoca sovietica. Non si moriva di fame, ma ricordo gli anziani che, nella Mosca del 1992-93, vendevano per strada i loro poveri beni perché non riuscivano più a mantenersi con pensioni svalutate. Si poteva procedere in modo meno doloroso per i più deboli? Sinceramente non lo so. Di certo non si può esimere Eltsin dalla responsabilità per quanto è accaduto. Anche l’avvento di Putin come uomo d’ordine è largamente dovuto alla sua inettitudine.

Salomoni. Tendo a evitare giudizi sulle persone, ma non mi sento di dare una valutazione positiva di Eltsin. E’ responsabile di una mancata discontinuità. Non c’è nell’ex Urss, specie in Russia, una giustizia di transizione. Non ci sono quelle che nell’Est europeo sono state chiamate “leggi di lustrazione”. L’apparato statale non viene epurato né vengono adottate restrizioni a carico di persone compromesse. Non è consentito un libero accesso agli archivi del Kgb. E non vengono avviati processi nei riguardi dei responsabili di abusi compiuti in epoca sovietica. Non si fa nulla per ristabilire i diritti violati. Nel 1992 Galina Starovoitova, leader del partito Russia democratica, propone un progetto di legge per la lustrazione, che prevede temporanee restrizioni dell’attività politica per gli ex dirigenti del Pcus, gli ex ufficiali del Kgb e altre figure coinvolte nella repressione. Ma nel 1998 Starovoitova viene assassinata a San Pietroburgo e la sua proposta è accantonata. Altri disegni di legge non hanno avuto migliore fortuna. Anche i decreti adottati da Eltsin dopo il 1991 per vietare il Pcus e confiscarne i beni vengono in gran parte annullati o mitigati dagli interventi della magistratura.

Trionfa l’impunità?

Salomoni. Non solo. E’ stato introdotto il divieto di rendere pubblica l’identità dei collaboratori del Kgb. Sono entrate in vigore nuove tipologie di segreto di Stato per proteggere gli informatori dell’intelligence. In definitiva, la transizione dall’Urss alla Russia è stata controllata dai vertici dello Stato in modo molto più rigido di quanto non si sia inizialmente compreso. Tutto il peso del passaggio è stato caricato sulle spalle della società civile, mentre lo Stato si è tirato indietro. E’ mancata una vera discontinuità, ad esempio per quanto riguarda la gestione dei servizi segreti. Il loro rapporto speciale con il potere è rimasto intatto: è ben nota la provenienza di Putin dal Kgb. E di questo esito Eltsin, per quanto gli si possano riconoscere alcuni meriti, ha una responsabilità grave, perché è stato un feroce e dichiarato avversario della giustizia di transizione.

Graziosi. Tutto ciò è vero, ma qual era l’alternativa? Pons ha nominato Sakharov, che però era una figura isolata. E’ come se in Italia la fase successiva alla caduta di Mussolini fosse stata gestita da ex gerarchi fascisti. Era impensabile che ex dirigenti del Pcus potessero attuare una giustizia di transizione. Forse era giusto in teoria, ma irrealistico. Eltsin aveva i suoi limiti, ma il suo vice Rutskoj era molto peggio, come erano peggiori i politici che andarono al potere nelle Repubbliche dell’Asia centrale. Del resto già Gorbaciov aveva organizzato la presidenza sovietica con gli uomini del Comitato centrale del Pcus e Eltsin non ha fatto altro che trasferirli alla presidenza russa.

E di Putin che si può dire?

