La Terra e l’impronta degli esseri umani
Noi contro altri nella trappola evolutiva
Ne “La Lettura” del 18 maggio 2025, alle pp. 10-11, è pubblicato questo articolo predittivo di Telmo Pievani.
Un tempo molte specie umane popolavano la Terra. Quello di Homo Sapiens non era l’unico modo di stare al mondo. Cento millenni fa in Africa i nostri antenati non sapevano che al di fuori del loro continente d’origine altre forme del genere Homo, discendenti da più antiche migrazioni, conducevano la loro vita. Poi le prime pattuglie di esploratori Sapiens cominciarono a uscire, verso il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Asia centrale, e avvistarono i loro cugini. Possiamo immaginare lo stupore e lo spavento reciproci, ma nessuno sa come avvennero quegli incontri, cosa pensarono gli uni degli altri, che effetto fece sulle loro menti scoprire che esistevano altri modi di essere umani.
Sappiamo però che seppero convivere a lungo. C’erano spazio e risorse per tutti. Condividevano gli stessi territori di caccia e le sorgenti di acqua, forse avevano anche scambi culturali, di artefatti e idee. Per certo, si accoppiavano e nascevano cuccioli ibridi, figli di genitori di tre specie diverse in tutte le combinazioni: Homo Sapiens; Neanderthal in Eurasia centro-occidentale; Denisova in Asia centro-orientale. Che fosse una coabitazione vera è dimostrato dal fatto che gli ibridi erano accolti nelle loro comunità di riferimento e a loro volta facevano figli, altrimenti il Dna delle altre specie umane non sarebbe filtrato nel nostro albero genealogico e non avremmo tracce di materiale genetico neandertaliano e denisovano nelle popolazioni umane odierne fuori dall’Africa. Quei modi di stare al mondo erano compatibili. Il nostro genoma è un mantello di Arlecchino e la storia umana comincia con una convivenza.
Poi l’equilibrio si ruppe, fra 50 e 40 millenni fa. Altri gruppi di Homo sapiens uscirono dall’Africa, più agguerriti e invadenti, ma anche più creativi. Portarono con sé e diffusero le pitture rupestri, gli ornamenti del corpo, le sepolture rituali, nuove tecnologie e strumenti musicali. Non che gli altri umani non ne fossero capaci, ma non con quell’intensità. Dove arrivavano questi nostri antenati, il paesaggio cambiava, la biodiversità diminuiva (in Australia prima e nelle Americhe poi si mangiarono tutti i mammiferi di grossa taglia) e le altre specie umane arretravano, fino a estinguersi. Varcata una soglia temporale che va da 40mila a 30mila anni fa, rimanemmo soli: l’unica specie del genere Homo sulla Terra. Non era mai successo prima. La storia umana dei Sapiens comincia anche con una rottura di convivenza.
Non è facile discernere le cause di questo squilibrio recente, che rese il comportamento umano radicalmente ambivalente, distruttivo e costruttivo nello stesso tempo. Forse fu preceduto da tentativi e sperimentazioni in popolazioni locali, sempre in Africa. Probabilmente emerse un linguaggio più articolato, che favorì le facoltà astrattive e immaginative. Di sicuro giocò un ruolo la cooperazione: essere altruisti e solidali con i compagni di gruppo, per sfruttare in modo più efficiente il territorio e competere meglio con gruppi rivali. Per migrare, cacciare grandi prede pericolose e dipingere splendidi animali su pareti di roccia, servono cooperazione e immaginazione.
Darwin aveva colto appieno il senso di questa ambivalenza: siamo altruisti grazie al conflitto tra gruppi. Ci stringiamo in un piccolo noi protettivo, la tribù, per sfidare gli altri da noi. In alcune pagine straordinarie dell’”Origine dell’uomo”, del 1871, il naturalista inglese si era lanciato in una predizione (non lo faceva quasi mai). Verrà un giorno in cui l’umanità, grazie alle sue facoltà più nobili, saprà immaginare un noi sempre più grande: non solo la tribù, ma l’intero popolo; poi tutta la specie umana; infine, capiremo che la solidarietà va estesa a ogni altra forma di vita che compone la biosfera. A quel punto, sapremo convivere anche con lo stare al mondo di una megattera, di un polpo e di una quercia.
