Il partigiano Vittorio Pozzo

Il partigiano Vittorio Pozzo

 

Sono le 14 del 27 aprile 1945. Da circa 36 ore a Torino infuria la battaglia per la Liberazione. Le strade sono piene di morti, forse 400, ammazzati da una parte e dall’altra. Camillo Venesio, direttore della Banca Anonima di Credito e un passato da calciatore dilettante nel Casale Monferrato, riesce a tirare un sospiro ottimista solo quando si accorge che lì nei pressi c’è anche Vittorio Pozzo, che per sfuggire ai cecchini fascisti s’è trovato un riparo lungo via San Francesco, a due passi da piazza San Carlo. Quel risoluto sessantenne è l’uomo ideale per quel momento: padrone dell’arte del comando, uno con il sangue freddo anche davanti ai mitra impazziti.

Schivando i proiettili, Venesio riesce a raggiungerlo. Lo implora: “Commendatore, le Brigare nere stanno assaltando la Banca d’Italia, bisogna trovare degli uomini per difenderla… dalla Garibaldi mi hanno detto che non possono mandare nessuno, stanno per scatenare l’attacco alla caserma Cernaia. Lei qui è il solo partigiano con l’autorità per intervenire”.

Il resto di questa storia sorprendente sta nelle carte conservate all’Archivio di Stato di Torino. A raccontarla, in prima persona, è proprio Vittorio Pozzo, allenatore della nazionale di calcio –anzi: commissario unico, come si diceva all’epoca- con un palmarès che nessun altro può vantare: due Mondiali, quelli del 1934 e del 1938, l’oro olimpico a Berlino 1936 e le due coppe Internazionali (antesignane degli attuali Europei) nel 1930 e nel 1935. Vittorie che hanno contribuito a rafforzare il mito dell’invincibilità del fascismo, se non addirittura a spianare la strada alle leggi razziali.

Di Pozzo è celeberrima una foto –che lo ritrae mentre fa il saluto romano- scattata alla Coppa del Mondo in Francia, pochi istanti prima dell’inizio dell’ottavo di finale contro la Norvegia. Siamo nel maggio 1938, lo stadio è quello del Vélodrome di Marsiglia: i 25mila tifosi sono tutti antifascisti, soprattutto immigrati ed esuli italiani ma anche tanti cugini transalpini, che al suono della Marcia reale e di Giovinezza, gli inni di allora, sommergono gli azzurri –tra cui fuoriclasse come Giuseppe Meazza e Silvio Piola, poi il geniale Giovanni Ferrari, l’Andrea Pirlo dell’epoca- con bordate di fischi. Pozzo è livido di rabbia: quella contestazione, di cui è stato preventivamente informato tramite i servizi segreti del Duce, gli risulta inconcepibile. Gli azzurri sono lì per combattere una battaglia –sia pure solo calcistica- dove in gioco c’è l’onore dell’Italia e per questo tutti dovrebbero incitarli. Ecco perché, più che mai convinto che lì al Vélodrome fascismo e Patria siano la stessa cosa, sfida il pubblico ordinando alla squadra di alzare il braccio nel saluto romano. Per la cronaca, l’Italia vincerà 2-1.

Ma chi è davvero il commissario unico? Il giudizio più benevolo resta quello di Giorgio Bocca, ruvido piemontese come l’allenatore, maestro di giornalismo ed ex partigiano, che lo dipinge come “un ex ufficiale degli alpini nella Grande guerra e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento delle penne nere ma non ai sacrari di Mussolini”.

Quel che è certo è che dal dopoguerra in poi per l’allenatore scatta una damnatio memoriae e quando, nel 1990, si discute se dedicargli il nascente stadio di Torino si preferisce il nome di Delle Alpi “perché Pozzo era un fascista”. Un giudizio che le carte dell’Archivio obbligano a rivedere. Anzi a ribaltare.

Torniamo ai combattimenti del 27 aprile. Nel rapporto su quelle ore drammatiche indirizzato a un comando della Resistenza, Pozzo –che per tutti, anche per i suoi giocatori, era il Commendatore- racconta di “essere riuscito a radunare un gruppo di cinque elementi, tutti con la fascia Cln” (il Comitato di Liberazione nazionale), per raggiungere la Banca d’Italia. “Ci difettavano però le armi. Qualcuno allora disse che all’Opera Pia di San Paolo, proprio lì dove eravamo noi, doveva esserci un deposito. Battemmo alla porta e poi da lì e da una vicina finestra cominciarono a passarcele, grazie a un certo Murino, assieme alle munizioni. Con me c’era il partigiano Carlo Gentile con cui raggiungemmo la Banca, sotto il fuoco dei cecchini”. Si combatte e si spara, tanto. Ma le Brigate nere sono costrette alla ritirata. L’Istituto, che custodisce oro e valuta pregiata, è salvo.

Il foglio in carta copiativa su cui il testo è battuto a macchina è soltanto uno tra le migliaia dim lettere, documenti e foto che fanno parte dell’”Archivio Vittorio Pozzo” –donato nel 2009 ai beni culturali sai figli dell’allenatore- stipato in una sessantina di faldoni divisi in centinaia di rigonfie cartelline intitolate da lui stesso con intestazioni così: Mondiali, Viaggi, Campionati 1943-45, Tempo di guerra, Liberazione. Proprio quest’ultimo fascicolo contiene le prove dell’inequivocabile e convinta adesione alla Resistenza da parte di Pozzo, a partire dai lasciapassare con tanto di fotografia.

