Gli uccelli a Parlamento nel Trecento inglese

La democrazia degli uccelli

Geoffrey Chaucer, nel Trecento, immaginò una questione d’amore tra uccelli da essere discussa come nel parlamento inglese.

 

Ne “La Lettura” del 18 maggio 2025 Daniele Piccini, a pag. 17, commenta argutamente “Il Parlamento degli Uccelli” di Chaucer

 

Una delle rime tradizionalmente considerate dubbie di Dante (anche se promossa come sicuro testo dantesco dall’edizione più recente, quella di Domenico De Robertis), il sonetto rinterzato “Quando ‘l consiglio degli ucce’ si tenne”, presenta un concistoro di volatili che si riuniscono. La fonte è in quel caso favolistica. Ma insomma il tema del Consiglio degli uccelli è un topos noto, che non a caso viene ripreso nella seconda metà del Trecento da quello straordinario crocevia di temi e forme tradizionali che è Geoffrey Chaucer (nato negli anni Quaranta del ‘300 e morto l’anno 1400). Tra i cosiddetti poemi onirici precedenti ai “Racconti di Canterbury”, l’autore inglese compone infatti il “Parliament of Fowls”, ora riproposto in una nuova traduzione presso Carocci (a cura di Piero Boitani).

Il giorno di San Valentino, obbedendo al richiamo di Natura, personificata al modo del “De planctu Naturae” di Alano di Lilla, si riuniscono in un giardino i rappresentanti di tutte le specie di uccelli, perché ognuno possa trovare la propria compagna: “Ché questo era il giorno a Valentino sacro / quando ogni uccello a scegliere viene la compagna,/ di ogni specie che si può pensare”. A guidare la composizione del testo chauceriano, scritto in strofe di sette versi con schema ABABBCC (la cosiddetta rhyme royal), è il principio della molteplicità e varietà del creato, certo con implicito rimando al libro biblico della Genesi. Il ritrovo degli uccelli è infatti connesso con la loro moltiplicazione, con la necessità di assicurare vita alle diverse specie. Basti pensare all’enumerazione dei vari tipi di volatili che occupa alcune strofe del poemetto. E tuttavia nel ricco immaginario del poeta il consiglio deve affrontare una discussione che pare riprodurre quelle del parlamento inglese. Una questione d’amore viene agitata di fronte all’assemblea e a Natura che la presiede: l’aquila reale è infatti richiesta da tre diversi aquilotti, determinando l’apertura di un dilemma. Chi dei tre e per quale ragione dovrà avere per compagna l’aquila che sta sulla mano di Natura?

E’ una tipica questione d’amore, un caso da dibattere di fronte a una corte, per trovare infine una soluzione. Gli uccelli di Chaucer sono tutti gerarchicamente ordinati, da quelli più nobili a quelli più umili, sulla scia di sistemazioni presenti nelle opere enciclopediche medievali e in ultima istanza risalenti ad Aristotele. Il fatto è che, in un processo di mimesi del meccanismo democratico, ad aver voce e a prendere parola, con tanto di onomatopee che ne riproducono il verso, sono anche i rappresentanti delle specie più dimesse, le quali contrappongono all’ideale cortese presentato dalle aquile e dal falco e basato sul fedele servizio d’amore e sulla cavalleria un punto di vista affatto dissonante e molto più pragmatico: l’oca, che parla per gli animali acquatici, propone agli aquilotti che non sono ricambiati di trovarsi semplicemente un’altra da amare. Ne ridono gli uccelli più nobili, ma intanto il sasso è lanciato. Interviene poi il cuculo, portavoce degli uccelli che si cibano di vermi, e per togliere ogni impaccio propone che ognuno degli aquilotti rivali resti da solo, celibe. Si scatena un gran chiasso e allora Natura si impone, come regina e come presidente dell’assemblea, e lascia che a sciogliere il nodo sia la stessa aquila desiderata dai tre aquilotti: altra concessione che dà da pensare, in una società orientata al predominio maschile. Ma anziché una soluzione giunge dall’aquila una richiesta di dilazione, mentre il poemetto si avvia alla conclusione.

Più che offrire chiavi per definire le questioni, il testo di Chaucer le spalanca nella loro natura problematica e le propone al dibattito, lasciandole inquietamente insolute. Di che amore si parla? Di quello naturale, che serve al bene comune, cioè alla continuità della specie. O di quello elevato e  nobile dell’etica cortese? E come possono i diversi punti di vista incontrarsi, come le discordanze armonizzarsi?

Il sorridente ammiccamento del poeta non dà risposte, ma suscita interrogativi. Il libro che egli scrive è dunque un’opera aperta, senza scioglimento. Non a caso, se con un rimando a un libro si era aperta, così con un richiamo ad altri libri, da leggere ancora, si chiude. Come a dire che la letteratura è un indeterminato accumulo di motivi e che al poeta che incrocia fonti tanto diverse, da quelle classiche alle francesi (le Roman de la Rose) alle italiane (Dante e Boccaccio in testa), non resta che far lievitare la materia, irretendo il lettore nel proprio amalgama di spunti e di suggerimenti, senza offrire una via di uscita certa. Se è vero che Dante viene esplicitamente citato, in particolare a proposito della doppia iscrizione che introduce al giardino d’amore, al locus amoenus per eccellenza, egli viene però riportato alla plurivocità e persino all’ironia del nuovo autore. La straordinaria reductio ad unum della Commedia dantesca non è possibile per Chaucer, che non a caso attinge alla tradizione italiana attraverso il punto di vista decisivo e ricreativo di Boccaccio (centrale è ad esempio il rinvio al suo poema in volgare “Teseida”).

Dunque, i libri. Chaucer si presenta nei poemetti onirici come lettore e come sognatore. All’inizio del Parlamento dice di essere andato in cerca di una cosa in un’opera antica, il Somnium Scipionis di Cicerone, compreso nel De re publica e commentato poi da Macrobio. Addormentatosi, l’autore sogna e Scipione l’Africano stesso gli appare e gli fa da guida. Lo conduce alle soglie del giardino, in cui si verificherà il dibattito tra gli uccelli alla presenza di Natura. Alla fine dell’opera, dopo che gli uccelli hanno scelto ciascuno la propria compagna e se ne volano via, risvegliando con il loro clamore il sognatore, ecco che l’autore torna all’idea, o forse proprio alla mania, della lettura: “Io mi destai e ad altri libri andai / per leggervi, e ancora leggo sempre”. Osserva Boitani: “La letteratura, nella quale abbondano gli archetipi, è la fonte della sua ispirazione”. Medievalmente, il poeta inglese considera tutti i modelli citabili e utilizzabili a piacere, senza porsi il problema, che sarà tipicamente romantico, dell’originalità. L’originalità è per lui la stessa ricerca infinita nei libri, “Ché dai campi vecchi, dice la gente / viene il grano nuovo d’anno in anno,/ e per la verità dai vecchi libri proprio / viene il sapere nuovo che s’apprende”.

Leggere e citare, ora direttamente ora allusivamente, sono all’origine del comporre, che sarà prima di tutto una continua rimeditazione dei cari libri, degli autori amati. Un processo che non finisce mai.

 

                                                        Daniele  Piccini