Alberto Cairo, medico: più di 30 anni di vita a Kabul.

Alberto Cairo, medico: Una vita a Kabul

Pochi giorni fa Alberto Cairo ha compiuto 70 anni, quasi la metà dei quali passati negli ospedali dell’Afghanistan.

 

Dal 1990 lavoro in Afghanistan per la Croce Rossa Internazionale e per NOVE, organizzazione italiana che si occupa di donne e persone disabili. Oltre trent’anni fitti di eventi clamorosi o nascosti, drammatici o da ridere, così tanti che fatico a metterli in ordine. Per aiutarmi, li collego a persone e fatti precisi attraverso i cinque regimi politici che ho visto. L’attuale è il quinto. Niente dura in Afghanistan, dice la gente per darsi coraggio.

Un Pashtun comunista.

Al mio arrivo, il 28 agosto 1990, al potere è il filosovietico Najibullah. E’ in guerra con la resistenza mujaheddin. Questa, armata dall’Occidente, controlla le campagne e bombarda le città. Le vittime civili sono tante. La Croce Rossa Internazionale mi assegna al suo ospedale per feriti di guerra, fisioterapista. Di quei giorni conservo il ricordo del mio primo giorno nella corsia. E l’odore di disinfettante e la vista di corpi ai quali, nessuno escluso, mine antiuomo hanno strappato qualche cosa. Mi immergo in una violenza che ferisce famiglie e comunità. Io che potrò fare? Sarò all’altezza del compito? Preso dal lavoro mi accorgo appena di quanto in fretta Kabul stia cambiando. I filobus ancora funzionano e con autiste donna: la gente si innamora di Michele Placido in televisione con La piovra (successo ineguagliato), Al Bano e Romina cantano Felicità a tutte le ore; i cinema sono affollati, le ragazze vanno in giro a capo scoperto, le gonne al ginocchio e pantaloni attillati. Ma le ambasciate chiudono, le organizzazioni riducono il personale, tanta gente parte.

Dell’Afghanistan in realtà non so nulla. Due persone mi aiutano a conoscerlo un po’. Latif, un anziano professore, e Gulalai, cuoca nella casa in cui abito. Gentili tra loro, in realtà si detestano: Latif è comunista convinto, a Gulalai la polizia politica ha arrestato il marito. Da un anno vive nell’attesa di notizie. “Ogni giorno centinaia di famiglie piangono”, accusa. Latif non è d’accordo. “Fermano chi sostiene i mujaheddin”. Ma a sparire sono anche comunisti di fazioni rivali, basta un sospetto. Con Latif scopro le tradizioni dell’Afghanistan, affascinanti e opprimenti. Spesso sanguinarie. Ospitalità sacra, matrimoni combinati, rispetto per gli anziani, leggi tribali più forti della religione, vendette. E le etnie: i pashtun che si sentono per diritto padroni, i tajiki (classe media e colonna portante dello Stato), gli hazara dai tratti orientali (da sempre bistrattati), gli uzbeki, forti nelle province al Nord. Mi rivedo seduto nel salùn, il soggiorno, ascoltare Latif per ore, con Gulalai in cucina attenta a ogni parola. Ha due assolute certezze: le etnie, vera piaga, dilaniano il Paese; i mujaheddin, ignoranti e feroci, lo distruggeranno. Nell’aria c’è un senso di penosa attesa misto a speranza. Il regime cadrà, sarà sparso sangue, ma arriverà la pace. Gulalai alla pace non crede, ma spera pure lei: sconfitti i comunisti, il marito tornerà. Latif non ha dubbi: i mujaheddin porteranno il Paese indietro di 100 anni, ma si augura prevalgano i pashtun come lui. Il suo comportamento a poco a poco a poco cambia, dimentica il comunismo, diventa pio e si fa crescere la barba. Gulalai ride di lui.

Il trionfo dei mujahiddin.

A fine aprile 1992, i mujaheddin prendono Kabul. Il mio secondo regime comincia. Arrivano televisioni e giornalisti, il mondo e la pace sembrano vicini. Invece le fazioni si battono nelle strade per il controllo della capitale. “Cosa ti dicevo?”, ripete Gulalai, alla quale le prigioni svuotate non hanno riportato il marito. Dei mujaheddin la stampa estera diceva cose mirabolanti. Campioni della libertà, eroi senza paura, martiri. Visti all’opera da vicino, l’aura si perde. Rappresaglie e vendette si inaspriscono lungo linee etniche. Gulalai vorrebbe tornassero tutti ai loro villaggi, Latif sostiene la fazione pashtun, disprezza le altre. Un fiume di gente fugge, destinazione Pakistan, Iran, Russia, sognando Europa, Australia, America. Quando, dopo settimane, faccio un giro per la città, stento a credere ai miei occhi. Edifici distrutti, poche donne in giro, a capo coperto o in burqa, carri armati agli incroci, ovunque giovani armati fino ai denti.