Graziosi. Non è tanto espressione di questa continuità, quanto della crisi degli anni Novanta e del senso di umiliazione che pervase la società russa. La disgregazione dell’Urss fu vissuta come una tragedia e una sconfitta anche da coloro che la determinarono, compresi i presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia che posero fine all’Unione nel dicembre 1991. E si cominciò subito la caccia ai responsabili, dal traditore Gorbaciov agli occidentali. Inoltre, nella ricerca di una legittimazione storica per il nuovo Stato, si è inevitabilmente ripiegato sulla vittoria del 1945, che significa trionfo sull’aggressore nazista, ma sotto la guida di Stalin. D’altronde, mettiamoci nei panni dei russi, di un Paese rabbioso, immerso in una crisi sociale drammatica che si attenua solo grazie all’aumento dei prezzi petroliferi. Non stupisce che il consenso nazionale si ricomponga attorno a un’ideologia imperiale molto aggressiva. Anche perché sul piano militare l’Urss non è stata sconfitta e questo ne accentua il senso di rivalsa. Senza contare che la rivoluzione d’Ottobre ha allontanato la Russia dall’Europa, l’ha tenuta distante dall’evoluzione, sul piano del costume e dei diritti, che ha conosciuto l’Occidente.

Emerge un’anomalia russa?

Graziosi. C’è una peculiarità di quel Paese, che a noi appare sgradevole. Putin è stato probabilmente capace di commissionare omicidi. Ma se si va a Mosca, si vede che nelle città –nelle campagne è diverso- la gente oggi sta molto meglio rispetto agli anni Novanta e anche rispetto all’epoca della perestrojka, Tanto è vero che Gorbaciov è detestato. Comunque si è ricostituita una verticale del potere in senso autoritario. E non si tratta di un’eredità sovietica, ma di una conseguenza delle scelte compiute negli anni Novanta e Duemila dai vertici russi.

Pons. Per capire Putin bisogna considerare anche fattori successivi al crollo dell’Urss, ma la continuità di cultura politica con il regime comunista mi pare evidente. La scelta di richiamarsi alla vittoria nella Seconda Guerra mondiale era inevitabile, ma sta di fatto che corrisponde a una rivalutazione di Stalin e lascia ben poco spazio a un immaginario politico democratico. Quel po’ di democrazia che c’è stato in Russia tra Gorbaciov e gli anni di Eltsin è stato in gran parte cancellato.

Quindi Putin è un restauratore?

Pons. Se devo individuare una radice del suo regime, la vedo nella metamorfosi autoritaria di una parte delle classi dirigenti sovietiche, che si riciclano alla guida della nuova Russia, e nella capacità dell’attuale presidente di sfruttare a suo favore il sentimento di umiliazione nazionale. Putin è stato a lungo popolarissimo, anche se oggi appare una sorta di dittatore sedicente democratico ormai al crepuscolo.

Si poteva evitare l’umiliazione della Russia?

Pons. Non saprei. Ma non mi pare che l’Occidente si sia posto più di tanto il problema. Non c’è stato alla fine della guerra fredda niente di simile a quello che gli Usa fecero nel 1945 per aiutare i paesi europei. Poi è vero che Mosca non è stata realmente sconfitta, ma è stata forte tanto in Russia quanto in Occidente la percezione che fosse ridotta a un ruolo marginale. Putin ha incarnato la reazione a quel malessere rilanciando miti e pratiche della potenza russa e inventando il modello di democrazia sovrana che oggi ci ritroviamo in casa nell’Unione europea, a Budapest e a Varsavia.

Salomoni. Benché sia attualmente in crisi, il modello creato da Putin resta importante da valutare anche in vista delle sue proiezioni future. L’ideologia putiniana, che promuove una tipologia di democrazia specificamente russa, quindi non strutturata a imitazione dell’Occidente, fa riferimento in modo alternato a diverse esperienze storiche. Di certo l’operato di Putin è molto rilevante, va preso sul serio. Bisogna anche tener conto che i russi, dopo la dissoluzione dell’Urss, hanno dovuto confrontarsi con il problema costituito dai milioni di connazionali rimasti nelle altre Repubbliche, in una improvvisa e difficile condizione di esilio. Il Cremlino ha fatto un grosso investimento non solo sul recupero della storia, ma anche per valorizzare questa diaspora. Io credo che Putin abbia costruito un nuovo modello di sistema politico, che potrebbe anche sopravvivere alla sua uscita di scena.

                                                                  Antonio Carioti