“Stavamo tutti al buio (…) Io accesi un lume”, di Tommaso Campanella, Napoli, 1601. Spunti per una riflessione.

Tommaso Campanella,  Stavamo tutti al buio (…) Io accesi un lume”,  Napoli, 1601. Spunti per una riflessione.

 

E’ questo un madrigale-sonetto scritto da Tommaso Campanella, frate domenicano, teologo e filosofo, nel 1601, quando era rinchiuso nelle carceri spagnole di Napoli.

 

Stavamo tutti al buio. Altri sopiti      

d’ignoranza nel sonno; e i sonatori     

pagati raddolcito il sonno infame.

Altri vegghianti rapivan gli onori,    

la robba, il sangue, o si facean mariti

d’ogni sesso, e schernian le genti grame.

 

Io accesi un lume; ecco, qual d’api esciame

scoverti, la fautrice tolta notte,         

sopra  me a vendicar ladri e gelosi, 

e que’ le piaghe, e i brutti sonnacchiosi

del bestial sonno le gioie interrotte:    

le pecore co’ lupi fur d’accordo           

contra i can valorosi;                         

poi restar preda di lor ventre ingordo.  

 

Il poeta vuole spiegare che tutta l’umanità è abbrutita e giace in una specie di oscura caverna. La maggioranza dorme, assopita nell’ignoranza; ma ci sono persone, assoldate, servi cortigiani dei tiranni che insistono nel farla dormire, adulandola e rassicurandola con bugie e ipocrisie. Poi ci sono altri ancora, svegli e malvagi, birbanti e corrotti, sempre al servizio dei potenti, che rapinano gli onori e i beni dei dormienti e si abbandonano a piaceri lussuriosi. Il filosofo-poeta accende nelle tenebre un lume per svelare a tutti gli inganni; ma contro di lui si muovono gli uni e gli altri, le pecore e i lupi, i sonnacchiosi e i ladri, gli uni per vendicarsi del loro sonno interrotto, gli altri delle loro malvagità denunciate. Alla fine (strano a pensarsi) le pecore furono d’accordo coi lupi contro i cani; poi, sconfitti i cani, le pecorelle furono preda del ventre ingordo dei lupi che le sbranarono. I cani sono i Domini canes, i cani del Signore, come si chiamavano i frati domenicani (San Domenico era accompagnato da un cane con una torcia in bocca), cani a difesa del gregge cristiano contro i lupi eretici.

Come non cogliere l’attualità sconvolgente di questo testo? Chi sono i cani del Signore di oggi? Chi i cortigiani? Chi i birbanti e i corrotti? E al servizio di chi? Con quali strumenti i sonatori pagati raddolciro il sonno infame? E perché le pecore si fanno così docilmente sbranare dai lupi, che prima le rimbambiscono e poi, con tutta calma, le sfruttano e le derubano? Viene in mente un passo del profeta Isaia che dei figli bugiardi che si cullano nell’ozio diceva: “Sono pronti a dire ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni””.

 

Passano più di duecento anni e il 3 giugno 1835, a Roma, Giuseppe Gioacchino Belli, integerrimo funzionario dello Stato pontificio, scrive questo sonetto e lo nasconde tra le sue carte segrete:

                                      “La favola der lupo”

 

C’era una vorta un lupo, che sse messe

una pilliccia e diventò ppastore,

tarmenteché le pecorelle istesse

s’ainaveno a ubbidillo e a ffàje onore.

 

Ma un canòne mastino, che pper èsse

De ppiù bon naso lo capì a l’odore,

cominciò a dì a l’orecchia a quelle fesse:

“l’amico è lupo, e vò maggnavve er core”.

 

Le pecore strillorno a ppiù nun posso,

ma er lupo pe carmà la ribbijone

mostrò li denti e tte je diede addosso.

 

Che ffeceno ste pecore frabbutte?

Disseno: “er cane, er cane è er zussurrone”:

e lì d’accordo a mozzicallo tutte.