Ma le immagini più vive che serbo sono quelle del caos per la bomba che un giorno colpisce l’ospedale, il terrore sui visi di chi è immobilizzato a letto, l’impotenza nostra. Ne cadranno altre? Cosa fare? Per precauzione siamo evacuati in Pakistan. L’ospedale passa al ministero della Sanità, la Croce Rossa continua ad aiutare, ma non è più suo. Altro ricordo: l’angoscia sul viso dei colleghi afghani che restano soli e il mio dolore nel partire, come un tradimento. Dubito che tornerò mai. Invece qualche settimana dopo sono nuovamente a Kabul, stavolta nella clinica-centro di riabilitazione, protesi e fisioterapia.

Cerco Gulalai e Latif. Nessuno sembra sapere nulla. Forse sono in India, mi dicono. Il nuovo lavoro è discontinuo: poiché dare protesi non è considerata attività salva-vita, la clinica chiude appena c’è sentore di nuovi attacchi. Niente riabilitazione fisica sotto le bombe, è la spiegazione. Ai disabili non resta che aspettare.

Incontri che tutto cambiano.

Dei primi giorni alla clinica ricordo Fawsià, fisioterapista. Sempre in lacrime. Non è per le bombe, mi dicono. Il marito ha un’altra moglie, l’ha appena scoperto. Malgrado sia lei a mantenere la famiglia, lui non l’ha neppure avvertita. Ha sposato Fawsià per amore, contro il parere dei genitori. Per fare pace, ha ora preso anche quella che i genitori avevano scelto. Depressa, Fawsià vuole licenziarsi, lasciare il marito. Non fa in tempo. Il primo gennaio del 1994 Kabul si sveglia al boato delle bombe. Mujahiddin hazara, pashtun e uzbechi, alleati, attaccano i tagiki del comandante Massud. Il fronte attraversa la città e si sposta distruggendo. La clinica protesi chiude, la Croce Rossa lavora per rifornire gli ospedali di medicine e gli sfollati di coperte e cibo. Vado in giro per una Kabul irriconoscibile, con moschee, scuole e palazzi in costruzione diventati dormitori di senza casa. Vedo il peggio in una fattoria dove a ogni famiglia è assegnato lo spazio previsto per una coppia di mucche. Per strada vedo persone conosciute. “Esci di casa e non sai se torni. Torni e non sai se trovi la casa”, piangono. Il mondo ha voltato le spalle all’Afghanistan. Mi sento solo pure io.

E’ allora che incontro Mahmùd. Per tutti c’è un prima e un dopo. Da allora la mia vita e il mio lavoro non saranno più gli stessi. Sto tornando da una distribuzione di cibo in una moschea, quando una bomba cade con gran fracasso. La strada si fa deserta, resta un uomo in carrozzina. E’ in difficoltà. Vincendo la paura mi avvicino. Le ruote anteriori sono finite in una buca, l’uomo è senza gambe e ha un solo braccio, il bambino che è con lui è troppo piccolo per liberarle. Sotto un portico, finalmente al riparo, chiedo cosa facciano in giro. “Lavoro”. “Non hai le protesi?”, domanda sciocca. “La clinica è chiusa”. “Vieni domani”, dico d’istinto. Verrà, assicura. Subito mi rimprovero. Perché promettere? Il laboratorio è chiuso, il personale a casa. Spero non si presenti. Invece all’alba è già là, ha attraversato la città nella notte. E con lui altri che chiedono gambe nuove o riparazioni. C’è anche Nadim, il mio traduttore, assieme a una decina di impiegati. Vengono ogni giorno a vedere se la clinica riapre (niente telefoni allora), dicono i guardiani. In lontananza si sentono bombe cadere: “Non potete restare”, ammonisco. Ricordo la voce di Nadim, ferma: “Mandarli via non si può”. Resisto, Nadim insiste. Riluttante, accetto. Devono fare da sé, avviso, io continuo con il lavoro per gli sfollati.

