Dante. Divina Commedia. Similitudini. “Immagine, indemoniato, Ippolito, isola di Egina, lago, lamina d’oro, lampo, leone, Licurgo, Lorenzo, lottatori, lucciole, lumaca, luna”.

Dante, “Divina Commedia”. Similitudini. 

“Immagine riflessa nello specchio, Indemoniato (o epilettico), Ippolito, Isola di Egina, Lago, Lamina d’oro, Lampo, Leone, Licurgo, San Lorenzo, Lottatori, Lucciole, Lumaca, Luna”

 

Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere  le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.

Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza,  dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.

Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.

 

 

L’immagine riflessa nello specchio. Purgatorio, canto XXV, vv. 25-27.

“e se pensassi come, al vostro guizzo,/ guizza dentro a lo specchio vostra image,/ ciò che par duro ti parrebbe vizzo”. Virgilio rispose alla mia domanda: se tu riflettessi su come, a ogni movimento del corpo umano, l’immagine riflessa dallo specchio si muove a sua volta, ciò che ti sembra incomprensibile ti apparirebbe chiarissimo.

Nota: mentre i tre poeti salgono alla settima cornice, Dante chiede come sia possibile che le anime dei golosi, dei corpi aerei e solo apparenti, che non hanno bisogno di cibo, appaiano così magre. Per introdurre all’allievo la spiegazione che seguirà ad opera di Stazio, Virgilio gli ricorda due esempi: il primo è il mito di Meleagro ucciso dalla madre Altea; il secondo è tratto dalla realtà quotidiana. Meleagro era figlio di Oeneo, re di Calidone; per decisione degli dei avrebbe dovuto vivere fino a quando un pezzo di legno che le Parche avevano gettato nel fuoco non fosse stato consumato. Sua madre Altea, che ne fu informata alla sua nascita, spense il tizzone e lo mise al sicuro. Ma molti anni dopo, per vendicarsi del figlio che le aveva ucciso i due fratelli Plesippo e Tosseo, gettò il tizzone nel fuoco. In brevissimo tempo, quanto ne impiegò il tizzone a bruciare, anche Meleagro si consumò e morì. L’episodio è raccontato da Ovidio (Metamorfosi, VIII, 260-546). Anche il secondo paragone, il riflettersi delle immagini nello specchio risulta un mistero per la fisica medievale, quindi è un fatto da accettare semplicemente, è stabilito da Dio. Ma Virgilio non aggiunge la risposta che Dante desidera, affida il compito a Stazio.

L’indemoniato o l’epilettico. Inferno, canto XXIV, vv. 112-120.

“E qual è quel che cade, e non sa como,/ per forza di demon ch’a terra il tira,/ o d’altra oppilazion che lega l’omo,// quando si leva, che ‘ntorno si mira / tutto smarrito de la grande angoscia / ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:// tal era ‘l peccator levato poscia./ Oh potenza di Dio, quant’è severa,/ che cotai colpi per vendetta croscia!”. E come chi stramazza a terra perdendo i sensi, e non se ne rende conto, o perché posseduto da un demonio che lo trascina a terra, o per un’altra ostruzione che ne blocca la vitalità, quando si rialza dopo la crisi si guarda intorno ancora intontito per la grave sofferenza che ha subìto, e mentre si guarda intorno sospira: così si comportava quel peccatore dopo essersi rialzato. Com’è severa la potenza divina, che fa cadere colpi così forti per attuare la sua giustizia!

Nota: siamo nella settima bolgia, quella dei ladri. Questi hanno le mani legate dietro la schiena da serpenti. Uno di loro, morso da un serpente, viene incenerito all’istante. Ma subito dopo, come un’araba fenice, riprende le sembianze umane. Dante assiste a questa distruzione e rigenerazione e si serve di questo paragone per ricreare un certo realismo familiare, dopo la citazione del  fenomeno favoloso della rinascita della Fenice. In questa doppia similitudine vengono descritti gli atteggiamenti provocati da due patologie: quello dell’ossesso o indemoniato e quello dell’epilettico, l’uno “tirato a terra” da un demonio che entra in lui, l’altro da una “oppilazion”, termine tecnico della medicina medievale che indica un’ostruzione dei condotti vitali dell’organismo, che assicurano energia a ogni parte del corpo, e che, occlusi dal male, provocano la perdita dei sensi. Ma l’effetto è stato comunque di grande spavento, anche per lo spettatore: di qui l’esclamazione con la quale l’autore ci invita a riflettere sugli effetti ineluttabili della giustizia di Dio.