C’è però molto, molto di più. E’ evidente come la sua figura si stagli in uno scenario di spionaggio e vicende partigiane in bilico tra i romanzi di John le Carré e i racconti resistenziali di Beppe Fenoglio. E’ il Cln di Biella ad attestare, il 1° giugno 1945, che il Commendatore ha collaborato “con noi dal settembre 1943 organizzando gli aiuti ai prigionieri alleati –nei faldoni c’è un elenco sconfinato di nomi, gradi e nazionalità: Willacot, Nicholis, Dower, Moore; e private, sergeant, colonel; e England, Australia, Scotlandin fuga verso la Svizzera e, negli ultimi mesi della lotta di liberazione, in collegamento con il rappresentante del Partito Liberale di questo Cln per il servizio informazioni”.

Parole dal contenuto simile le firma proprio quest’ultimo, Aldo Blotto Baldo, un industriale biellese –anche lui partigiano, anche lui ex calciatore- “latitante dal 25 luglio al 29 novembre 1943” perché ricercato dalle SS naziste: Pozzo “è stato un mio collaboratore utile e instancabile, disinteressato e attivissimo” sia per sostenere i partigiani sia per avviare verso il confine svizzero gli evasi.

Da qui in poi si entra direttamente nella spy story. Pozzo ha contatti con l’organizzazione Franchi, la rete di intelligence badogliana fondata da Edgardo Sogno, ex ufficiale di cavalleria, rappresentante del Partito Liberale nel Cln piemontese, agente del Soe britannico (il servizio delle operazioni speciali), poi diplomatico e, negli anni Settanta, prosciolto dall’accusa di tentato golpe. Il Commendatore, che nella Franchi sembra rivestire un ruolo importante, muovendosi con la circospezione di un agente operativo ha reclutato nella rete di Torino il viceconsole onorario del Portogallo, Alberto Bagna.

Questi gira per lavoro tra Piemonte e Liguria dribblando i controlli con freddezza, da perfetta spia. Staziona a La Spezia, dove, dopo l’ottobre 1944, la Wehrmacht si aspetta uno sbarco. Bagna annota “movimenti militari, postazioni, depositi, fortificazioni”. Scopre che sotto il Santuario della Madonna delle Grazie, a Portovenere, i tedeschi hanno costruito un tunnel. Periodicamente riferisce a Pozzo il quale, tramite la Franchi, fa pervenire via radio le informazioni agli Alleati –magari con messaggi in codice così “L’attesa è lunga”, “Marianna è pazza”, “Benito non fare i capricci”, quelli che lo stesso Sogno elencò ad Aldo Cazzullo in un libro-intervista del 2000 (“Testamento di un anticomunista”, Mondadori)- che poi bombardano gli obiettivi segnalati.

Da un altro rapporto si scopre che il Commendatore –il racconto è sempre in prima persona- viene arrestato dai tedeschi a Ponderano, borgo nel Biellese da cui è originario e da cui, faceva la spola con Torino, spesso in bici. Suo nipote Piervittorio racconta che “qui in paese i vecchi ancora oggi favoleggiano di quando mio nonno, che parlava perfettamente inglese, tedesco, francese e spagnolo, con glaciale nonchalance depistava le SS che cercavano ebrei, partigiani o renitenti alla leva: “Es ist niemand in diesem Haus”, non c’è nessuno in questa casa”. Ma invece in soffitta, o nel fienile, erano nascosti i fuggiaschi.

Non è chiaro perché i tedeschi catturino l’allenatore, forse lo sospettavano da tempo. Fatto sta che torna libero dopo qualche giorno –impossibile capire chi si sia adoperato per il rilascio- e lui, “dato che mi sentivo ricercato”, si nasconde poi a casa di Ferruccio Novo, il presidente del Torino di provata “fede patriottica avendo resistito, per tutta l’occupazione, alle pressioni della Wehrmacht per scendere in campo contro squadre germaniche” con cui disputare amichevoli (…)

Un’ultima busta conservata all’Archivio, senza intestazione, contiene tante foto in bianco e nero. A guardarle bene si scopre che sono quelle dei calciatori del Grande Torino. Toccò proprio al Commendatore –lui che aveva il cuore diviso tra i colori granata e azzurro- riconoscere le salme dopo la sciagura del Superga. Tra i volti che scorrono –Valerio Bacigalupo, Aldo e Dino Ballarin, Virgilio Maroso, Giuseppe Grezar…-ecco l’ultimo, ma è un bigliettino augurale, quello della Pasqua 1955. Lo firmano due bambini di 12 e 9 anni, Sandro e Ferruccio Mazzola. C’è scritto solo questo: “Auguri vivissimi”.

 

                                               Alessandro Fulloni

 

L’articolo è pubblicato ne “La Lettura” del 23 luglio 2023, supplemento culturale del Corriere della sera, alle pp. 37-39.