Belli. Sonetti. “Er tempo bono”, 28 settembre 1831

Belli. Sonetti. “Er tempo bono”

 

E’ cosa nota che Belli, sperimentatore irrefrenabile in fatto di soluzioni linguistiche, andasse in giro per Roma munito di penna e foglietti, annotando con precisione di cronista esclamazioni, modi di dire, interi brani di dialoghi che sentiva dai suoi interlocutori popolari. E’ anche vero che il romanesco di allora non era una lingua molto omogenea. Per più ragioni. Nella prima metà dell’Ottocento l’antico dialetto romanesco –che era più simile al napoletano  (come si può dedurre dalla trecentesca e bellissima “Vita di Cola di Rienzo”)- era quasi scomparso dalla città. Da una parte, infatti, il sacco del 1527 e le epidemie avevano quasi spopolato Roma dei suoi abitanti originari, dall’altra lo Stato Vaticano ha sempre avuto una classe dirigente non locale. I cardinali arrivavano qui dalla Lombardia, dall’Emilia come dalla Campania e dalla Sicilia. In particolare la Curia romana è stata soggetta a una forte toscanizzazione già dal ‘400, con il risultato che anche la borghesia aveva preso a sdegnare un dialetto col quale si esprimevano solo le classi popolari e che perciò immediatamente denunciava il basso livello sociale di chi lo parlava. Diventata la lingua dei miserabili e dei reietti (a differenza del milanese usato da Porta, che era parlato dal popolo ma anche dalla famiglia Manzoni), il dialetto romanesco acquista anche una sua grandiosa espressività, tragica e grottesca insieme: è un volgare duro, sguaiato, incazzoso e sfottente, la lingua del sesso, della violenza, della miseria estrema, dell’empietà, del ghigno beffardo e sarcastico con il quale l’oppresso reagisce ai soprusi.

A volte sembra che quei popolani non conoscano la differenza tra umano e disumano. Tutto ciò che accade confonde il loro agire con l’agire naturale degli elementi. La violenza di un temporale, il flagello del vento, l’implacabilità del sole, l’avarizia della terra, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non sono semplici dettagli atmosferici ma la culla di sordide e violente tragedie. A volte i personaggi non sanno neppure perché uccidono e, se uccidono, a volte non ricordano neppure perché fuggono e da chi. C’è uno stordimento che confonde torti e colpe e allinea le loro azioni all’istinto degli animali braccati. E’ un’umanità minore e dannata che, inconsapevole, agisce fuori dalla storia (v. il sonetto “er lupo manaro” del 15 gennaio 1833). Non conoscono la trama della loro infelicità, non ne intuiscono le conseguenze: continuano a vivere dentro la sventura ignari del proprio destino. Ma così riescono ad assaporare anche tante gocce di breve contentezza. “La coscienza che nulla può cambiare (nella mente del popolano le rovine della Roma antica testimoniano questo) accomuna tutti i personaggi. Allora unica difesa dei poveracci è il buon senso, la capacità di prendere la vita con filosofia; dalla descrizione di questo atteggiamento nascono parecchi sonetti nei quali donne e uomini, vecchi e disillusi, traggono le conclusioni della loro esperienza per trasmetterla a chi non sa ancora come vanno le cose del mondo. Sono questi i temi della meditazione sulla morte, sulla vecchiaia, sulla fugacità della bellezza, sull’illusorietà delle speranze in un domani migliore, risvolto amaro delle risate beffarde, degli insulti triviali e degli scherzi”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

 

 

“Er tempo bono”           28 settembre 1831

 

Dimani, s’er Ziggnore ce dà vita,

Vederemo spuntà la Cannelòra.

Sora neve, sta buggera è ffinita,

C’oramai de l’inverno semo fora.                              4

 

Armanco ce potemo arzà a bon’ora,

Pe annà a beve quer goccio d’acquavita.

E ppoi viè marzo, e se pò stà de fora

A ffà du’ passatelle e una partita.                                      8

 

St’anno che me s’è rotto er farajolo,

M’è vienuta ‘na frega de geloni

E ppe ttre mesi un catarruccio solo.                        11

 

Ecco l’affetti de servì ppadroni

Che commatteno er cecio cor faciolo,

Sibbè, a ssentilli, sò ricchepulloni.                                     14

 

Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, DCD).

