Agosto 1588. Il mistero dell’Invincibile Armada.

L’ultimo mistero dell’Invincibile Armada, agosto 1588

Marco Cicala scrive delle ultime scoperte: ritrovati, dopo 425 anni, i resti della più grande nave spagnola che partecipò alla spedizione contro gli inglesi. La “Ragazzona” era un galeone veneziano affittato da Filippo II per l’impresa, che finì in un flop e in un giallo.

L’articolo è stato pubblicato ne “Il Venerdì di Repubblica”, 3 maggio 2013.

La spedizione. Luglio 1588. Con 130 navi, l’Armada spagnola entra nel Canale della Manica. Obiettivo: congiungersi con l’esercito delle Fiandre e invadere l’Inghilterra.

  1. Gli scontri. Davanti ai galeoni inglesi, gli spagnoli hanno la peggio. La flotta di Elisabetta I lancia sul nemico i brulotti, navi incendiarie.
  2. La fuga. Fallito il congiungimento con le truppe di terra, l’Armada inizia un disastroso viaggio di ritorno, aggirando Gran Bretagna e Irlanda.
  3. I naufragi. Molte delle navi spagnole affondano nelle acque irlandesi. A terra, i sopravvissuti vengono uccisi o depredati. La flotta perderà sessanta vascelli.
  4. La disfatta. In Spagna torneranno 4mila marinai su 7mila e soltanto 9mila dei 19mila soldati. E’ l’inizio del declino spagnolo e del dominio inglese.La nave era figlia dei maestri d’ascia veneziani. Una signorina da 1300 tonnellate. Lunga 36 metri, larga 12. Data la stazza, a Venezia l’avevano battezzata La Ragazzona. Sarebbe diventata la nave più imponente di quella che per gli spagnoli fu la Gran y Felicìsima Armada, e che –per sfotterli dopo il disastro- gli inglesi rinominarono Invincibile.Mercantile riadattato a macchina da guerra –a bordo 30 cannoni, 300 soldati, 80 marinai- La Ragazzona sopravvisse al fiasco militare del secolo ma finì silurata dalla sfortuna. Rientrando in Spagna svanì nella tempesta a un soffio dal traguardo. Il mistero dura da 425 anni. Ora un’equipe di archeo-sub potrebbe scioglierlo. Tutto ha preso il via lo scorso marzo. Con sette pezzi di artiglieria ripescati in fondo alle acque della Rìa de Ferrol, insenatura a una cinquantina di chilometri da La Coruna, Galizia. I resti “sono sparpagliati su un’area di 900 metri quadrati. A dodici metri di profondità. Non molti. Ma tenga presente che il galeone andò a sfasciarsi contro la costa” racconta David Fernàndez Abella, a capo degli archeo-detective. Era la notte dell’8 dicembre 1588. Dopo mesi di orrore, La Ragazzona avvistava le terre dalle quali era partita. Provata, ma non doma. Un’enorme carcassa galleggiante: le vele a stracci, l’alberatura pericolante, le ancore perdute. Venne impugnata dalle galerne –i venti che frustano il Nordovest spagnolo- e gettata sugli scogli.

    I ricercatori si fregano le mani. Ma per scaramanzia non si sbilanciano: “C’è un 95% di probabilità che i reperti appartengano alla grande nave veneziana, costruita a Ragusa (oggi Dubrovnik) –Croazia- e affittata da Filippo II per la spedizione in Inghilterra”. Divorato dagli xilofagi, del legno non resta nulla. Finora i fondali hanno restituito solo pezzi metallici individuati al magnetometro sotto spesse concrezioni. Cannoni. Ma perché sul luogo del relitto non si è trovato alcun elemento in ceramica che avrebbe facilitato la datazione dei resti? “In effetti è strano”, dice Fernàndez Abella. “Questo e le scalfitture che abbiamo riscontrato sulle concrezioni rafforzano il sospetto che la zona sia stata visitata”. Predatori dell’Armada perduta. Si continuerà a frugare nei fondali. Alla maniera di CSI –perché l’area di un antico naufragio assomiglia molto a una “Scena del Crimine”. “Tutto viene analizzato in situ. E lasciato lì. Rimuovere reperti, portarli in superficie, significherebbe sconvolgere il contesto in cui sono stati trovati. Che è decisivo per qualsiasi indagine. D’altronde, asportare i pezzi potrebbe deteriorarli ancora di più. Oltretutto, una convenzione Unesco stabilisce che –nella misura del possibile- le vestigia debbano rimanere nell’ambiente sottomarino. Sa, anche i fondali sono Patrimonio dell’umanità”.