 

C’era una volta un lupo che indossò una pelliccia e diventò pastore. E lo fece tanto bene che le stesse pecorelle si affrettavano premurosamente a ubbidirgli e a rendergli onore. Un grande cane mastino, avendo un buon fiuto, comprese all’odore l’inganno e cominciò a dire alle orecchie di quelle sciocche bestie: “attente, questo pastore amico è un lupo e vi vuole divorare”. Le pecore si impaurirono e cominciarono a strillare a più non posso, ma il lupo, per domare la ribellione, ricorse alla forza, mostrò loro i denti e le assalì. Che fecero allora queste pecore farabutte, sleali? Dissero al lupo: “il cane, il cane è lo spione, il maldicente”. E lì, tutte d’accordo, si misero a morsicarlo, a rifiutarlo, a perseguitarlo.

 

Lo stesso Belli, in un sonetto del 21 gennaio 1832, titolato dalle antologie

“Li soprani der monno vecchio”      così scriveva:

 

C’era una vorta un Re cche ddar palazzo

mannò ffora a li popoli st’editto:

“Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,

sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

 

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:

pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:

Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,

ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

 

Chi abbita a sto monno senza er titolo

o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,

quello nun pò avé mmai vosce in capitolo”.

 

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,

interroganno tutti in zur tenore;

e arisposeno tutti: “E’ vvero, è vvero”.

 

Non credo ci sia bisogno di traduzione. E’ splendido l’avvio del discorso con quella ironica intonazione da favola, che però introduce ad una realtà terribile. Il titolo sembrava suggerire che i personaggi appartenessero ad un tempo e ad un mondo ormai tramontati ma la rappresentazione è quella di un signore padrone in pieno secolo XIX di un pezzo di medioevo. Le prerogative sovrane sono costruite in un crescendo di assurdità: l’autocrazia assoluta (l’Io so io del verso 3 riecheggia l’Ego qui sum del Dio della Bibbia), la facoltà di sovvertire le leggi, la proprietà assoluta dei beni e delle persone dei sudditi vassalli,semplici affittuari della vita. Nel finale come corriere viaggia il boia, che si preoccupa di ascoltare le opinioni dei sudditi dalla loro viva voce, ottenendo in risposta un belato unanime. Sono passati altri 180 anni e si avverte un’eco sinistra. E’ una notazione solo comica?

 

Torniamo al nostro frate domenicano del ‘600. La forza ironica e satirica della sua poesia si avvicina all’ispirazione di Shakespeare, di Calderon de la Barca e di altri grandi autori del Cinque-Seicento: tutti vedono nel mondo un grande teatro dove gli uomini-burattini, mascherati, recitano una commedia di cui non capiscono il significato, svelato solo alla fine da Dio e in Dio: “Nel teatro del mondo ammascherate / l’alme da’ corpi e dagli affetti loro / (…) fan gli atti e detti tutte a chi son nate; / di scena in scena van, di coro in coro; / si veston di letizia e di martoro, / dal comico fatal libro ordinate. / (…) quando, rendendo, al fin di giuochi e risse,/ le maschere alla terra, al cielo, al mare,/ in Dio vedrem chi meglio fece e disse”. Amare realmente la vita, con tutti i suoi dolori ed imprevisti, esige che si abbandoni con fede la propria disperazione nelle braccia di Dio, in un sogno religioso impossibile e luminoso, scritto in una prosa lampeggiante e tenebrosa.

 

Il nostro poeta, che spesso si è presentato come un profeta del rinnovamento spirituale e sociale, è anche il sapiente che, per sopravvivere, deve saper stare al gioco del mondo. Afferma Campanella che gli astrologi, prevista la comparsa in un paese di una congiunzione astrale che avrebbe portato gli abitanti alla pazzia, decisero di fuggire per poter poi, essendosi conservati sani, saper governare il popolo danneggiato nell’intelletto. Una volta tornati per esercitare i compiti di governo, con sagge parole consigliavano a quei pazzi di vivere secondo gli antichi costumi, di mangiare con gusto e senza esagerare, di vestirsi giustamente. Ma tutti si opposero loro con calci e pugni. Cosicché i savi, per evitare la morte, furono costretti a vivere come si erano abituati a vivere gli stolti, dato che il più gran pazzo di loro aveva la carica di re: per cui esercitavano la ragione solo nel chiuso delle loro case mentre in pubblico applaudivano con fatti e con parole le voglie altrui impazzite e contorte.