Ippolito. Paradiso,  canto XVII, vv. 46-51.

“Qual si partio Ipolito d’Atene / per la spietata e perfida noverca,/ tal di Fiorenza partir ti convene.// Questo si vuole e questo già si cerca,/ e tosto verrà fatto a chi ciò pensa / là dove Cristo tutto dì si merca”. Come Ippolito lasciò Atene, per colpa della sua matrigna malvagia e senza scrupoli, allo stesso modo è necessario che tu lasci Firenze. Questo si vuole e questo già si prepara, e presto verrà attuato da parte di chi trama nel luogo in cui tutto il giorno si commercia con le cose di Dio.

Nota: siamo nel cielo di Marte, quello degli spiriti combattenti. Qui Dante incontra un suo lontano antenato, Cacciaguida, nato a Firenze duecento anni prima. Il pellegrino pone al trisavolo quattro domande: chi fossero i suoi antenati, quando nacque, quanti abitanti avesse la Firenze del suo tempo, e quali famiglie vi fossero più degne di onori. Dopo le prime risposte di Cacciaguida il ricordo delle sanguinose lotte della Firenze attuale fa rinascere in Dante l’emozione delle vaghe e incomplete profezie che nel viaggio ha udito da alcuni spiriti, e ora ne chiede chiarimento all’antenato. Cacciaguida risponde e la profezia si apre con la menzione di un mito. Ippolito fu costretto ad allontanarsi da Atene a causa della matrigna Fedra, che prima tentò di sedurlo, poi, per vendicarsi di essere stata respinta, lo calunniò presso il padre Teseo, che era suo marito, e lo fece esiliare dalla città (Ovidio, Metamorfosi, XV, 493 sgg.). Allo stesso modo, per un’accusa calunniosa, Dante sarà cacciato da Firenze. L’operazione sarà guidata dalla Curia papale.  In questa analogia la sua innocenza acquista una carica e una tensione polemica più oggettiva. Nei vv. 49-50 c’è una sequenza di verbi, “si vuole, si cerca, verrà fatto”, nei quali prevale il tono di impersonalità: i nemici di Dante sono ancora senza nome.

L’isola di Egina. Inferno, canto XXIX, vv. 58-69.

“Non credo ch’a veder maggior tristizia / fosse in Egina il popol tutto infermo,/ quando fu l’aere sì pien di malizia,// che li animali, infino al picciol vermo,/ cascaron tutti, e poi le genti antiche,/  secondo che i poeti hanno per fermo,// si ristorar di seme di formiche;/ ch’era a veder per quella oscura valle / languir li spirti per diverse biche.// Qual sovra ‘l ventre, e qual sovra le spalle / l’un de l’altro giacea, e qual carpone / si trasmutava per lo tristo calle”. Non credo che nell’isola greca di Egina fosse uno spettacolo più triste vedere tutto il popolo malato, quando l’aria fu così infetta che gli esseri viventi, fino al più piccolo, il verme, morirono tutti; e in seguito a ciò l’antico popolo dell’isola si ricostituì, secondo quanto i poeti danno per certo, dalla stirpe delle formiche, non uno spettacolo più triste della vista degli spiriti dannati che per quella tetra bolgia giacevano malati in diversi mucchi. Alcuni stavano sdraiati sul ventre, alcuni appoggiati schiena a schiena, altri ancora si trascinavano carponi per la dolorosa bolgia.