    Nei secoli, sulla tragedia dell’Armada si sono incrostate matasse di leggende, fanfaluche o più semplicemente distorsioni propagandistiche. Per la maggior parte made in England – visto che il respingimento della flotta spagnola sarebbe diventato mito fondativo della supremazia inglese sui mari ed emblema dell’inviolabilità dell’albionico suolo. Ma storici e scienziati hanno ormai smontato parecchie di quelle fole. A cominciare dalla presunta inferiorità elisabettiana davanti al colosso invasore: il cliché di un’Inghilterra-Davide contro una Spagna-Golia. Balle. Per affrontare i 130 vascelli inviati da Filippo II la Royal Navy ne schierò 160 e rotti. Certo, la Mayor flota jamàs vista desde la creaciòn del mundo metteva paura. Nella caratteristica formazione a mezzaluna –architettata per attanagliare il nemico in un abbraccio mortale- l’Armada si sgranava lungo quasi 4 chilometri. A Lepanto, tutto aveva funzionato benone. Nella missione oltremanica andò altrimenti. Perché solo una minoranza dei bestioni spagnoli erano galeoni da combattimento. Per lo più “si trattava di mezzi per il trasporto delle truppe da invasione. Navi che gli ampi scafi e i pesanti carichi rendevano impacciate e vulnerabili” scrivono l’archeologo sottomarino Colin Martin e il migliore specialista di Filippo II, lo storico Geoffrey Parker, in “La Gran Armada” (edizioni Planeta; in italiano si veda l’ottimo “La disfatta dell’Invincibile Armada” di Antonio Martelli, il Mulino). Alla dismisura spagnola gli inglesi opposero navi snelle e dinamiche, prive dei tronfi castelli di poppa e di prua; vascelli capaci di zigzagare in mezzo alla flotta nemica “scaricando due bordate dei nostri cannoni per ognuna delle loro”, raccontava un ufficiale.

    Ecco, l’artiglieria. Pare ormai assodato che la potenza di fuoco dell’Armada fosse inferiore a quella inglese. Non solo. I cannoni spagnoli erano montati su affusti a due ruote (quelli della Navy, più agili, su quattro), impediti da lunghe code e assai macchinosi da ricaricare. Se però la Gran y Felicìsima ne fece scarso uso –come testimoniano le grandi quantità di munizioni inutilizzate ritrovate in seguito- fu soprattutto per ragioni di tecnica militare. Sui galeoni spagnoli era consuetudine sparare poco. Giusto qualche salva per creare scompiglio tra i nemici prima di abbordarli e giocarsi la partita nel corpo a corpo. Gli ammiragli di Filippo II rimanevano fedeli a quanto ribadito, ancora nel 1592, dal trattatista italiano Eugenio Gentilini, circa la necessità di evitare il ferir da lontano, essendo el principal fine l’abordarsi e combatter a la corta et alla stretta in poca distanza.

    Ma in nessuno dei duelli sulla Manica gli inglesi si lasciarono abbordare. E, compresi quelli del 7-8 agosto 1588 –che videro Drake &co. impiegare i leggendari brulotti (sorta di droni-kamikaze, navi senza uomini, imbottite di esplosivo e lanciate a bomba sul nemico)- gli scontri non furono mai grandi battaglie. Del resto, l’obiettivo dell’Armada non era sbaragliare la flotta elisabettiana, ma puntare verso le Fiandre per congiungersi con le truppe di terra, 27mila uomini, inclusi i micidiali e odiatissimi Tercios, radunati dal feroce duca di Parma Alessandro Farnese, il miglior generale dell’epoca. Scortati dall’Armada –a sua volta forte di 19mila soldati e 7mila marinai- i mezzi da sbarco avrebbero dovuto raggiungere l’estuario del Tamigi e risalire fino a Londra per disarcionare Elisabetta –l’empia sovrana protestante- e ricondurre l’Inghilterra (secondo Madrid, autentico Stato Canaglia) nel grembo della cattolicità. Una jihad. Preceduta da vaste processioni popolari e accompagnata da tre ore di preghiera quotidiana dell’intera corte all’Escorial, la spedizione fu governata dalla più rigida disciplina religiosa anche a bordo. Sulle navi erano severamente proibiti il gioco, la bestemmia e il pecado nefando della sodomia. Solo un vascello, il Santiago, imbarcava donne: 32 mogli di soldati.