La lotta tra fazioni mujaheddin non accenna a fermarsi. La coalizione contro Massud, sconfitta, lascia la capitale ma continua a bombardarla. Intanto a Kandahar, provincia del Sud, spunta un gruppo nuovo. Talebani si fanno chiamare, studenti coranici. Sono diversi dagli altri, si dice, non rubano e cacciano i mujaheddin. In poche settimane catturano intere province, vi portano pace. Nadim è scettico: sono tutti pashtun, quali i rapporti con le altre etnie? Rivedo Fawsià. Non si è licenziata e non ha lasciato il marito. Qui avere una seconda moglie è lecito, di cosa potrebbe accusarlo? Ed è incinta. Mahmùd riceve le protesi un mese più tardi. Non è stato facile, ha dei brutti monconi. Ogni giorno ha fatto avanti e indietro attraverso il fronte. “Mi conoscono e salutano” racconta. Un mujaheddin ha persino regalato al figlio un pallone. E’ irriconoscibile. In carrozzina sembrava piccolo, schiacciato, lo sguardo sempre basso. Ora, in piedi, mi fissa negli occhi, sicuro. Niente riabilitazione fisica sotto le bombe, dicevamo? Le protesi non saranno salva-vita, ma averle la cambia. A Mahmùd hanno ridato altro: una cosa che si chiama dignità. Può questa aspettare tempi migliori? Come non capire prima? Osservandolo mentre lascia la clinica spingendo la carrozzina vuota, il figlio per mano, sono contento, ma ho sensi di colpa. La clinica non chiuderà mai più.

Arrivano i Talebani.

  1. Primo governo talebano. Attesi dalla popolazione stanca dei mujaheddin, fin dal primo giorno creano sconcerto esponendo il cadavere dell’ex-presidente Najibullah, fino ad allora recluso nella sede delle Nazioni Unite. Anziché sfamare la gente, subito cominciano a emanare editti sconcertanti. Scuole e lavoro preclusi alle donne, barbe obbligatorie per gli uomini, severe ronde della polizia religiosa, niente musica, televisione o fotografie, preghiera forzata. Le bombe smettono di cadere sulla città, il numero di furti diminuisce, la sicurezza migliora per i pashtun, l’etnia dei Talebani. Peggiorando l’economia. Non si vede futuro. “Andiamo avanti come muli bendati”, dice Nadim, il traduttore nel frattempo promosso mio assistente. Solo poche province resistono ai nuovi governanti. Il Paese è completamente isolato dal mondo. Rari i giornalisti, niente telefoni, internet è lontana da venire. Un nuovo fiume di gente si riversa nei Paesi vicini, molti per permettere alle figlie di studiare. Alla clinica –poiché struttura medica- le donne continuano a lavorare, a condizione non abbiano alcun contatto con gli uomini. Creiamo porte segrete. Tante le amputazioni di mano per i condannati per furto, come se gli amputati da mina non bastassero.

Ma ecco, torna Mahmùd. E molte cose cambiano. Vuole parlarmi. Da solo, dice, Sembra quello dei primi tempi, a testa bassa. Esita, poi parla a raffica. “Mi avete insegnato a camminare, grazie. Ora aiutatemi a non mendicare più: i figli non devono vergognarsi”. Tira il fiato. Penso a quanto denaro ho in tasca. Mi legge nel pensiero. “Non voglio soldi, ma un lavoro”. Poi dice una frase che mai scorderò. “So di essere un avanzo d’uomo, ma se mi aiuti, farò qualsiasi cosa, dovessi strisciare”. Poi si siede. Lo faccio pure io, la pelle d’oca. Solo per consolarlo prometto di pensarci. Vuole un lavoro. Quale? Analfabeta, senza gambe, con un braccio solo. Nadim propone una prova nella falegnameria che non produce abbastanza piedi. Occorre qualcuno che incolli le suole. “Ha un braccio solo, non reggerà il ritmo”, gli ricordo. “In prova per un mese”, insiste. Mi sembra crudele provare sapendo che fallirà. “Basterà qualche modifica agli attrezzi di lavoro”, promette. Va bene, proviamo. Ma una settimana solamente. Dopo 7 giorni la produzione è aumentata del 20%. Non ci credo, è un trucco. Verifico due volte. Mi spiegano che Mahmùd è stato in difficoltà solo il primo giorno, poi si è organizzato. Non smette un momento di lavorare. “Ha qualcosa da provare”, dice Nadim.