Nota: siamo nella decima e ultima bolgia, quella dei falsari, colpiti dalle più terribili malattie, da sintomi svariati e tutti ripugnanti. La fonte di questa similitudine non è la triste realtà del tempo di Dante, fatta di malattie stagionali incurabili, ma è un mito, un famoso episodio narrato anche da Ovidio (Metamorfosi, VII, 523-660). Giove, marito costantemente infedele di Giunone, aveva suscitato la gelosia furiosa della moglie a causa dell’innamorata di turno, la ninfa Egina, che viveva nell’isola che da lei prendeva il nome. Per vendicarsi Giunone scagliò contro l’isola una terribile pestilenza, che ne sterminò tutti gli abitanti. Unico sopravvissuto, il disperato re Eaco supplicò Giove di ripopolare la sua amata isola; allora il re degli dei permise che dalle formiche rinascessero gli uomini. Il nuovo popolo fu detto dei “Mirmidoni”, dal nome greco della formica, myrmex. Lo stesso Dante segnala che la similitudine è di origine letteraria al v. 63 (“secondo che i poeti hanno per fermo”). La bolgia si presenta quindi alla vista come una serie di gruppi di dannati più o meno in movimento e comunque ammassati fra loro. Domina un’atmosfera di desolazione: una grave spossatezza impedisce ai dannati di sollevarsi, costringendoli a stare sdraiati in diversi modi, oppure a camminare strisciando sulle mani e sui piedi.

Il lago. Paradiso, canto I, vv. 76-81.

“Quando la rota che tu sempiterni / desiderato, a sé mi fece atteso / con l’armonia che temperi e discerni,// parvemi tanto allor del cielo acceso / de la fiamma del sol, che pioggia o fiume / lago non fece alcun tanto disteso”. Quando il movimento rotante dei cieli, che tu imprimi in eterno col desiderio incessante che essi hanno di tornare a te, attrasse a sé la mia attenzione, distogliendola da Beatrice, con l’armonia che tu regoli e accordi distinguendone le note, allora una parte del cielo mi sembrò incendiata dalla luce ardente del sole, così ampia come non fu mai un lago formato da pioggia torrenziale o da un fiume straripato.

Nota: Dante è salito nella sfera del fuoco, che divide la terra dal sistema dei cieli. Qui un’immensa luce e una musica celestiale suscitano la sua meraviglia. La straordinaria luminosità deriva dalla pura luce irradiata dall’Empireo per tutti i cieli, perfettamente trasparenti. La descrizione del nuovo luogo avviene in termini più analitici che logici: continuano le similitudini realistiche per esprimere una realtà astratta. Il lago di luce, prima percezione visiva che il pellegrino ha del terzo regno, è descritto facendo riferimento all’elemento dell’acqua che è la materia più adeguata a rappresentare la luce infinita e incorporea. Il pellegrino poeta è già rapito dalla stupefacente bellezza che lo circonda.

Una lamina d’oro. Paradiso, canto XVII, vv. 121-129.

“La luce in che rideva il mio tesoro / ch’io trovai lì, si fé prima corusca,/ quale a raggio di sole specchio d’oro;// indi rispuose: “Coscienza fusca / o de la propria o de l’altrui vergogna / pur sentirà la tua parola brusca.// Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,/ tutta tua vision fa manifesta;/ e lascia pur grattar dov’è la rogna”. Lo splendore in cui godeva la sua beatitudine il mio prezioso gioiello (il suo avo Cacciaguida), che incontrai in quel cielo, dapprima lampeggiò come una liscia superficie d’oro che rifletta i raggi del sole; poi rispose: “Le coscienze annerite da colpe proprie o di persone vicine dovranno sentire la durezza delle tue parole. Tuttavia, accantonata ogni menzogna, esponi chiaramente tutto quello che hai visto, e lascia pure che chi ha la rogna si gratti.