    Maxi-flop più che disfatta, El Gran Designio che Filippo II riteneva telecomandato direttamente da Dio naufragò per errori di comunicazione (il duca di Parma conobbe solo all’ultimo le date dell’operazione), per l’eccezionale maltempo (a luglio pareva dicembre) e per le innovazioni belliche sfoderate dagli inglesi (alle quali, ironia, aveva contribuito proprio Filippo II modernizzando la Navy durante il breve matrimonio con Maria Tudor).

    Ma la vera catastrofe sarebbe cominciata a ostilità concluse. Quando, mancata la connessione con l’esercito delle Fiandre, dispersa e risucchiata dai venti verso il Mare del Nord, l’Armada in rotta decise di riguadagnare la Spagna senza ripassare dalla Manica, sbarrata dalla Navy, ma circumnavigando Gran Bretagna e Irlanda. Un periplo di 2625 miglia nautiche, oltre 4860 chilometri. Durante i quali imperversarono epidemie, fame, e tutti gli animali da traino –cavalli, muli- vennero scaraventati in mare per risparmiare acqua. “Un viaggio di Magellano” lo definì, sarcastico, il comandante Alonso Martìnez de Leyva, che forse è uno di quei gentiluomini dal volto oblungo ritratti da El Greco, e che, a largo di Londonderry, naufragò sulla galeazza Girona assieme alla meglio nobiltà di Spagna (in proporzione, l’aristocrazia soffrì più perdite che non la plebe). Smarrite in acque incognite e ostili, oltre 60 navi sparirono durante la fuga.

    Gli spagnoli speravano nella solidarietà dei cattolici irlandesi. Che invece –temendo le punizioni dei padroni inglesi- si gettavano sui naufraghi per depredarli. Dal suo vascello in procinto di affondare, il capitano Cuéllar osservava la spiaggia: “Era piena di nemici che danzavano sulla nostra disgrazia e appena uno di noi toccava terra gli si avventavano addosso a centinaia lasciandolo nudo come un verme”. Per gli inglesi le consegne erano chiare: i fuggiaschi spagnoli andavano sterminati. Magari facendoli passare nel corridoio della morte, tra due file di uomini che li massacravano a colpi di spada, mazza, coltello. Un occhio di riguardo solo per gli appartenenti alla nobiltà: furono rimpatriati dietro pagamento di congrui riscatti. Contrariamente alla vincitrice Elisabetta, che dopo l’impresa lasciò novemila dei suoi uomini morire di tifo e di dissenteria, lo sconfitto Filippo si distinse per clemenza e pietà. Non imputò il fallimento all’ammiraglio capo, il duca di Medina Sidonia (che aveva accettato l’incarico con estrema riluttanza): non lo privò dei titoli e accettò che tornasse negli ameni possedimenti andalusi. Quanto ai reduci, si spese affinché fossero congedati con equi indennizzi. Intellettuale umbratile, schiacciato dal massiccio fantasma del padre Carlo V, el Rey prudente incassò il grande smacco con l’abituale aplomb. Dio gli aveva voltato le spalle? Pazienza: “Lodiamo comunque Iddio”.

    L’Armada rientrò in Spagna con meno di 4mila dei 7mila marinai inviati, e con solo 9500 dei 19mila soldati. Una desgracia digna de llorar toda la vida, da piangerci su una vita, scrisse un monaco di corte. A uscirne più malmenata di tutte fu la Squadra di Levante, quella delle navi mediterranee di cui faceva parte La Ragazzona. Sembra che prima del naufragio buona parte dei cannoni fu salvata. Nel 1589 questo residuo d’artiglieria sarebbe stato riutilizzato nella difesa della Coruna contro l’assalto di Francis Drake. A guidare quella mini-rivincita fu la pasionaria Marìa Pita, che oggi svetta in bronzo sulla piazza principale della città. Ma forse è propaganda pure questa.

    Gennaro Cucciniello