Oh Mahmùd! Non esistono avanzi d’uomo. Siamo noi, io, a renderli tali, rifiutando loro delle opportunità. Come non capirlo? La decisione è presa, formeremo e daremo lavoro solo a persone con disabilità, maschi e femmine, in ogni ruolo. In un momento così difficile è un dovere. Quando sembra che i Talebani stiano per prendere tutto il Paese, l’11 settembre 2001 a New York avviene l’inimmaginabile. Un nuovo capitolo comincia.

La fine dell’isolamento.

Novembre 2001, i Talebani sono sconfitti. Truppe straniere arrivano in gran numero, la ricostruzione comincia, il denaro si riversa a fiumi, le scuole riaprono a maschi e femmine, televisione, telefoni e internet rompono l’isolamento dal mondo. Per la prima volta da Pakistan e Iran tornano a migliaia i rifugiati. Torna, ma solo in visita, anche Gulalai con i figli. Era in Canada, racconta, hanno aperto un ristorante, gli affari vanno bene. Piange parlando del marito, una ferita mai rimarginata. Chiede di Latif. Non ne so nulla. Chiedo perché non le piacesse. “Faceva la spia per i comunisti”, ne è certa.

Il nostro lavoro va a gonfie vele, traslochiamo in un posto migliore, le impiegate respirano, molte abbandonano il burqa. Iniziano programmi sportivi per disabili, pallacanestro in carrozzina, le ragazze viaggiano e vincono tornei internazionali. Niente sembra impossibile. Invece un grave quesito si fa strada, quello che mi pose Tiziano Terzani quando venne, incantando l’intera clinica. “La democrazia occidentale è la strada giusta qui?”. Ero rimasto a bocca aperta come uno sciocco, fra incapacità ed emozione.

Tanti ora sono perplessi. Gli stranieri sbandierano la parola democrazia a ogni occasione, convinti che l’Afghanistan la voglia adottare senza riserve, come un bambino. Non funzionerà. Se democrazia deve essere, sia all’afghana. La perplessità è ignorata. Intanto la corruzione cresce, il Paese si frammenta, le etnie –sempre loro- sono in lotta. E i Talebani si rafforzano. Cominciano i primi attacchi suicidi. Altre guerre e tragedie sottraggono all’Afghanistan l’interesse del mondo. Con quello scema l’ottimismo. Immutabili, sembrano resistere solo usanze e costumi. Un giorno trovo Fawsià in lacrime. Litigi in casa. Il primogenito si vuole sposare con una ragazza non scelta dalla famiglia, spiega. “Tuo marito ha fatto lo stesso con te”, le ricordo sorpreso. Scuote il capo. “Porterà guai. E’ promesso a una cugina fin da quando era bambino. Le tradizioni…” Essere nel Duemila non sembra contare. “Nel caos sono l’unica certezza –spiega Nadim- la nostra identità”.

Andiamo avanti come muli bendati”.

Il nuovo regime dura venti anni, ma il tempo sembra trascorrere più veloce di ogni altro precedente. Gli ultimi anni vedono la sicurezza diminuire, il governo controllare le città, I Talebani strade e campagne. Non ci sono bombardamenti, ma esplosioni e attacchi suicidi ogni giorno. A farne le spese soprattutto l’etnia hazara, a maggioranza sciita. L’Occidente decide di lasciare l’Afghanistan. Gli Usa di Trump cominciano trattative dirette con i Talebani a Doha. A luglio 2021 parte l’offensiva talebana per arrivare a Kabul. Vi entrano il 15 agosto. Il mio quinto regime comincia, il secondo talebano. Il panico è generale, tanti fuggono. Le immagini dell’aeroporto preso d’assalto fanno il giro del mondo. Molte organizzazioni internazionali chiudono: la Croce Rossa Internazionale resta. Ricordo il primo gruppo di talebani amputati che viene a chiedere protesi: guardinghi e un po’ persi. Trascorro ore a consolare gli impiegati, “Coraggio, non disperate”, ma non convinco. Le donne spariscono dalla vita pubblica, le ragazze sono escluse dalle scuole superiori, lo sport femminile è considerato inutile e immorale. L’etnia pashtun ha assoluto potere, le altre sono tollerate. Le banche sospendono le attività, ministeri e scuole sono chiusi, i disoccupati un mare. I Talebani comandano, tocca a loro governare adesso, invece niente. Paralisi. La gente vive alla giornata, non vede futuro. Ricordo le parole di Nadim di vent’anni fa: “Andiamo avanti come muli bendati”. Ecco, ci risiamo.

 

                                                        Alberto Cairo

 

Questo articolo di ricordi di Alberto Cairo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 20 maggio 2022, alle pp. 30-35.