Nota: siamo nel cielo di Marte, quello degli spiriti combattenti. Qui Dante incontra un suo lontano antenato, Cacciaguida, nato a Firenze duecento anni prima. Il pellegrino pone al trisavolo quattro domande: chi fossero i suoi antenati, quando nacque, quanti abitanti avesse la Firenze del suo tempo, e quali famiglie vi fossero più degne di onori. Dopo le prime risposte di Cacciaguida, il ricordo delle sanguinose lotte della Firenze attuale fa rinascere in Dante l’emozione delle vaghe e incomplete profezie che nel viaggio ha udito da alcuni spiriti, e ora ne chiede chiarimento all’antenato. Cacciaguida gli svela in modo esplicito il suo esilio e tutto quello che seguirà. E lo invita esplicitamente a raccontare tutti gli avvenimenti del suo viaggio oltremondano. Non dovrà essere né reticente, né indulgente nell’esporre la verità. E per farlo l’antenato usa un registro verbale che ricorda passi dell’Inferno. Nella similitudine dello specchio d’oro torna in primo piano l’essenza stessa di Cacciaguida in quanto Beato, subito dopo la sua rappresentazione come tesoro, variazione della metafora preziosa già alcune volte usata per questo personaggio (canto XV, gemma al v. 22; vivo topazio al v. 85). Cacciaguida è il tesoro che Dante ha trovato in cielo, è suo in quanto è la sua radice familiare, lo sente parte di sé.

Il lampo. Paradiso, canto XXX, vv. 46-54.

“Come sùbito lampo che discetti / li spiriti visivi, sì che priva / da l’atto l’occhio di più forti obietti,// così mi circunfulse luce viva,/ e lasciommi fasciato di tal velo / del suo fulgor, che nulla m’appariva.// “Sempre l’amor che queta questo cielo / accoglie in sé con sì fatta salute,/ per far disposto a sua fiamma il candelo””. Come un lampo improvviso, che disperda le facoltà della vista, tanto da privare gli occhi della capacità di tradurre in atto la propria potenza visiva, e impedisce loro di vedere altri oggetti, così una luce intensissima mi circondò, e mi lasciò avvolto da un tale velo splendente, che non vedevo nient’altro. “Ogni volta che un’anima vi entra, l’amore di Dio, che rende questo cielo eternamente immobile, l’accoglie con tale saluto, per adattare la nuova candela alla sua fiamma”.

Nota: nel Primo Mobile, guardando negli occhi di Beatrice, Dante vede riflesso un punto luminosissimo, di intensità insostenibile, circondato da nove cerchi concentrici come di fuoco. Giratosi, ha la conferma che quello che ha visto è reale: Beatrice gli spiega che i nove cerchi non sono cieli come potrebbero sembrare, ma le Intelligenze angeliche, che ricevono amore e sapienza direttamente da Dio, ruotandogli intorno. Come stelle all’aurora, i nove cerchi angelici si cancellano alla vista di Dante. Mentre la bellezza di Beatrice diviene talmente straordinaria da essere indescrivibile, i due compiono l’ultima ascesa ed entrano nell’Empireo. Dante così ha ricevuto “il saluto di Dio” alla sua entrata: un lampo di luce viva, a prima conferma che Dio è Verità e che la Verità è luce. Il pellegrino perde nuovamente la vista, resta abbagliato dalla consistenza luminosissima del Paradiso. Ora però si sta preparando ad affrontare la visione di Dio. In “Atti degli Apostoli”, 22, 6-11, è così descritta l’illuminazione di Saulo di Tarso sulla via di Damasco, la luce mandata da Dio che lo indusse a diventare il predicatore e martire Paolo: “subito de coelo circumfulsit me lux copiosa; (…) cum non viderem prae claritate luminis illius”, “all’improvviso mi avvolse una grandissima luce dal cielo; (…) e io non vedevo più a causa dello splendore di quella luce”. Come si vede in tutto l’episodio appaiono ricordi dell’evento paolino sulla via di Damasco.

Il leone. Purgatorio, canto VI, vv. 61-66.

“Venimmo a lei: o anima lombarda,/ come ti stavi altera e disdegnosa / e nel mover de li occhi onesta e tarda!// Ella non ci dicea alcuna cosa,/ ma lasciavane gir, solo guardando / a guisa di leon quando si posa”. La raggiungemmo: quell’anima lombarda stava ferma, con aria altera e distaccata, maestosa e lenta nel girare lo sguardo. Non ci diceva nulla, ma ci lasciava avvicinare, limitandosi a guardarci, come fa il leone in riposo.