 

                                      Il tempo buono

Domani, se il Signore ci mantiene in vita, vedremo spuntare la Candelaia (è la festa della Purificazione di Maria (il 2 di febbraio), giorno nel quale nelle chiese si benedicono le candele). Sorella neve, questa fregatura è finita, ormai siamo fuori dall’inverno (a Roma c’era questo proverbio; Belli annota che “con altri due mesi di giunta si verifica sempre”). Almeno ci potremo alzare a una buon’ora, per andare a bere quel goccio d’acquavite. E poi viene marzo, e si può stare fuori a fare il gioco della “passatella” (nel Napoletano si chiama “padrone e sotto”, un gioco che consiste nel bere vino, chi si e chi no) e una partita a carte. Quest’anno che mi si è rotto il ferraiolo (mantello a ruota, con bavero) mi è venuta una gran quantità di geloni e per tre mesi un catarruccio unico, senza interruzione. Ecco: questo sono gli effetti di fare il servitore di persone non ricche (che combattono il cecio col fagiolo, altro proverbio), sebbene, a sentirli parlare, sono ricchi Epuloni (è una frase tolta dal Vangelo).

 

Le quartine.

Belli scrive questo sonetto mentre in carrozza sta viaggiando da Morrovalle (paesino tra Civitanova e Macerata) a Tolentino. Il protagonista del testo è un servitore che sta ragionando con un suo amico del tempo invernale, della neve, del freddo, e vuole illudersi –col proverbio della Candelora- che le intemperie stanno per finire e che si potrà tornare a vivere coi passatempi della primavera (giochi di carte e di vino, e soprattutto stare fuori a socializzare). La neve è blandita come sorella e maledetta come disgrazia: una nota evidente di come il poeta si fa gioco di questo poveraccio.

Sembra che metta i sentimenti al microscopio per poi guardarli da distanze lontane. Tutta questa gente povera vive alla giornata, tenta di resistere alle disgrazie mentre la vita li prende a cazzotti. Il poeta conosce e descrive il tempo minimo dei giorni umani.

Le terzine.

Nei versi ora c’è il ritratto a tutto tondo del pover’uomo, infreddolito da tre mesi e coperto di geloni, a causa del freddo patito nella casa dei padroni che sono dei ricchi finti, e che non hanno provveduto a dargli nemmeno un mantello che potesse difenderlo dal gelo.

C’è molta polvere autobiografica e ipocondriaca in questo patire il freddo. Profondità dell’ironia, gusto cinematografico dei particolari, scetticismo quasi tenero.

 

Due anni dopo, precisamente il 6 febbraio 1833, Belli scrive un sonetto che ha lo stesso titolo del precedente, ma:

 

Er tempo bbono

 

Una ggiornata come stamattina,

Senti, è un gran pezzo che nnun z’è ppiù ddata.

Ah bbene-mio! te senti arifiatata:

Te s’opre er core a nnun sta ppiù in cantina!                         4

 

Tutta la vorta der celo turchina:

L’aria odora che ppare imbarzimata:

Che ddilizzia! che bbella matinata!

Propio te disce: cammina-cammina.                                         8

 

N’avem’avute de ggiornate tetre,

Ma oggi se pò ddì una primavera.

Varda che Ssole va’: spacca le pietre.                                        11

 

Ammalappena c’ho ccacciato er viso

Da la finestra, ho ffatto stammatina:

Hah! Cche ttempo! è un cristallo: è un paradiso.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EAE).

 

Una giornata come quella che si preannuncia questa mattina, senti, è tanto che non si è presentata. Ah, bene mio! ti fa tirare un sospiro di sollievo, ti senti ristorata: ti si apre il cuore a non essere più al buio. Tutta la volta del cielo azzurra: l’aria profuma che pare imbalsamata: che delizia! che bella mattinata! Proprio ti invita a fare una bella passeggiata. Ne abbiamo avute di giornate scure, ma oggi si può dire che è primavera. Guarda che sole, guarda: spacca le pietre. Non appena ho messo fuori il viso dalla finestra stamattina, ho detto: Ah, che tempo! È un cristallo: è un paradiso.

I critici a proposito di questo sonetto hanno parlato di un Belli che coltiva “un sapore letterario, petrarchesco o arcadico, con dettagli quali il cuore che si apre sotto la volta turchina del cielo, l’aria di cristallo che olezza di balsami, l’atmosfera paradisiaca, la personificazione della mattinata. C’è una spontaneità popolaresca, vivacizzata dalla forma dialogica, e dalle inusuali onomatopee che riproducono il sollievo del corpo e il respiro a pieni polmoni”.

 

                                                                  Gennaro  Cucciniello