 

Gli astrologi, antevista in un paese    /     costellazion che gli uomini impazzire  

far dovea, consigliarsi di fuggire,  /       per regger sani poi le genti offese.       

 

Tornando poscia a far le regie imprese,    /     consigliavan que’ pazzi con bel dire     il viver prisco, il buon cibo e vestire.     /  Ma ognun con calci e pugni a lor contese.

Talché, sforzati i savi a viver come       /          gli stolti usavan, per schifar la morte, ché il più gran pazzo avea le regie some,    /        vissero sol col senno a chiuse porte, in pubblico applaudendo in fatti e nome    /   all’altrui voglie forsennate e torte.

Qui l’intellettuale si confronta con l’esperienza amara che ha fatto della forza e delle astuzie del potere. Si è costretti a fingere la pazzia, per necessità unico modo per sfuggire al nemico: e la simulazione della follia diventa argomento di meditazione, di autocritica, quasi di condanna. Egli qui quasi confessa la sua pratica della simulazione, forse considerandola indegna di un martire. Grazie ad essa egli è giunto comunque ad una visione molto più chiara della situazione dei saggi, cioè degli intellettuali del suo tempo che praticano la doppia verità e che si chiudono nelle proprie sicure conventicole. “Uomo folle e saggio” è stato definito il nostro filosofo-poeta: la sua missione moralizzatrice e rinnovatrice consisteva nel servirsi con passione e audacia dello strumento poetico per portare nel cuore dell’uomo, e quindi alla comprensione più profonda ed incisiva, il mondo delle sue idee. Già Platone aveva spiegato che il filosofo non è “il sapiente”, ossia colui che possiede la sapienza e la verità, non è il sophos, ma il philo-sophos, e nel “Fedro” scriveva che il filosofo non è e non può essere un dio, e quindi non è colui che possiede, ma colui che indaga, che ama e ricerca la verità.

Sempre in quel 1601 nel suo carcere napoletano  Campanella, dopo l’esperienza della fallita rivolta calabrese, meditava sulle ragioni del suo fallimento e ripensava, alla luce dei fatti, le sue teorie politiche e sociali. Elaborava che l’ignoranza del popolo-plebe (il nostro autore usa i due termini come sinonimi) è utile a chi lo tiranneggia (i bombassi, i tiranni o gli imbonitori al loro servizio) perché contribuisce a tenerlo schiavo e gli impedisce addirittura di riconoscere quanti si adoperano per illuminarlo. Ciò che rende subalterno il popolo (e perciò non modificabili i rapporti di classe e di potere) è il non riuscire ad avere coscienza di sé. Il popolo, che ha possibilità smisurate, si sottopone ad un fanciullo che non ha vero potere. Il popolo vive nell’apparenza delle cose, senza conoscerle e riconoscerle. E’ il sapiente e fascinoso inganno dei bombassi (parola che vale per il suono, più che per il significato, quasi fonema esotico, strepitosa etichetta verbale), che lo tengono prigioniero di false  credenze e incantamenti.

Il popolo è una bestia varia e grossa,      /           ch’ignora le sue forze; e però stassi a pesi e botte di legni e di sassi,             /       guidato da un fanciul che non ha possa,

ch’egli potria disfar con una scossa:     /            ma lo teme e lo serve a tutti i spassi. Né sa quanto è temuto, ché i bombassi   /   fanno un incanto, che i sensi gli ingrossa.

Cosa stupenda! e’ s’appicca e imprigiona /con le man proprie, e si dà morte e guerra per un carlin di quanti egli al re dona.

Tutto è suo quanto sta fra cielo e terra,     /      ma nol conosce; e, se qualche persona di ciò l’avvisa, e’ l’uccide ed atterra.

Nella sua autobiografia poetica fra Tommaso accetta il martirio come prova di Dio, misteriosa e purificatrice, ma più spesso offre i suoi dolori, sofferenze di un giusto ingiustamente perseguitato, per il riscatto di tutti i fratelli. E poi scrive versi di invettiva furibonda contro i tiranni politici e spirituali.