Nota: siamo nell’antipurgatorio. I due viandanti vedono uno spirito isolato, con un aspetto altero. Disdegnosa, altera, onesta, tarda: ben quattro aggettivi per descrivere l’immagine e i movimenti di quest’anima lombarda. Tutto prepara la presentazione della figura del trovatore Sordello da Goito, il più famoso poeta italiano in lingua d’oc, agli albori delle letterature romanze. L’anima di Sordello è tranquilla e mansueta, come tutte le sue compagne, ma è isolata (la sua intoccabile dignità). La similitudine con il leone, che si riposa per essere pronto a scattare all’attacco, con lo sguardo insistente, puntato con precisione, è finalizzata a preparare la famosa invettiva contro l’Italia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!” (vv. 76-78).

Licurgo. Purgatorio, canto XXVI, vv. 94-102.

“Quali ne la tristizia di Licurgo / si fer due figli a riveder la madre,/ tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,// quand’io odo nomar sé stesso il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre;// e sanza udire e dir pensoso andai / lunga fiata rimirando lui,/ né, per lo foco, in là più m’appressai”. Come nel dolore e nell’ira di Licurgo i due figli di Isifile si comportarono nel rivedere la loro madre che era nelle mani dei carnefici e sul punto di essere giustiziata, così diventai io (ansioso di abbracciarlo), ma non giunsi a tanto, quando udii nominare se stesso il padre mio e degli altri poeti migliori di me che mai abbiano composto dolci e raffinate poesie d’amore; e in atteggiamento pensoso, senza più udire la sua voce né parlare per lungo tempo, camminai guardandolo con affetto, e tuttavia, a causa del fuoco, non mi avvicinai di più.  

Nota: Nella settima e ultima cornice Virgilio, Stazio e Dante camminano uno dietro l’altro, attenti a non farsi bruciare dal fuoco e, contemporaneamente, a non precipitare nel vuoto. Qui espiano il loro peccato i lussuriosi. Il pellegrino assiste a uno strano rito: due gruppi distinti di anime si incontrano, si abbracciano e, dopo essersi gridati ciascuno un esempio di lussuria punita, si allontanano. Insomma, dopo essersi venute incontro e unite, le due schiere si girano reciprocamente la schiena e si separano. Dante si rivolge loro e confessa che non è una persona morta, che da vivo sta salendo verso l’alto per non essere più accecato dal peccato, e le invita a dire chi sono affinché lui possa scriverlo. Appaga la curiosità di Dante uno spirito cortese: è Guido Guinizelli, che il nostro poeta saluta commosso come padre poetico suo e degli stilnovisti. La similitudine dotta è ripresa proprio da Stazio (“Tebaide”) e ad alcuni commentatori è apparsa troppo letteraria ed erudita, ma proviamo a spiegarne il senso. Raccontiamo la storia: Isifile è una giovane donna sedotta e abbandonata da Giasone e da lui aveva avuto due gemelli (i due figli del v. 95). Divenuta schiava di Licurgo, re di Nemea, ne aveva in custodia il figlio Ofelte; un giorno lo lasciò solo, il bambino fu morso da un serpente e morì. Perciò Isifile fu condannata a morte da Licurgo, caduto in grave tristizia (v. 94); quando stava per essere giustiziata la donna fu vista dai suoi figli e salvata. Nel contesto Isifile, la madre, è paragonata a Guido Guinizelli, il padre. Dante lo vede tra le fiamme, ma non può abbracciarlo, trattenuto dal fuoco purificatore. La situazione somiglia all’incontro con Brunetto Latini (Inferno, XV, 43 sgg), quando il pellegrino non poteva abbracciare il suo antico maestro perché impedito dalla sabbia ardente e dalla pioggia di fuoco.

(San) Lorenzo. Paradiso, canto IV, vv. 82-87.

“Se fosse stato lor volere intero,/ come tenne Lorenzo in su la grada,/ e fece Muzio a la sua man severo,// così l’avria ripinte per la strada / ond’eran tratte, come furono sciolte;/ ma così salda voglia è troppo rada”. Se la loro volontà fosse stata assolutamente incrollabile, come quella che fece resistere San Lorenzo sulla graticola, e rese Muzio Scevola spietato verso la sua stessa mano, allo stesso modo le avrebbe spinte di nuovo nel luogo da cui erano state rapite, appena furono lasciate materialmente libere; ma una volontà così salda è rarissima.