Poi però Darwin si accorge di essere stato troppo ottimista e aggiunge: certo, sarebbe bello, ma temo che anche fra molte generazioni quel tribalismo innato rispunterà, perché l’egoismo di gruppo non avrà mai smesso di covare sotto la cenere. Basterà che un capopopolo spregiudicato lo strumentalizzi e si riattizzerà, vanificando gli sforzi inclusivi precedenti.
Come dargli torto. Basti osservare l’ormai dilagante tribalismo digitale sui social o il disordine geopolitico imperante. Nel 1948 con la Dichiarazione universale dei diritti umani siamo stati capaci di stabilire che il noi è tutta la specie umana, ma dopo tre generazioni ce lo stiamo già dimenticando.
Così il nostro stare al mondo, in bilico sopra questa ambiguità, oggi rischia di infilarsi in una trappola evolutiva. Il riscaldamento climatico di origine antropica sta accelerando e non conosce dogane né dazi. La biodiversità che ci fa respirare e ci porta il cibo in tavola continua a calare. I virus sono bravissimi a imbarcarsi sui voli intercontinentali. Dinanzi a queste sfide globali interconnesse, come stiamo rispondendo? Indebolendo e delegittimando tutte le istituzioni sovranazionali. Questa è la ben nota dinamica della tragedia dei beni comuni. In assenza di regole, ciascun soggetto agisce come un battitore libero, cerca di sfruttare al massimo per sé i beni condivisi, finché quegli stessi beni si esauriscono, per tutti. Se la minaccia è sistemica e la risposta sono tante strategie locali conflittuali, i piccoli noi, il fallimento è assicurato.
Saperlo non basta. Una società umana può andare incontro pervicacemente al declino. Dovremmo tutti rileggere la magnifica ricostruzione dell’archeologo Eric H. Cline su come andò in frantumi il mondo internazionalizzato dell’Età del Bronzo, intorno al 1177 a.C. I sontuosi palazzi micenei e minoici crollarono, l’impero ittita si sgretolò, la civiltà egizia cadde in una crisi senza ritorno. I cavalieri dell’apocalisse quella volta non furono soltanto gli enigmatici Popoli del Mare (il nemico esterno sempre evocato per deresponsabilizzarci), ma anche siccità, carestie, malattie, consumi eccessivi, conflitti, rigidità organizzative, migrazioni, diseguaglianze. Fu una tempesta perfetta di disastri, cioè una policrisi del tutto simile, secondo Cline, a quella in corso in questo momento.
La trappola evolutiva quando una specie modifica così drasticamente e velocemente il suo ambiente da trasmettere alle generazioni successive un mondo instabile in cui è più difficile adattarsi. Se una specie invasiva colonizza un lago e non trova limiti alla sua moltiplicazione, prima o poi esaurirà le risorse disponibili, si troverà in trappola e la sua popolazione subirà un collasso. Sembra insensato, ma succede. Noi, i sedicenti sapiens, lo stiamo facendo.
L’evoluzione stessa ci insegna che la via di uscita sarebbe quella di invertire la logica fra corto e lungo respiro: comprendere che gli investimenti sui beni comuni adesso (in primis, il nostro pianeta) genereranno guadagni e risparmi domani, diventando occasione di innovazione, sviluppo e cooperazione. In sintesi, capire che nessuno si salva da solo e che non è proprio il tempo di rivendicare principi identitari, ma al contrario di recuperare un senso del noi planetario, come suggeriva Darwin. E invece stiamo andando nella direzione opposta, forse perché la nostra mente non è lungimirante, predilige il godimento immediato e illusorio del qui e ora: un altro ingrediente della trappola evolutiva.
Homo sapiens, la giovane specie che rimase da sola, nacque in Africa 300 millenni fa, un battito di ciglia nell’evoluzione. Non siamo esseri umani fatti e finiti. Siamo divenienti umani, e come tali non abbiamo ancora imparato a stare al mondo.
Telmo Pievani