La vita.  L’esistenza del nostro poeta fu piena di traversie spesso atroci, sullo sfondo di un universo carcerario: 27 anni passati nelle galere spagnole e poi in quelle dell’Inquisizione romana, con l’accusa di eresia, magia e rivolta contro il regno di Spagna. Domenico Campanella era nato il 5 settembre 1568 a Stilo, in Calabria, da una povera famiglia di contadini. A quindici anni entrò nell’ordine domenicano e prese il nome di Tommaso. Nel 1589, a 21 anni, si trasferì a Napoli. Le sue simpatie per il pensiero naturalistico di Telesio e per il sistema copernicano determinarono la rottura con le autorità ecclesiastiche che nel giro di pochi anni lo sottoposero a ben quattro processi. A Roma, nel 1594, il Tribunale dell’Inquisizione condannò le sue teorie, lo costrinse a sconfessarle e lo rinchiuse nei conventi di Santa Sabina e di S. Maria sopra Minerva. Nel 1597 fu costretto a tornare in Calabria; qui organizzò una cospirazione contadina anti-spagnola e per costruire una società egualitaria; la congiura fallì e nel 1599 Campanella fu portato a Napoli, processato per ribellione ed eresia, torturato e condannato a morte; si salvò fingendosi pazzo. Restò rinchiuso nelle carceri di Napoli fino al 1626, prima nella terribile fossa sotterranea del Castello di S. Elmo (che egli chiamò il Caucaso), poi a Castel dell’Ovo. Nel 1633 si rifugiò in Francia, dove morì nel 1639. Le poesie di questo frate irrequieto e anticonformista, 89 testi in vario metro, furono pubblicate per la prima volta in Germania nel 1622 da un amico e allievo.

Campanella era intervenuto direttamente con l’azione e con le parole nelle cose del mondo; poi, costretto al carcere, aveva tentato di capire le radici più profonde di quella che lui chiamava “corruzione presente”, quella corruzione che negli anni precedenti aveva cercato di combattere direttamente con la rivolta politica e sociale. Ha scritto recentemente Ylenia Fiorenza in un suo saggio che la sua “è la storia di chi ha scritto parole crude perché vere, vissute sulla linea di confine e di congiungimento, dove l’utopia e la forza morale combattono quell’inevitabile lotta che ha come posta in gioco la libertà interiore”.

Alcuni si sono chiesti: fra Tommaso fu un cattolico molto critico ed eterodosso, oppure un riformato protestante prudente? Non so quale tipo di risposta si possa dare ma è necessario sottolineare che in lui riemerge il grande tema della dissimulazione, inevitabile accorgimento per sopravvivere nella scena politica e civile dell’Italia barocca. Già cento anni prima circa Machiavelli, scrivendo al Guicciardini il 17 maggio 1521, aveva affermato: “Da un tempo in qua, io non dico mai quello che io credo, né credo mai quel che io dico, et se pure e’ mi vien detto qualche volta il vero, io lo nascondo fra tante bugie, che è difficile a ritrovarlo” (A. Asor Rosa, Genus italicum, Einaudi, 1997, p. 365). Un altro frate, il servita veneziano Paolo Sarpi, in una lettera del 12 maggio 1609, confidava all’amico J. Gillot: “Io sono di indole tale che, come il camaleonte, prendo i modi di comportarmi dai miei interlocutori; ma quei modi che attingo dai subdoli e malvagi li prendo a malincuore nell’intimo, mentre quelli che sono gioviali e senza infingimenti li assumo spontaneamente e di buon grado. Una maschera sono costretto a portare; sebbene in Italia nessuno possa nulla senza di essa” ( ibidem, p. 366).

Come tutte le persone complesse Campanella era composto di molti pezzi di io, diversi e opposti tra loro: oscillava tra fede e disinganno, tra fiducia e scetticismo. Gli sembrava che nella vita nulla fosse esattamente come sembra: i sentimenti non erano mai diritti e non si intersecavano mai secondo angoli regolari, così che la realtà sfuggiva a qualsiasi rete ideologica e psicologica. Io credo che Campanella abbia tentato di unire nella sua ricerca intellettuale e nella sua eroica coerenza morale la coscienza e l’onore, la fede e il civismo, il credente e il cittadino, la tradizione culturale laica e l’autentico rinnovamento religioso, in una società impaurita e repressa, in mezzo ad un’umanità di maschere.

                                                         Gennaro  Cucciniello