Nota: siamo nel cielo della Luna. Beatrice sta chiarendo due dubbi esposti da Dante. Sul primo spiega che i beati sono tutti nell’Empireo, ma appaiono di volta in volta in un cielo diverso, proprio per mostrare al pellegrino l’organizzazione gerarchica delle beatitudini. Il secondo dubbio riguarda il motivo per cui gli spiriti che, come Piccarda, furono costretti con la forza a non tener fede ai loro voti abbiano un posto così lontano da Dio. Beatrice spiega che se la loro volontà fosse stata incrollabile la violenza non avrebbe potuto nulla. Il concetto è quello della filosofia tomistica: chi subisce senza resistere, anche se agisce per paura, contribuisce in parte alla violenza con la sua volontà. I due esempi di volontà incrollabile sono tratti uno dal mondo cristiano e l’altro dalla leggenda romana, ed entrambi hanno per protagonisti uomini. Lorenzo, uno dei primi diaconi cristiani, fu martirizzato a Roma nel 285 d.C.; Muzio Scevola, avendo fallito l’attentato contro il re etrusco Porsenna, si bruciò la mano tenendola ferma su un braciere.

I lottatori. Inferno, canto XVI, vv. 22-27.

“Qual sogliono i campioni far nudi e unti,/ avvisando lor presa e lor vantaggio,/ prima che sien tra lor battuti e punti,// così rotando, ciascuno il visaggio / drizzava a me, sì che ‘n contraro il collo / faceva ai piè continuo viaggio”. Come i campioni di lotta sono soliti fare quando, già nudi e unti di olio per il combattimento ma prima di battersi e colpirsi a vicenda, si studiano per scoprire la presa più vantaggiosa, così, girando in cerchio, ciascuno dei tre sodomiti fiorentini tendeva il viso verso di me, in modo che il loro collo faceva un movimento sempre contrario a quello dei piedi.  

Nota: Brunetto Latini, il suo maestro, ha appena terminato il colloquio con Dante e si è riunito velocemente al suo gruppo. Da un secondo gruppo di sodomiti si staccano tre personaggi della Firenze del Duecento che, improvvisando un degradante girotondo, conversano col pellegrino sulla corruzione della sua città. Come nella vita terrena i sodomiti andarono contro le disposizioni naturali, così adesso -scontando la condanna- sono costretti a mantenere la conversazione lottando con la posizione contraria dei loro corpi. La similitudine nobilita leggermente l’immagine in movimento offerta dai tre, costretti a un girotondo forzato, di per sé non certo onorevole: li paragona a lottatori o pugili, che l’autore sembrerebbe aver visto con i propri occhi, anche se l’accenno alla nudità e all’usanza di ungersi con olio prima di combattere fanno pensare agli incontri di lotta o di pugilato del mondo classico.

Le lucciole. Inferno, canto XXVI, vv. 25-33.

“Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa,/ nel tempo che colui che ‘l mondo schiara / la faccia sua a noi tien meno ascosa,// come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea,/ forse colà dov’ e’ vendemmia e ara:// di tante fiamme tutta risplendea / l’ottava bolgia, sì com’ io m’accorsi / tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea”. Quante lucciole nella valle appaiono al contadino che si riposa sulla collina nel tramonto estivo, nel tempo in cui il sole è più vicino alla terra coi suoi raggi e nel momento in cui nell’aria cominciano a volare più zanzare che mosche, all’incirca nel punto in cui ci sono le sue coltivazioni: di tante piccole fiamme risplendeva tutta l’ottava bolgia, così come mi accorsi appena mi trovai nel punto in cui se ne vedeva il fondo.

Nota: Dante ha appena sfogato il suo sdegno contro Firenze, che ha tanti suoi cittadini all’Inferno. Poi i due poeti passano all’ottava bolgia, alla vista della quale il pellegrino è profondamente turbato, tanto che si pone il problema di come rappresentarla nei suoi versi: gli appare una distesa di fiamme in movimento, simile a una valle piena di lucciole in una sera d’estate. Si spiegherà poi che in ciascuna delle fiamme è nascosto un consigliere di frode. La veduta della bolgia, nella similitudine, è paragonata a un paesaggio agreste, estivo e sereno. La situazione pacata e persino allegra –per l’improvviso illuminarsi delle tenebre infernali- sarà presto smentita dalla cupa atmosfera della bolgia. E potremmo anche pensare a una drammatica opposizione: Dante che guarda la scena differisce dal contadino che contempla i suoi campi punzecchiati dalle lucciole.  

La lumaca. Inferno, canto XXV, vv. 130-135.

“Quel che giacea, il muso innanzi caccia,/ e li orecchi ritira per la testa / come face le corna la lumaccia;/ e la lingua, ch’avea unita e presta / prima a parlar, si fende, e la forcuta / ne l’altro si richiude; e ‘l fummo resta”. La figura che ormai si era abbassata fino a terra allungò in avanti il muso, facendo rientrare le orecchie dentro la testa, come fa la lumaca con le corna; la sua lingua, che prima era unita e adatta alla parola, si divise in due, mentre nell’altro i due lembi della lingua biforcuta si unirono e ne formarono una nuova; e il vapore svanì.

Nota: siamo nella bolgia dei ladri, con i dannati tormentati in mille modi dai serpenti. Qui stiamo assistendo alla parte finale di una orrenda metamorfosi che coinvolge un serpente e un peccatore che si stanno fondendo e trasmutando. Per tutta la durata del fenomeno un fumo esce dalle rispettive bocche delle due creature: dobbiamo immaginare questa cortina di vapore che circonda e vela le due figure in trasformazione, un fumo che rende ancora più inquietante e misteriosa la metamorfosi, anche col particolare degli occhi fissamente puntati gli uni negli altri. La descrizione molto realistica e particolareggiata ci vuole ribadire che Dante ha assistito personalmente, come pellegrino dell’Oltremondo, a tutta la scena. Perentoria e brusca è la conclusione.

La luna. Paradiso, canto X, vv. 64-69.

“Io vidi più folgòr vivi e vincenti / far di noi centro e di sé far corona,/ più dolci in voce che in vista lucenti:// così cinger la figlia di Latona / vedem talvolta, quando l’aere è pregno,/ sì che ritenga il fil che fa la zona”. Io vidi allora alcune presenze luminose tanto risplendenti da superare la luce del sole e la capacità della mia vista, le quali fecero corona intorno a noi, cantando con voce anche superiore in dolcezza all’intensità della loro luce: così a volte si vede la luna circondata da vapori luminosi, quando l’aria è talmente umida, che trattiene il raggio di luce che le forma intorno quell’alone.  

Nota: Dante e Beatrice sono nel quarto cielo, quello del Sole. Sullo sfondo si distinguono dodici luminosissime anime beate: sono gli spiriti sapienti, filosofi e teologi tra i più famosi nel Medioevo. In questi versi vengono descritte con straordinaria sintesi sia la vivacità della luce sia la rapidità del movimento: che è circolare, poiché il cerchio è la figura geometrica che meglio rappresenta la perfezione. La corrispondenza perfetta tra il centro e la corona di questa figurazione è espressa dal chiasmo sintattico al v. 65, chiasmo che si trasforma al v. 66 in parallelismo, dove è descritta la soavità della voce dei beati. Il richiamo alla luna stabilirebbe un’analogia tra Beatrice e la Chiesa, ed è da spiegare così. Ai vv. 60-61 : “e sì tutto ‘l mio amore in lui si mise,/ che Beatrice eclissò ne l’oblio”, quindi agli occhi di Dante Beatrice era stata eclissata da Dio; tradizionalmente l’eclissi subita dalla luna a opera della più intensa luce del sole viene descritta come l’unione di due innamorati; quindi se il Sol de li angeli (v. 53) è Cristo, allora la mitica figlia di Latona (v. 67), la luna, identificabile con Beatrice, può rappresentare allegoricamente la Chiesa, mistica sposa di Cristo.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello